La metamorfosi di una novantenne e un capitano di ventura
di Pierluigi Sorti
Una voce del listino che appariva in borsa dal 1920 ha gemmato, dopo 90 anni, due nuovi e distinti titoli, mentre la Fiat, come voce unitaria, alla prima seduta del 2011, ha cessato di apparire.
Assisteva fisicamente all’ evento il regista di tale opera di estetico rifacimento che, con presumibile intimo compiacimento, non poteva che interpretare come un atto di fede alla sua persona il rialzo immediato dei due titoli neonati : “Fiat auto” e “ Fiat industrial”.
Da pochi giorni salutato, anche internazionalmente, uomo dell’ anno, questa è stata l’ ultima mossa di Sergio Marchionne, nuovo grande demiurgo del mondo imprenditoriale italiano e internazionale.
Egli incarna infatti, nel contempo, l’ imprenditore non timoroso di provocare il risveglio della lungamente sopita conflittualità aziendale, ma, insieme, la figura di manager, abilissimo nel muoversi a livello globale fino a fruire delle provvidenze pubbliche a favore della Chrysler, deliberate dal principale stato capitalista del mondo.
L’ immagine stilizzata di John Elkann, il giovane presidente del gruppo Fiat, paragonata al look così inconsueto del suo amministratore delegato, ci riporta al ricordo dei principi rinascimentali italiani che, ormai deprivati di ogni combattività, per tutelare la propria indipendenza, ricorrevano ai servizi di truppe mercenarie, in ciò ponendo le basi irreversibili del loro declino.
La singolarità contrapposta della capacità di movimento di Marchionne, manager di non decifrabile imprinting culturale, possessore di tre passaporti, spie significative della propria indifferenza patriottica e familiare, è oltremodo istruttiva.
Giocatore spregiudicato, in Italia, nei confronti dei sindacati, Marchionne ne accetta invece la primazia societaria nella Chrysler americana, dove essi , attraverso le loro fondazioni, detengono la maggioranza del pacchetto azionario, debitamente provvisto di adeguati finanziamenti da parte del governo Usa.
Così, abilmente inserendosi nella scenografia sindacale italiana – quella padronale compresa – il manager italo – canadese – svizzero ha, dialetticamente, spazi quasi illimitati di manovra, agevolato dal generale disorientamento politico italiano che vede governo e opposizione incapaci di una visione di base e pertanto costretti a stare al suo gioco.
Gli azionisti Fiat, ancor meno pensosi delle sorti patrie, in fondo si assicurano qualche lustro, in più, di salvaguardia dei propri patrimoni e, in meno, di fastidi cui non sono, per scarsa combattività generazionale, capaci di fronteggiare mentre i capitani di ventura, quale appunto Marchionne, non investono altro che il loro impegno, con altezze vertiginose di guadagni diretti e indiretti e con il piacere di prestigiosissimi riconoscimenti professionali, nazionali e internazionali.
Mentre i sindacati e le forze politiche di opposizione nostrane sembrano incapaci di concepire almeno una simbolica contromossa: perché non chiedere a Marchionne, proprio ai fini di una miglior conoscenza dei problemi aziendali, e quindi a contribuire alla loro soluzione , quel diritto democratico alla cogestione che la Costituzione prevede all’ art. 46 ?
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