L’ipoteca dei centri per l’impiego sul lavoro
di Francesco Grillo
È di sicuro un grande successo per Enrico Letta quello di essere riuscito a mettere al centro dell’agenda della politica italiana ed europea la questione della emarginazione di milioni di giovani: del resto è questo il segno più negativo della situazione che viviamo, perché lo spreco di tanto capitale umano significa bruciare il futuro di tutti. Se non mettessimo, però, subito mano ad una profonda riorganizzazione della infrastruttura attraverso la quale la domanda e l’offerta di lavoro si incontrano, rischieremmo di ritrovarci nella posizione di chi vuole svuotare un mare di problemi con un secchiello con un buco sul fondo.
Se davvero il governo Letta vuole chiudere la fornace del nulla che ha ingoiato così tante speranze, la sfida da vincere è, adesso, quella della costruzione di un sistema di valutazione delle politiche per il lavoro che renda responsabile dei risultati chiunque gestisce le risorse che abbiamo così faticosamente aumentato, e lo Stato in grado di allocarle a chi le gestisce meglio. È questione più tecnica che politica ed è alla portata della competenza che il Ministro Giovannini esprime. Ma mette in discussione interessi diffusi e se non la risolviamo, il miliardo e mezzo messo a disposizione per la disoccupazione giovanile finirebbe con il far, tutt’al più, sopravvivere una rete di servizi per l’impiego e qualche agenzia di formazione che, soprattutto nel Mezzogiorno, serve solo ad evitare la disoccupazione di chi ci lavora.
In effetti, alla infrastruttura pubblica alla quale è affidato dal Consiglio Europeo la realizzazione della garanzia per i giovani, tocca un destino – comune a molte altre amministrazioni pubbliche – che è persino peggiore dell’essere semplicemente inefficienti: dei centri per l’impiego non ne sappiamo, infatti, praticamente nulla. Lo dimostra, del resto, un documento redatto dalla Commissione Europea nel Luglio del 2012 che confrontava le reti dei servizi per l’impiego di tutti i Paesi europei su una serie di indicatori: la riga degli indicatori relativi all’Italia è – assieme a quella di Malta e Romania – completamente vuota perché, si legge, “non esistono valutazioni sistematiche e le Regioni vanno ognuna per i fatti suoi”.
Qualcuno al Ministero sa che esistono cinquecentotre uffici del lavoro; in aggregato si sa che essi però contribuiscono alla creazione di meno del cinque per cento dei nuovi lavori; l’esperienza, infine, di chiunque abbia approcciato i servizi pubblici per l’impiego in Inghilterra o in Belgio e abbia fatto il confronto con l’Italia, racconta quanto sia forte il ritardo italiano in termini degli strumenti specifici (bilancio delle competenze degli individui, diagnosi dei bisogni delle imprese, sistemi informativi, formazione, ..) che altrove vengono usati per riportare giovani e anziani nel mondo di chi ha un impegno.
Questo ritardo spiega – molto di più della crisi – il record italiano nel numero di giovani completamente inattivi, visto che, del resto, tre quarti di chi è in questa situazione lo era anche prima dell’inizio della recessione. E, tuttavia, aldilà, della generica consapevolezza del problema, delle denunce periodiche da parte di magistrati, giornalisti e politici, non abbiamo nessuno dei parametri che servono per aggredire il problema.
Non sappiamo quante sono le persone che lavorano nei centri. Centri che, peraltro, furono qualche anno fa, per motivi oscuri, spostati dalla competenza del Ministero a quella di quelle Province che dovrebbero, prima o poi, scomparire. Non sappiamo quante ore di formazione o di consulenza individuale vengono erogate. In queste condizioni, nulla sappiamo evidentemente del costo unitario di un’ora di formazione distinguendo, eventualmente, per il tipo di competenza che si vuole trasmettere: anche se ciò sarebbe fondamentale per identificare sprechi e recuperare soldi da reinvestire altrove.
Ancora peggio, però, c’è che niente possiamo dire delle caratteristiche di chi usa la struttura pubblica. Nei Paesi del Nord Europa, le persone maggiormente occupabili si rivolgono ai privati, mentre al pubblico si avvicina, invece, chi ha maggiori problemi – i giovani che hanno rinunciato agli studi, gli immigrati, chi deve affrontare una situazione di disagio o di abilità limitata – e chiede, dunque, al pubblico competenze molto più sofisticate. Bisognerebbe organizzare un coordinamento tra soggetti pubblici e privati, e, però, mancano le informazioni necessarie per riuscirvi.
Infine, quasi niente sappiamo dei risultati finali. Pochissime Regioni (Piemonte, Emilia Romagna, ..) hanno gli strumenti per registrare il numero di persone che trovano lavoro dopo un corso di formazione, in maniera da poter considerare di selezionare e pagare i formatori sulla base dei risultati. E non più di complicati adempimenti burocratici che servono solo a spaccare il mercato in tanti, piccoli territori protetti.
Non sono molti mille euro in due anni per ciascuno del milione e settecentomila giovani italiani che non studiano e neppure lavorano per garantire, come chiede la risoluzione del Consiglio Europeo, a ognuno di essi almeno quattro mesi di assistenza. Usando, però, in maniera intelligente gli altri quindici miliardi di Fondo Sociale Europeo che le Regioni italiane dovranno cominciare a spendere a partire dal Gennaio 2014, tali risorse potrebbero moltiplicarsi se si rilevassero efficaci.
La decisione del Consiglio si chiude, però, prescrivendo l’obbligo da parte della Commissione e degli Stati di monitorare l’efficace utilizzazione delle risorse messe a disposizione dei più giovani. Il Ministro del Lavoro Enrico Giovannini, ha nella propria esperienza professionale – prima all’OECD e poi come Presidente dell’ISTAT – la consapevolezza di quanto sia indispensabile valutare prima di poter spendere risorse pubbliche scarse su problemi così esplosivi. È questa la partita – più silenziosa e concreta di quella che si gioca ai vertici europei – che deve vincere chi volesse provare a riuscire dove sono falliti tutti i precedenti Governi negli ultimi vent’anni.
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