Quello che abbiamo visto a Pechino
C’è molta simpatia verso il Belpaese e una conoscenza dettagliata del nostro sistema di piccole e medie imprese volta al miglioramento delle imprese cinesi. Matteo Orfini e Enzo Amendola – Europa
La delegazione del Pd ha avuto la possibilità di interloquire con dirigenti del Pcc proprio nelle ore della chiusura del plenum. C’è molta simpatia verso il Belpaese e una conoscenza dettagliata del nostro sistema di piccole e medie imprese volta al miglioramento delle imprese cinesi.
La frenata dell’economia cinese, rispetto alla prevista crescita del 7,5% del Pil, non è una notizia che fa discutere solo la classe dirigente di Pechino ma muove i destini delle principali piazze mondiali a partire da Wall Street, dove nessuno si sorprende per l’interdipendenza strettissima con le mosse dell’Impero di Mezzo. Per questo, tutti i riflettori erano puntati nei giorni scorsi sul quarto plenum del comitato centrale del Partito comunista cinese. Con una delegazione del Pd abbiamo avuto la possibilità di interloquire con dirigenti del Pcc proprio nelle ore della chiusura del plenum.
A sorpresa è stato diramato il comunicato ufficiale dal conclave segreto e la dichiarazione finale, più che sulla contingenza economica, si è concentrata sullo stato di diritto e la funzionalità delle istituzioni. Tradotto, la lotta alla corruzione dilagante ai livelli locali dove la commistione tra potere politico e organi di controllo, ovviamente non autonomi, ha fatto scoppiare una “bolla corruttiva” preoccupante per i vertici del partito. Sul tema aveva avuto gran eco il processo di Bo Xilai, proprio all’inizio della presidenza di Xi Jinping, che molti osservatori avevano letto come frutto di una conta interna, tra le diverse correnti del partito, portata avanti con altri mezzi.
In tutti i casi la corruzione, combattuta oggi anche con “tribunali mobili” di secondo grado, è un tema di conversazione con i visitatori stranieri; una novità interessante per una classe dirigente che vuole portare la Cina al vertice dell’economia mondiale, non accontentandosi più di avere il marchio di “fabbrica del mondo” o semplice prestatore di liquidità ma gelosa, agli occhi esterni, dei suoi meccanismi di funzionamento politico.
Ad una prima lettura ci si chiede se magari la tendenza è verso la divisione dei poteri, esecutivo e giudiziario nel caso, tipico delle democrazie liberali. Tuttavia appare piuttosto una manovra di contenimento decisa dal comitato permanente dell’ufficio politico, i 7 uomini più potenti della Cina, verso i suoi 83 milioni di iscritti per debellare un virus, commistione tra governo e affari, che mina l’ascesa impetuosa della Cina. Tutto in linea con le scelte dei precedenti plenum e della strategia di “riforme e apertura” che non prevede ancora di intaccare il monopartitismo.
Questo scenario scontenta chi si accosta alle vicende del colosso asiatico con il paradigma che alle libertà economiche diffuse seguano rapidamente riforme istituzionali. Infatti le scelte e l’agenda della politica locale hanno una narrativa chiara negli incontri, dal ministero degli esteri al Politburo del Pcc, senza diplomatismi di maniera, ma legata a visioni pragmatiche di chi sta tentando di portare a stabile profitto la rivoluzione avviata da Deng a fine anni ’70. In questa stagione, sotto la guida di Xi Jinping, la priorità è uno “sviluppo di qualità”, sostenibile nella dimensione sociale ed ambientale, con consumi interni sostenuti e non più basato su una manifattura di bassa qualità tecnologica e bassi salari. Impetuosi sono stati gli investimenti esteri finalizzati anche ad una crescita di competenze nel mondo della produzione per innervare l’industria cinese di un know-how tecnologico spesso poco competitivo.
«Siamo fieri del rapporto con l’Italia, dello scambio di visite tra Renzi e il nostro primo ministro Li Keqiang, che ha portato accordi per 10 miliardi di dollari» ci dice Ren Hongbin all’Accademia del ministero del commercio. Un dato impressionante non solo per la simpatia verso il Belpaese, salito rapidamente ai vertici dei partner cinesi per investimenti, ma per la conoscenza dettagliata del nostro sistema di piccole e medie imprese volta al miglioramento delle imprese cinesi. Una analisi che certamente farebbe rabbrividire i protezionisti di casa nostra ma entusiasmerebbe un ascoltatore non intimorito dalla chiosa di Hongbin «nel nostro interscambio quello che vorremmo far crescere è la ricerca, adesso troppo bassa, puntando su università e centri di eccellenza».
Infatti la Cina non raffredda i suoi livelli di produzione interna, stabilizzando il Pil dal 9% del passato al 7,5% previsionale, per un calcolo pessimistico o perché stretta tra la paura per la possibile bolla immobiliare, figlia di una urbanizzazione scriteriata, e una corruzione che corrode le leve del potere locale.
Piuttosto il timore è quello di aver toccato i vertici dell’economia mondiale con uno sviluppo carente di coesione sociale e arretrato dal punto di vista del valore aggiunto rispetto al suo principale rivale ed alleato economico di oltrepacifico, proprio adesso che è partita la guerra commerciale globale.
Non a caso, proprio sul grande scacchiere delle rotte dello scambio, la Cina pianifica una “via della seta del Ventunesimo secolo” per via marittima, toccando tutti i continenti, sorretta da un nuovo canale per solcare gli oceani da costruire in Nicaragua, competitivo rispetto al raddoppio del canale di Panama.
Gli Usa inseguono la supremazia commerciale nel Pacifico con il Tpp (Transpacific partnership agreement) per unire 800 milioni di persone, escludendo la Cina, e nell’Atlantico con il Ttip (Transatlantic trade and investment partnership) per legare Usa e Ue. Dietro queste scelte si staglia il blocco operativo del Wto, il neoprotezionismo dei Brics e la ripresa necessaria, per aggirare lo stallo, di accordi bilaterali o multilaterali collegati da geostrategie comuni. Anche la Cina non si fa trovare impreparata sul punto, e mentre ha aperto a 100 sui 167 settori di servizio richiesti dal Wto, ha siglato più di 20 trattati bilaterali di commercio.
A tutto ciò si aggiunge la sfida moderna per la supremazia nel Pacifico al di là delle rotte commerciali, che si muove su nuove linee di scontro geopolitico ben più pericolose. Le tensioni sono cresciute visto l’attivismo cinese nel mare continentale scuotendo i paesi limitrofi con dispute sulle acque territoriali e la ricerca di materie prime off shore. La reazione Usa non si è fatta attendere frutto della tradizionale politica di protettorato verso i paesi minacciati dall’egemonismo cinese. In fin dei conti, se dal punto di vista economico tra gli Usa, con la sua teoria del “pivot to Asia”, e la Cina, con la sua “via della seta”, una convivenza è necessaria, al contempo è ipotizzabile che sul terreno delle alleanze militari si possa sviluppare la “cool war” di cui parla Noah Feldman.
Infatti le relazioni e gli scambi di merce e liquidità hanno saldato in un destino comune i due giganti, che sul piano della libertà del capitalismo non vivono il muro e le distanze tipiche della vecchia “cold war”. La partnership competitiva è nei fondamenti della loro relazioni poiché la Cina da magazzino della produzione del mondo si è trasformata in prestatore di risorse Usa sviluppando una coesistenza economica evidente tra le prime due economie del globo. Ma i rischi da “guerra fresca” sono piuttosto su altri versanti geopolitici dove la convivenza tra le due ambizioni possono irrigidire le distanze tra Washington e Pechino su faglie conflittuali, a partire da quella più esplosiva che è Taiwan.
In questo contesto si intuisce la determinazione verso la nostra insistenza, con i vertici del ministero degli esteri e del dipartimento esteri del Pcc, sul tema Hong Kong. «Interferenze esterne» oppure «quando Hong Kong era inglese non si tenevano elezioni», sono le risposte di forma che non spiegano il fenomeno di protesta giovanile nell’importante autonomo centro finanziario sotto bandiera cinese. La sfida di Hong Kong è paradigmatica e mette in discussione la tenuta dell’assetto “due sistemi-uno stato”, schema istituzionale che la Cina vorrebbe consolidare se non esportare ad altri stati satellite; un modello che se esplodesse nella ex colonia britannica avrebbe conseguenze più complicate per l’aspirazione da grande potenza.
Ma per sfatare i pessimismi su una convivenza tra le due superpotenze un ruolo lo potrà avere sicuramente l’Europa unita che non si rinchiude solo nei benefici dell’interscambio commerciale. Il modello di integrazione europeo, paradossalmente oggi in crisi tra i 28, è molto apprezzato a Pechino, analizzato nei suoi fondamenti storici, esaltato poiché si è realizzato con l’aumento graduale di scambi economici e la parallela integrazione di istituzioni giuridiche che hanno allontanato i rischi di guerra. Un antidoto ad un multilateralismo troppo debole dinanzi ai nuovi rischi globali.
Fonte: Europa
La frenata dell’economia cinese, rispetto alla prevista crescita del 7,5% del Pil, non è una notizia che fa discutere solo la classe dirigente di Pechino ma muove i destini delle principali piazze mondiali a partire da Wall Street, dove nessuno si sorprende per l’interdipendenza strettissima con le mosse dell’Impero di Mezzo. Per questo, tutti i riflettori erano puntati nei giorni scorsi sul quarto plenum del comitato centrale del Partito comunista cinese. Con una delegazione del Pd abbiamo avuto la possibilità di interloquire con dirigenti del Pcc proprio nelle ore della chiusura del plenum.
A sorpresa è stato diramato il comunicato ufficiale dal conclave segreto e la dichiarazione finale, più che sulla contingenza economica, si è concentrata sullo stato di diritto e la funzionalità delle istituzioni. Tradotto, la lotta alla corruzione dilagante ai livelli locali dove la commistione tra potere politico e organi di controllo, ovviamente non autonomi, ha fatto scoppiare una “bolla corruttiva” preoccupante per i vertici del partito. Sul tema aveva avuto gran eco il processo di Bo Xilai, proprio all’inizio della presidenza di Xi Jinping, che molti osservatori avevano letto come frutto di una conta interna, tra le diverse correnti del partito, portata avanti con altri mezzi.
In tutti i casi la corruzione, combattuta oggi anche con “tribunali mobili” di secondo grado, è un tema di conversazione con i visitatori stranieri; una novità interessante per una classe dirigente che vuole portare la Cina al vertice dell’economia mondiale, non accontentandosi più di avere il marchio di “fabbrica del mondo” o semplice prestatore di liquidità ma gelosa, agli occhi esterni, dei suoi meccanismi di funzionamento politico.
Ad una prima lettura ci si chiede se magari la tendenza è verso la divisione dei poteri, esecutivo e giudiziario nel caso, tipico delle democrazie liberali. Tuttavia appare piuttosto una manovra di contenimento decisa dal comitato permanente dell’ufficio politico, i 7 uomini più potenti della Cina, verso i suoi 83 milioni di iscritti per debellare un virus, commistione tra governo e affari, che mina l’ascesa impetuosa della Cina. Tutto in linea con le scelte dei precedenti plenum e della strategia di “riforme e apertura” che non prevede ancora di intaccare il monopartitismo.
Questo scenario scontenta chi si accosta alle vicende del colosso asiatico con il paradigma che alle libertà economiche diffuse seguano rapidamente riforme istituzionali. Infatti le scelte e l’agenda della politica locale hanno una narrativa chiara negli incontri, dal ministero degli esteri al Politburo del Pcc, senza diplomatismi di maniera, ma legata a visioni pragmatiche di chi sta tentando di portare a stabile profitto la rivoluzione avviata da Deng a fine anni ’70. In questa stagione, sotto la guida di Xi Jinping, la priorità è uno “sviluppo di qualità”, sostenibile nella dimensione sociale ed ambientale, con consumi interni sostenuti e non più basato su una manifattura di bassa qualità tecnologica e bassi salari. Impetuosi sono stati gli investimenti esteri finalizzati anche ad una crescita di competenze nel mondo della produzione per innervare l’industria cinese di un know-how tecnologico spesso poco competitivo.
«Siamo fieri del rapporto con l’Italia, dello scambio di visite tra Renzi e il nostro primo ministro Li Keqiang, che ha portato accordi per 10 miliardi di dollari» ci dice Ren Hongbin all’Accademia del ministero del commercio. Un dato impressionante non solo per la simpatia verso il Belpaese, salito rapidamente ai vertici dei partner cinesi per investimenti, ma per la conoscenza dettagliata del nostro sistema di piccole e medie imprese volta al miglioramento delle imprese cinesi. Una analisi che certamente farebbe rabbrividire i protezionisti di casa nostra ma entusiasmerebbe un ascoltatore non intimorito dalla chiosa di Hongbin «nel nostro interscambio quello che vorremmo far crescere è la ricerca, adesso troppo bassa, puntando su università e centri di eccellenza».
Infatti la Cina non raffredda i suoi livelli di produzione interna, stabilizzando il Pil dal 9% del passato al 7,5% previsionale, per un calcolo pessimistico o perché stretta tra la paura per la possibile bolla immobiliare, figlia di una urbanizzazione scriteriata, e una corruzione che corrode le leve del potere locale.
Piuttosto il timore è quello di aver toccato i vertici dell’economia mondiale con uno sviluppo carente di coesione sociale e arretrato dal punto di vista del valore aggiunto rispetto al suo principale rivale ed alleato economico di oltrepacifico, proprio adesso che è partita la guerra commerciale globale.
Non a caso, proprio sul grande scacchiere delle rotte dello scambio, la Cina pianifica una “via della seta del Ventunesimo secolo” per via marittima, toccando tutti i continenti, sorretta da un nuovo canale per solcare gli oceani da costruire in Nicaragua, competitivo rispetto al raddoppio del canale di Panama.
Gli Usa inseguono la supremazia commerciale nel Pacifico con il Tpp (Transpacific partnership agreement) per unire 800 milioni di persone, escludendo la Cina, e nell’Atlantico con il Ttip (Transatlantic trade and investment partnership) per legare Usa e Ue. Dietro queste scelte si staglia il blocco operativo del Wto, il neoprotezionismo dei Brics e la ripresa necessaria, per aggirare lo stallo, di accordi bilaterali o multilaterali collegati da geostrategie comuni. Anche la Cina non si fa trovare impreparata sul punto, e mentre ha aperto a 100 sui 167 settori di servizio richiesti dal Wto, ha siglato più di 20 trattati bilaterali di commercio.
A tutto ciò si aggiunge la sfida moderna per la supremazia nel Pacifico al di là delle rotte commerciali, che si muove su nuove linee di scontro geopolitico ben più pericolose. Le tensioni sono cresciute visto l’attivismo cinese nel mare continentale scuotendo i paesi limitrofi con dispute sulle acque territoriali e la ricerca di materie prime off shore. La reazione Usa non si è fatta attendere frutto della tradizionale politica di protettorato verso i paesi minacciati dall’egemonismo cinese. In fin dei conti, se dal punto di vista economico tra gli Usa, con la sua teoria del “pivot to Asia”, e la Cina, con la sua “via della seta”, una convivenza è necessaria, al contempo è ipotizzabile che sul terreno delle alleanze militari si possa sviluppare la “cool war” di cui parla Noah Feldman.
Infatti le relazioni e gli scambi di merce e liquidità hanno saldato in un destino comune i due giganti, che sul piano della libertà del capitalismo non vivono il muro e le distanze tipiche della vecchia “cold war”. La partnership competitiva è nei fondamenti della loro relazioni poiché la Cina da magazzino della produzione del mondo si è trasformata in prestatore di risorse Usa sviluppando una coesistenza economica evidente tra le prime due economie del globo. Ma i rischi da “guerra fresca” sono piuttosto su altri versanti geopolitici dove la convivenza tra le due ambizioni possono irrigidire le distanze tra Washington e Pechino su faglie conflittuali, a partire da quella più esplosiva che è Taiwan.
In questo contesto si intuisce la determinazione verso la nostra insistenza, con i vertici del ministero degli esteri e del dipartimento esteri del Pcc, sul tema Hong Kong. «Interferenze esterne» oppure «quando Hong Kong era inglese non si tenevano elezioni», sono le risposte di forma che non spiegano il fenomeno di protesta giovanile nell’importante autonomo centro finanziario sotto bandiera cinese. La sfida di Hong Kong è paradigmatica e mette in discussione la tenuta dell’assetto “due sistemi-uno stato”, schema istituzionale che la Cina vorrebbe consolidare se non esportare ad altri stati satellite; un modello che se esplodesse nella ex colonia britannica avrebbe conseguenze più complicate per l’aspirazione da grande potenza.
Ma per sfatare i pessimismi su una convivenza tra le due superpotenze un ruolo lo potrà avere sicuramente l’Europa unita che non si rinchiude solo nei benefici dell’interscambio commerciale. Il modello di integrazione europeo, paradossalmente oggi in crisi tra i 28, è molto apprezzato a Pechino, analizzato nei suoi fondamenti storici, esaltato poiché si è realizzato con l’aumento graduale di scambi economici e la parallela integrazione di istituzioni giuridiche che hanno allontanato i rischi di guerra. Un antidoto ad un multilateralismo troppo debole dinanzi ai nuovi rischi globali.
Fonte: Europa
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