Lazio e Lombardia, il pasticciaccio brutto del PdL
di Aldo Fabio Venditto
Scazzottate e panini, trans e liste elettorali. La Regione Lazio sembra il set perfetto per il prossimo film dei fratelli Vanzina. Il primo ciak potrebbe accompagnare il delegato del PdL negli uffici preposti alla consegna delle liste elettorali.
L’attesa snervante potrebbe mettergli appetito, suggerendogli di rintanarsi in un bar dove tra una telefonata e l’altra, potrebbe apportare gli ultimi correttivi alle liste. Peccato che, rientrando, il termine ultimo per la presentazione delle liste sia scaduto. Scoppia il parapiglia.
Il più grande partito italiano è escluso dalla competizione elettorale della Regione Lazio: circa il 40 per cento dell’elettorato regionale non ha più un riferimento sulla scheda e, in attesa dei ricorsi di rito, Renata Polverini (candidata della coalizione di centrodestra) è azzoppata.
Dirimpetto la sfidante radicale Emma Bonino, rimarca la necessità di una diversa legalità, di maggiore trasparenza e del pieno rispetto delle regole, soprattutto da parte dei partiti politici.
Nel Lazio come in Lombardia, dove la Corte di Appello di Milano respinge la lista del governatore uscente Roberto Formigoni, in quanto le firme sarebbero prive di timbri, nomi degli autenticatori, date; requisiti sostanziali senza i quali quelle firme non hanno valore.
Qualcosa non va nella legge e qualcosa non va nelle modalità di raccolta delle firme. Tirato per la giacca il Presidente Napolitano esprime preoccupazione per l’eventualità di una parziale rappresentanza delle forze politiche, pur sottolineando come spetti al Tar «la verifica del rispetto delle condizioni e delle procedure previste dalla legge».
La legge, appunto, e la questione si complica: ha più valore il consenso elettorale o la norma? Ovvero, si possono escludere i partitini ma non i partiti di rilievo? E infine, è più democratico ammettere il PdL in deroga di legge o escluderlo a norma di legge?
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