Terrorismo e Economia. Cosa genera il sonno della ragione
di Francesco Grillo
“L’obiettivo del terrorismo è, appunto, terrorizzare; proprio come quello dell’omicidio è uccidere; ed il
potere è definito dal potere in se che è il suo unico fine”. È George Orwell a dare la migliore (e più
semplice) definizione di cosa è il terrorismo nel famoso libro (1984) che racconta cosa stiamo diventando.
L’unico filo rosso che unisce, dunque, le brigate rosse ai fondamentalisti islamici è il fatto che la finalità
ultima dei loro atti è quella di produrre, attraverso il terrore, una reazione da parte delle opinioni pubbliche
e delle classi dirigenti di intensità uguale e direzione opposta; in maniera tale da aumentare il livello di
scontro e la capacità di fare proseliti disposti a combattere per il proprio disegno politico.
Ma cosa produce all’inizio questo terrorismo che ha la capacità di alimentarsi della rabbia dei suoi nemici?
Qual è il legame tra terrorismo ed economia? Sono figli della crisi i soldati – arabi e occidentali – che si
arruolano da volontari negli eserciti della “guerra santa”? Ed in che misura è vero che è la povertà delle
periferie (ad esempio, di Parigi) il brodo di cultura del terrore che dobbiamo urgentemente prosciugare?
Alan Krueger, il professore di Princeton che presiede il Council dei consulenti economici di Barack Obama,
ha scritto qualche anno fa uno dei pochissimi libri che cerca di studiare la relazione tra terrorismo – definito
come nella citazione di Orwell – e le principali variabili economiche e sociali. Il risultato più sicuro è che il
numero di attacchi terroristici non aumentano, come qualcuno ci si aspetterebbe, con il diminuire del tasso
di crescita dell’economia: essi sono molto cresciuti negli ultimi dieci anni, proprio nel periodo di più elevata
crescita dell’economia globale. Non è vero, inoltre, che i terroristi nascono nel Sud del mondo per assaltare
il Nord ricco: il 90% delle vittime sono mussulmani, con l’Iraq e il Pakistan che da soli contano la metà delle
vittime. Non è, infine, vero che – come hanno sostenuto erroneamente alcuni Presidenti degli Stati Uniti –
quanto più un individuo è povero o poco istruito, tanto più aumenta la possibilità che diventi terrorista: la
biografia dei terroristi che realizzarono il più famoso degli attacchi terroristici della storia a Manhattan,
dimostra che, al contrario, il background ideale è quello di persone che vengono da classi almeno medie e
che hanno avuto la possibilità di rafforzare attraverso lo studio le proprie convinzioni e la conoscenza del
“nemico”.
Indubbiamente per compiere un’azione il cui successo dipende dall’assoluta disponibilità a sacrificarvi la
propria vita, bisogna essere “disperati” e, magari, disoccupati come i fratelli Kouachi. Ma è una
disperazione diversa da quella di chi si trova nei villaggi rasi al suolo in Nigeria dai terroristi di Boko Haram o
da quella dei piccoli imprenditori italiani che di fronte all’ennesima cartella esattoriale hanno preferito
togliersi la propria di vita piuttosto che fare violenza agli altri. Perché alla disperazione deve unirsi un
progetto politico che chiama all’azione. Un’ideologia, un’idea di un mondo che possa essere diverso qui o
nell’aldilà e qualcuno capace di fornirla. Il terzo terrorista di Parigi aveva provato entusiasmo per
un’iniziativa di Sarkozy per creare occupazione tra i giovani, prima di convincersi che non c’è alcuna
possibilità di cambiare il mondo attraverso strumenti normali e convertirsi alla follia di Al-Baghdadi.
Dunque non è, in se, la crescita economica o il reddito pro capite che prevale in un certo Paese a rendere
più probabile il terrore. Esso, invece, può trovare terreno fertile tra i giovani che non lavorano e neppure
studiano (in Europa ci sono sei milioni di individui sui quali si è scaricato quasi per intero il costo della crisi)
e dove la democrazia fa fatica ad includere e gli esclusi cominciano a credere in un progetto radicalmente
alternativo. Più della crescita globale mai così forte, conta, dunque, la diseguaglianza che non è mai stata
così grande: secondo un recente studio del Credit Suisse l’8,6% della popolazione mondiale detiene l’85,3%
della ricchezza del mondo. Essa divide, però, non più gli Stati ricchi e quelli poveri, ma all’interno degli stessi
Stati pochissimi milionari e tantissimi la cui sopravvivenza dipende dal proprio lavoro: ciò produce conflitti
che sono regolati quindi sempre meno dalle guerre tra Paesi, e sempre di più attraverso scontri all’interno
di essi.
Più precisamente ciò che genera terrorismo è la disintegrazione di una Società in pezzi che non riescono più
a comunicare, a regolare i conflitti attraverso ciò che chiamiamo democrazia. E tra le quali non è più
possibile per un individuo transitare: del resto, è la mobilità sociale che spiega perché gli Stati Uniti hanno
conosciuto – almeno fino all’11 Settembre – poco conflitto di classe e, persino, poco terrorismo.
Ad osservare i numeri verrebbe da dire che, dunque, una società aperta diventa meno vulnerabile solo se
riesce ad aprirsi di più e con maggiore intelligenza. Se riesce ad essere più mobile, il contrario di ciò che
suggerisce chi vorrebbe più muri; se rafforza o forse reinventa una democrazia capace di includere
chiunque paghi le tasse (inclusi gli immigrati), invece di rattrappirsi ulteriormente; se riesce a passare
dall’idea dell’integrazione (o del multiculturalismo o della tolleranza come semplice accettazione) ad una
più avanzata di incontro dinamico tra visioni diverse del mondo che si innovano interagendo (e
competendo che è nozione diversa da quella di chi stancamente continua a raccomandare dialogo). Se si
pone – sul piano economico – l’obiettivo di aumentare il numero di giovani che hanno un lavoro
sufficientemente stabile o studiano (in Italia si trovano un quarto di quelli che non lo fanno in Europa e
questa è, forse, la notizia più preoccupante per il Ministro degli Interni) che è un aspetto collegato ma non
coincidente con la crescita.
Certo tutto ciò può essere visto in contraddizione con l’esigenza più immediata di evitare che, come è
successo a Parigi, un manipolo di guerrieri improbabili riescano a tenere sotto scacco centinaia di migliaia di
poliziotti, dopo aver colpito bersagli così clamorosamente annunciati da tempo. Con la necessità di colpire
all’origine e in maniera definitiva le fonti dalle quali arrivano armi, finanziamenti, assistenza logistica e
addestramento. Ma la contraddizione è apparente: si tratta di essere molto più efficienti sul presidio del
territorio e sulla richiesta che la dichiarazione dei diritti dell’uomo sia rispettata ovunque, in Siria così come
in Europa (e ciò richiede un’integrazione degli apparati di sicurezza e di difesa sulla quale siamo in ritardo di
quattordici anni); e, contemporaneamente, essere molto più inclusivi dando alla stessa dichiarazione
universale il significato attivo che chiunque la sottoscrive deve avere un’opportunità.
È stato bello vedere ieri nella città che ha fatto la rivoluzione che ha sancito che tutti gli uomini nascono
uguali, vedere Abu Mazen e Benjamin Netanyahu stringersi attorno alla stessa bandiera. Alla fine, però, ciò
che conta è l’intelligenza che dimostreremo giorno per giorno. La capacità di ragionare di più, proprio
quando gli eventi incoraggiano il sonno della ragione. Se l’obiettivo dei terroristi è, come dice Orwell, quello
di diffondere la paura per vincere dove le armi della politica e quelle della guerra sono spuntate, allora
questa è una sfida non tanto tra noi e gli altri. Ma tra noi e noi stessi. Tra il progresso ed il fanatismo che ne
è l’ineliminabile alter ego. Tra la voglia di andare avanti e quella – che pericolosamente si insinua in
Occidente – di chiuderci in difesa di ciò che abbiamo e che si sta sgretolando.
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