La novità di cui abbiamo bisogno sui fondi strutturali
E’ una sconfitta gravissima quella che Enrico Letta ammette per tutto il Paese quando concede che, con ogni probabilità, non riusciremo a spendere i fondi strutturali che l’Italia ha avuto a disposizione dal 2007 al 2013. Non solo ciò significa che stiamo continuando – quasi ininterrottamente da trent’anni – a sprecare quelle che sono diventate le uniche risorse pubbliche disponibili per quella crescita che tutti – a parole – vogliono. Ma anche che stiamo compromettendo la credibilità delle nostre richieste quando il Governo si dovesse lamentare che l’Europa dovrebbe allentare i vincoli che non consentono di investire.
La stessa idea del Ministro Trigilia di un’Agenzia che affronti il problema centralmente, rischia di non sciogliere il nodo vero che qualsiasi esecutivo ha rimandato a quello successivo: la creazione di meccanismi che rendano sistematicamente chiunque gestisca risorse pubbliche responsabile dei risultati che quelle risorse conseguono. In maniera che – esclusivamente sulla base dei risultati – venga scelto chi si occupa di usare i soldi dei contribuenti e che – dunque – venga allontanato chi, amministratore o consulente, abbia accompagnato un fallimento dietro l’altro.
Che sia fallimento lo dicono i numeri: su circa 60 miliardi di euro di dotazione finanziaria iniziale secondo i dati del ministero delle Politiche di Coesione la spesa certificata alla Commissione Europea era pari a circa 11 miliardi nel Maggio 2013. Nel 2007, del resto, la Commissione Europea e il Governo italiano decidevano di allocare su Campania, Puglia, Sicilia e Calabria 43 dei 60 miliardi disponibili, prevedendo di far uscire da una condizione di sotto sviluppo almeno tre delle quattro Regioni: dopo sette anni le Regioni italiane ancora bisognose del massimo aiuto possibile sono diventate cinque.
Tuttavia, il fallimento produce paradossalmente un’opportunità: nei prossimi sette anni saranno teoricamente ancora maggiori gli stanziamenti disponibili e la Commissione Europea chiede che la percentuale dei finanziamenti per investimenti in conoscenza – ricerca, tecnologie digitali – passi dal venti al sessanta per cento del totale. Ma la sfida diventa ancora più difficile, a partire dai documenti che – con ampia consultazione di innovatori e amministrazioni di diverso tipo – dovrebbero indicare entro la fine dell’anno quali sono le specializzazioni intelligenti sulle quali ciascuna Regione punta: programmare l’innovazione richiede, infatti, competenze molto diverse da quelle di molti dei funzionari e dei consulenti che presidiano il territorio dei fondi strutturali.
Quale può essere la soluzione?
L’idea del Ministro delle Politiche di Coesione di un’agenzia non è nuova e può non bastare. Giusto centralizzare il monitoraggio; meno convincente è il teorema che l’assistenza tecnica fornita centralmente migliori le competenze disponibili. Anche se esistono amministrazioni regionali che hanno avuto prestazioni totalmente inadeguate (e la Campania guida probabilmente questa classifica al contrario), uno dei programmi con maggiore criticità è stato quello di 6,2 miliardi di euro affidato centralmente al Ministero della Ricerca e a quello dello Sviluppo Economico.
La realtà è che ci sono – a parità di contesto, di vincoli finanziari, di regole su appalti pubblici e rendicontazione della spesa – differenze nelle prestazioni tra amministrazioni diverse, tra diversi appaltatori, ma che nessuna conseguenza deriva dall’aver aggiunto valore o, al contrario, aver dissipato risorse pubbliche. E questo rischia di valere anche per la nuova Agenzia. Secondo quali criteri verranno scelti i duecento consulenti che – secondo il Ministro – ne assicureranno il funzionamento e il suo Direttore Generale? A quali obiettivi – in termini, ad esempio, di accelerazione o concentrazione della spesa rispetto ai livelli attuali -dovranno rispondere? In che misura la conferma, la remunerazione di chiunque si occupa – al centro o in periferia – di queste risorse preziosissime dovrà – da adesso in poi – dipendere dal raggiungimento degli obiettivi che avrà accettato al momento della nomina?
Nessuno – in questo tempo di vacche quasi morte – può più essere chiamato a disporre delle poche risorse pubbliche rimaste, se prima non decidiamo il sistema di indicatori e, soprattutto, di incentivi che assicurino che mai più un Presidente del Consiglio possa dichiarare persa la partita dello sviluppo senza sapere con chi prendersela. E se tale sistema non sarà reso completamente trasparente così che i contribuenti – italiani ed europei – possano chiedere conto.
È quella della responsabilità la rivoluzione copernicana di cui questo Paese ha assoluto bisogno. È una questione di sopravvivenza economica. Ma anche forse la vera questione morale di cui ci dovremmo occupare.
Articolo pubblicato su Il Mattino del 28 Agosto
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