Una proposta per uscire dal muro contro muro con la Germania
di Francesco Grillo su Il Messaggero
Di eccessiva rigidità, di aspettative esagerate muoiono molti matrimoni: l’Euro, la stessa Unione Europea rischia di fare la stessa fine. Nonostante i vantaggi enormi che stare insieme agli altri ha prodotto per tutti i soci del club Europa. Tuttavia, una strategia di modifica del patto di stabilità vince solo se troviamo una proposta che segni la fine di una navigazione a vista fatta di cento micro aggiustamenti dettati dalle congiunture politiche nazionali. E gli argomenti per convincere da una parte i tedeschi che meccanismi poco intelligenti finiscono con il danneggiare lo stesso obiettivo della stabilità monetaria e i loro interessi; e dall’altra gli italiani che buona parte dei problemi che abbiamo non possono essere scaricati su un qualche nemico esterno e che essi necessitano cambiamenti profondi in gran parte da cominciare.
Può senz’altro funzionare l’idea di far partire una proposta dalla Francia, dall’Italia e dalla Spagna, ma solo se essa esprime, appunto, una strategia che tenga conto degli interessi di tutti. È francamente ridicolo invece, immaginare di voler allentare i vincoli imposti dall’adesione all’Euro “battendo il pugno sul tavolo”, come consiglia chi è pure azionista di maggioranza di questo Governo fingendo di dimenticare che se uscissimo dall’Euro il fallimento del Paese sarebbe praticamente automatico.
Il patto di stabilità è, con ogni evidenza, un contratto matrimoniale tra partner che, sin dall’inizio, fondavano il proprio sodalizio sull’idea di aver bisogno gli uni degli altri, ma anche su una profonda , reciproca diffidenza. Dopo dieci anni i motivi della sfiducia non sono stati dissipati. Eppure, tutti ci sono andati per molto tempo a guadagnare: i tedeschi hanno tolto di mezzo concorrenti meno efficienti ma che periodicamente ritrovavano capacità di esportare attraverso svalutazioni competitive; gli italiani continuano a risparmiare sei – sette punti della propria ricchezza nazionale, cioè novanta miliardi di Euro all’anno, che prima venivano buttati nella fornace degli interessi che paghiamo su un mostruoso debito pubblico costruito ben prima della introduzione della moneta unica. A distanza di dieci anni, il patto ha mostrato – dopo trenta mesi vissuti pericolosamente flirtando con l’ipotesi del default – di non funzionare più. La Germania rischia di assistere al prosciugamento di quello che è ancora il suo più importante mercato di sbocco; l’Italia ha bruciato la possibilità – sulla quale aveva scommesso chi aveva insistito sull’adesione – di mettere a posto la propria economia e, soprattutto, il proprio apparato pubblico promuovendone quella efficienza che con l’Euro diventava una strada obbligata.
Oggi le regole del patto – anche nella versione proposta dalla sua revisione (fiscal compact) – rischiano di far affogare chi nel frattempo non ha imparato a nuotare, di danneggiare l’Euro stesso e la stessa Germania.
Una proposta che possa essere condivisibile da tutti deve portare non già ad un generico allentamento, ma ad una migliore capacità delle regole di distinguere diverse tipologia di spesa pubblica. E allora la proposta può essere quella di valutare il rispetto dei patti non più anno per anno, ma con un orizzonte temporale che vada dai tre ai cinque anni.
In certe situazioni, certi investimenti, infatti, possono produrre un peggioramento immediato del rapporto tra deficit e PIL, che però può essere compensato nei due – quattro anni successivi. Questo perché quell’investimento produce nel tempo un aumento di ricchezza (e quindi del denominatore di quel rapporto che ci ossessiona) e contemporaneamente un aumento delle entrate tributarie che il maggior reddito genererebbe (e, quindi, una diminuzione del deficit).
Gli sforamenti, però, dovrebbero essere sempre e solo di questo tipo e concordati con la Commissione Europea. Questo ragionamento vale ad esempio per il cofinanziamento che Stato e Regioni devono assicurare per spendere i sessanta miliardi di euro di fondi strutturali che dovrebbero abbattersi sulla nostra economia nei prossimi sette anni. Il paradosso è che se non possiamo spendere perché vicinissimi al limite del tre per cento, continueremo per ogni euro “risparmiato” a perderne due: un euro di finanziamenti comunitari e un euro di tasse addizionali che i due euro di fondi strutturali possono generare.
Potrebbe andare bene, dunque, prevedere di avere – soprattutto in questa fase – orizzonti temporali più lunghi di un anno, perché altrimenti rischiamo di fare male all’obiettivo di lungo periodo di ridurre la spesa, ma anche quello della Germania che rischia di ritrovarsi partner disciplinati ma morti.
Ancora meglio, sarebbe, però, elaborare una proposta che tenga conto che all’interno dell’aggregato spesa pubblica ci sono cose molto diverse: alcune tecnicamente finanziano il non far nulla (pensioni erogate a chi ha meno di sessant’anni); altre danneggiano persino l’economia (gli eccessi di burocrazia); altre ancora, al contrario, producono sviluppo (alcune, selezionate opere pubbliche) o , addirittura, costruiscono futuro (educazione). A tali spese andrebbero applicate diverse percentuali sul PIL alle quali ridurle o alle quali, al contrario, incrementarle (con un criterio simile a quello applicato dall’agenda che l’Europa si da per il 2020 ma con una visibilità politica molto maggiore).
A quel punto, le sanzioni per non aver rispettato patti condivisibili dagli stessi cittadini europei, dai partiti politici che vogliono un europeismo non più sulla difensiva, potrebbero essere molto più pesanti, anche perché violarle costerebbe ai furbi consenso politico. Superare il gioco a “somma zero” di potenti che fanno finta di combattersi e proporsi come il motore di un cambiamento attraverso il quale possiamo ritrovare la crescita: sarebbe questa strategia che i leader di Italia, Francia, Spagna e Germania dovrebbero cercare prima e dopo i comunicati alla fine dei vertici.
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