Rendere permanente la spending review
di Francesco Grillo
Qual è il fattore che più di ogni altro misurerà la serietà dell’intenzione di Matteo Renzi di finanziare gli investimenti in futuro con una revisione permanente della spesa pubblica?
Ad un alto funzionario dello Stato che commentava la grande difficoltà che l’Italia ha nell’utilizzare i finanziamenti che la Commissione Europea destina allo sviluppo delle Regioni italiane, è capitato qualche giorno fa di ammettere: “abbiamo sprecato decine di miliardi di Euro, quelli utilizzati hanno dato risultati scarsi, anche se ovviamente ciò non è colpa di nessuno in particolare”.
L’esempio può forse essere utile a chiarire i termini della rivoluzione nella Pubblica Amministrazione che Matteo Renzi ha promesso come la prima delle grandi riforme che caratterizzerà il suo governo: essa sarà compiuta solo quando nessuno più tra gli statali potrà ancora dire – con una certa legittimità peraltro – che dei fallimenti “nessuno ha colpa”; e le stesse revisioni della spesa pubblica diventeranno permanenti – così come sarà finalmente duratura la fiducia delle cancellerie europee nel nuovo corso italiano – quando ci saremo assicurati che chiunque gestisca anche un solo Euro spremuto a contribuenti senza più fiato, risponda personalmente dei risultati ottenuti. E questo, dunque, il fronte – economico e valoriale – sul quale il Premier si gioca la battaglia interna per conquistarsi la credibilità da spendersi all’esterno per ottenere maggiore flessibilità. Vincerla però richiede che ad essere resi strutturali siano non solo i tagli ma lo stesso processo di revisione della spesa: ciò comporta un superamento dello stesso metodo che ha visto lo Stato affidare a persone pur valide – come Cottarelli e prima Bondi – quello che ha, comunque, i meriti ed i limiti tipici di un incarico di consulenza.
Ha fatto bene il commissario il suo lavoro: ha indicato con prudenza i risparmi ottenibili evidenziando le condizioni – in termini di mobilità del personale e modifica di diritti acquisiti – indispensabili per realizzare i risparmi; ha ricordato che le riduzioni di spesa sono al lordo degli effetti che esse possono avere in termini di impatto negativo sul fatturato dei fornitori e, dunque, di minori entrate; e, soprattutto, sembra aver segnato la fine dei tagli lineari perché ha individuato con una certa precisione i settori sui quali è possibile una razionalizzazione e quelli – prima di tutti la scuola e la cultura – nei quali la necessità è, al contrario, quella di aumentare le risorse.
E, tuttavia, sono tre i limiti che il lavoro di Cottarelli aveva nel suo stesso mandato: l’obiettivo era, infatti, sin dall’inizio quello della riduzione della spesa pubblica e non già di una revisione della sua composizione per aumentarne la produttività; le regole entro le quali l’esercizio si è svolto sono date e senza una loro modifica il risultato continua ad essere relativamente piccolo (a regime la stima è quello di un decremento della spesa inferiore al cinque per cento); l’incarico svolto ha carattere straordinario e, al momento, non è chiaro né chi sarà responsabile dell’implementazione delle misure identificate e, neppure chi – valutando gli effetti del piano appena presentato – avrà il compito di ripetere l’operazione nei prossimi anni.
Ed allora per convincere, in maniera duratura, sarà necessario andare “oltre Cottarelli”, come lo stesso Cottarelli, chiede tra le righe delle sue diapositive. Per riuscirvi sono indispensabili almeno tre condizioni.
In primo luogo, bisogna rendere sistematica, obbligatoria, rilevante per le carriere e gli stipendi dei dirigenti, la valutazione. È questo il vero vincolo che andava, forse, messo in Costituzione, più ancora di quello sul pareggio di bilancio: chiunque gestisce soldi pubblici, lo fa rispondendo di obiettivi misurati da pochissimi indicatori, in maniera che la sua prestazione sia controllabile non solo dallo Stato ma dai cittadini. Se ciò si realizzasse, non necessariamente agli stipendi dei dirigenti andrebbe messo un tetto: chi fornisce ai contribuenti un vantaggio straordinario va premiato; ma chi fallisce ripetutamente deve lasciare il proprio incarico.
La seconda condizione è quella di una revisione dei metodi della contabilità pubblica e dei processi di definizione delle previsioni di spesa per il futuro. Al momento, leggendo il bilancio pubblico, non so neppure quanti poliziotti lavorano in ufficio rispetto a quanti sono in strada a presidiare l’ordine pubblico, e i volumi di spesa sono fissati quasi esclusivamente applicando variazioni percentuali ai livelli dell’anno precedente. In futuro, come dice il Ministro della Difesa, Pinotti, le risorse assorbite da una qualsiasi politica pubblica si farà partendo da un’analisi su quali sono i bisogni di un Paese rispetto, ad esempio, alla necessità di difendersi date le attuali condizioni tecnologiche e di integrazione in un contesto internazionale: e forse è su queste basi che mi accorgerò che oggi gli eserciti hanno meno bisogno di navi e di caccia, e di più droni e controllo del territorio.
In terzo luogo, bisognerà rimuovere i vincoli – gli stessi sommessamente ricordati da Cottarelli – che inevitabilmente fanno partorire alle montagne – come quella della cancellazione delle Province – topolini ridicoli che valgono qualche centinaia di milioni di Euro. Vincoli che sono, soprattutto, in termini di intoccabilità dei dipendenti pubblici che è, ormai, un totem al quale la stessa Pubblica Amministrazione sta sacrificando il suo futuro: del resto, è l’aritmetica a dire che l’effetto congiunto della immobilità del personale e dell’aumento dell’età pensionabile, non poteva che essere il blocco del turn over e l’invecchiamento progressivo degli uffici e, dunque, ulteriori perdite di consenso.
Rendere permanente i processi di revisioni della spesa: la chiave politica vera è quella di riuscire a convincere i sindacati e gli stessi dipendenti pubblici che certe protezioni sono il macigno che zavorra, non solo, l’intera società italiana, ma anche chi vorrebbe tornare a poter produrre benessere per tutti.
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