Rassegnatevi, l’innovazione devasterà il vostro modello di business
Ieri, leggendo di questa assurdità (clicca qui) pensavo -tra me e me- potesse trattarsi di uno scherzo: sinceramente, non avevo mai sentito parlare di forze dell’ordine intente a dar la caccia a quelli che di fatto sono i fattori produttivi di un servizio offerto tramite app (nel caso di specie i conducenti di autovetture del circuito UBER). UBER altro non è che uno dei tanti disruptors (devastatori) dei modelli di business -quello dei poveri tassisti nel caso dell’articolo di cui sopra- conosciuti sino ad oggi; una delle tante innovazioni che ha mandato in soffitta per sempre quel tipo di attività, quel modello organizzativo, quell’idea di servizio. E’ bene che tutti, dal fabbro al grande imprenditore che gestisce un’ attività con una storia pluridecennale, se ne facciano una ragione: tecnologie sempre più evolute continueranno a comparire sui e a scomparire dai mercati senza sosta, contribuendo a creare beni e servizi in grado di competere simultaneamente su 3 livelli:
-
prezzo;
-
prestazioni;
-
personalizzazione.
Sarà perfettamente inutile appellarsi al legislatore per ottenere la protezione giuridica (ben diversa da quella che solo l’apprezzamento segnalato dal mercato può offrire) di una supply chain superata dal corso degli eventi: l’imprenditore che non riesce a scorgere la nascita di disruptors prima dei suoi clienti è destinato al ridimensionamento e/o al fallimento. Siamo oltre l’era di Michael Porter, di Clayton Christensen e del suo “Innovator’s Dilemma”, di W. Chan Kim e Renée Mauborgne e del loro “ Blue Ocean Strategy”; il tempo a noi contemporaneo è quello in cui i disruptors attaccano i mercati a livello tridirezionale, offrendo -grazie a crescita esponenziale e costi sempre più bassi delle nuove tecnologie- beni e servizi migliori, più economici e più personalizzati. Pensare di poter innovare selettivamente processi produttivi e prodotti mentre il resto del mercato resta immobile è semplicemente anacronistico. Pensiamo un attimo a come Google Maps Navigation abbia devastato i mercati di Garmin, Tom Tom e Magellan, offrendo agli utenti un servizio gratuito: 18 mesi dopo il lancio delle mappe del primo, i secondi avevano perso circa l’85% della capitalizzazione di mercato. I disruptors se ne fottono altamente delle tradizionali regole della concorrenza, non considerando gli incumbents (aziende mature) e i loro prodotti come concorrenti o modelli oggetto di studio. Entrano nel mercato e spazzano via le imprese esistenti alla velocità della luce: quando qualcuno se ne accorgerà non ci sarà tempo per organizzare una risposta competitiva efficace. Si tratta di diversità dimensionale, quasi fisica direi: mentre alcuni settori produttivi chiedono protezione ad una classe politica totalmente inadeguata, marcia ed incompetente, attraverso l’approvazione di leggi e provvedimenti paleozoici, i disruptors applicano alla legge del mercato (l’unica che conta) la legge di Moore in versione riveduta e corretta; nel caso dei taxi, anziché cercare di replicare -migliorandoli ulteriormente- i modelli di Lyft, SideCar ed Uber, vengono chieste multe e ritiri delle carte di circolazione, suscitando spesso le proteste dei consumatori poco disposti ad abbandonare servizi migliori e più economici. Mentre gli incumbents italiani si affidano al parlamento dei Razzi, dei Scilipoti, dei Lupi, le aziende innovatrici si affidano agli hackatons, produttori di idee rivoluzionarie realizzate in pochissimo tempo – senza necessità di alcun approvazione dell’ufficio legale o del CEO- grazie all’ampia disponibilità di componenti off-the-shelf posti alla base di sistemi di produzione modulare, in grado di garantire economie di scala crescenti. Il marketing dei loro prodotti è trainato dai consumatori e non diffuso presso di loro; sfruttano i big data in grado di fornire loro informazioni di mercato quasi perfette. Applicano strategie indisciplinate in grado di garantire costi di creazione costantemente in calo; godono di crescita potenzialmente illimitata alimentata dai sempre più contenuti costi di sperimentazione (divenuti inferiori a quelli “da rimpianto”) di quelle idee coltivate tramite crowdsourcing, strutturalmente idonee a garantire returns on combines (ritorni sulle combinazioni) sempre più elevati, rispetto ai returns on designs (ritorni sulle progettazioni). La circostanza che vede la devastazione dei modelli business generata da una serie di esperimenti quasi casuali, inerenti componenti apparentemente privi di qualsiasi nesso funzionale, produttivo, casuale, fornisce alle aziende incumbent il falso segnale di un’ assoluta quiete nel segmento di riferimento, disincentivandole a predisporre una risposta competitiva. Negli anni ’80 il business dei flippers era enorme: nel 1992 la spesa sostenuta dagli americani per questo tipo di intrattenimento era pari alla metà di quella sostenuta per andare al cinema; nel 1993 i fabbricanti vendettero circa 130 mila nuovi flipper; nel 1994 la Sony lanciò la Play Station 1 con annessa celebrazione dei nuovi emotion engines. Dal 1994 al 1998 le vendite di flipper crollarono fino 15 mila unità all’anno, divenute meno di 10 mila nel 1999. Ma a crollare non fu solo l’industria dei flippers, vittima collaterale di un disruptor che non aveva neanche intenzione di competere con questo genere di prodotto, ma anche Sega nonché le decine di sale giochi presenti a New York, fra cui la Broadway Arcade, meta preferita dei VIP amanti dei videogames. Oggi il mercato dei flippers è limitato al settore dell’arredamento, in un segmento -molto contenuto- composto da utenti domestici; chi pensa che questa sia la brutta fine di un’industria gloriosa, forse non sa che quella che aspetta a chi si ostina a chiedere aiuto al legislatore anziché concentrare risorse in ricerca e sviluppo, sarà ancor peggiore.
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