Insidie petrolifere
di Sergio De Nardis, Capo Economista (su Nomisma)
Il crollo del petrolio è una buona notizia? Esso arriva quando l’Italia e le economie europee hanno bisogno di maggiore, non minore, inflazione. La politica monetaria ha perso capacità di trazione, l’inflazione euro è praticamente zero, negativa in diverse economie. In tale situazione gli effetti favorevoli del greggio meno caro, connessi all’aumento dei redditi reali nei paesi importatori, possono essere compensati da quelli negativi indotti dalla deflazione. Sarà cruciale l’azione della Bce nel contrastare il disancoraggio delle aspettative: data la situazione, occorrono interventi forti. E’ una condizione necessaria, non è detto che sia sufficiente a rivitalizzare l’economia europea.
Manna dal cielo? L’Europa attraversa un periodo complicato nel quale quelle che normalmente sarebbero buone notizie nascondono risvolti negativi. La caduta del prezzo del petrolio spinge i previsori a puntare con maggiore fiducia sulla ripresa italiana nel 2015. Scommessa che, però, si traduce nella sostanziale conferma della crescita che era attesa tre-quattro mesi prima, cioè antecedentemente al crollo delle quotazioni. In altri termini, grazie al dimezzamento del petrolio il Pil aumenterebbe più o meno come era previsto. Vi è, dunque, prudenza nelle valutazioni. E’ giustificata: il rischio che nell’attuale situazione vi siano effetti di contrazione non va sottovalutato.
Fig. 1 – Prezzo del petrolio, dollari per barile Fonte: elaborazioni e stime Nomisma su dati Oecd.
In condizioni normali il calo del greggio è una notizia univocamente positiva: la flessione aumenta i redditi reali dei consumatori e i profitti delle imprese nei paesi importatori, come l’Italia e le altre economie euro; la spinta sulle loro domande interne più che compensa il regresso dell’export verso i paesi fornitori di energia e traina la crescita del Pil. Sono gli effetti benefici del controshock petrolifero che si sperimentò nel 1986. Anche allora (fig. 1) la quotazione del greggio si dimezzò in un anno (e scese di tre quarti rispetto al picco del 1980). Ne risultò un forte stimolo alla domanda interna dei paesi industriali e una sostanziale accelerazione dei loro tassi di crescita.
Effetti avversi. Ma il 2015 è tutto un altro mondo rispetto al 1986. L’economia europea da alcuni anni non opera più in condizioni normali, si trova nell’eccezione. L’inflazione è a zero, negativa in diversi paesi; i tassi di interesse della Bce sono anch’essi a zero, il limite minimo possibile. Inoltre, in Italia e in gran parte dei paesi euro è in corso un processo di riduzione del debito da parte dello stato e del settore privato. In queste condizioni, l’ulteriore impulso al ribasso sulla dinamica dei prezzi, fornito dal petrolio, rischia di abbattere ancor più le aspettative di inflazione, facendo aumentare i tassi di interesse reali e causando, così, effetti depressivi. Accanto a ciò, il nuovo calo dell’inflazione accresce il valore reale dei debiti e il peso (reale) degli interessi (lì dove non sono indicizzati), spingendo stato e privati a intensificare l’azione di deleveraging, anche in questo caso con impatti depressivi per l’economia.
Un recente lavoro di Stefano Neri e Alessandro Notarpietro analizza, attraverso un modello stilizzato, le conseguenze che avrebbe in un simile ambiente (tassi zero e rientro da debito) uno shock negativo sui costi di produzione a cui è assimilabile il calo del greggio. In condizioni normali, la riduzione dei costi produce caduta dell’inflazione e aumento dell’output: sono gli effetti del controshock del 1986. Per questo risultato è cruciale la possibilità per la politica monetaria di contrastare, con la riduzione dei tassi, la discesa dell’inflazione sotto il livello di equilibrio. Se, tuttavia, i tassi di policy sono già al limite minimo (zero lower bound), tale riduzione non può realizzarsi e lo shock negativo sui costi causa contrazione dell’attività economica, più marcata se vi sono soggetti indebitati colpiti dal calo dei prezzi. Riproduciamo da questo lavoro la seguente figura che illustra chiaramente le opposte conseguenze che può avere, sia pure in un modello semplificato, uno stesso cost-push shock a seconda delle condizioni della politica monetaria e del debito: con tassi di interesse zero (ZLB) e riduzione del debito (debt deflation) gli effetti sono negativi; la figura mostra, inoltre, come il limite zero dei tassi di interesse sia il fattore decisivo che volge tali ripercussioni da positive in negative.
Fig. 2 – Risposta dell’output a uno shock esogeno negativo sui costi1 1 No ZLB=Tassi di policy positivi; ZLB=tassi di policy al limite zero; No debt deflation=contratti di debito indicizzati all’inflazione; debt deflation=contratti di debito non indicizzati all’inflazione. Fonte: Stefano Neri e Alessandro Notarpietro, “Inflation, debt and the zero lower bound”, Questioni di Economia e Finanza (Occasional Paper), Banca d’Italia n. 242, October 2014.
A tutto ciò si deve aggiungere la possibilità che un abbassamento del livello generale dei prezzi, indotto dalla diffusione delle spinte disinflazionistiche, ostacoli l’aggiustamentodel mercato del lavoro. In presenza di rigidità al ribasso dei salari nominali, prezzi in calo si traducono in un maggiore costo reale del lavoro con conseguenze negative per il processo di riassorbimento della disoccupazione. Per il riequilibrio del mercato del lavoro l’inflazione è da preferire alla deflazione.
A corollario di queste considerazioni resta poi un interrogativo di fondo che riguarda il lato positivo del calo petrolifero. Occorre domandarsi quanto del maggiore potere d’acquisto, consentito dal greggio meno caro, verrà effettivamente speso dai beneficiari, date l’incertezza e la propensione ad accantonare risorse in impieghi sicuri che contraddistinguono la fase attuale. Il rialzo del tasso di risparmio, in atto dal 2012, rivela un atteggiamento delle famiglie volto alla parsimonia e alla ricostituzione dei livelli di risparmio e ricchezza erosi negli anni precedenti; il dato del terzo trimestre 2014 di consumi praticamente fermi, a fronte di un forte incremento dei redditi reali delle famiglie, non fa che confermare questa tendenza.
In definitiva, la caduta del petrolio interviene in un periodo di elevata incertezza e impotenza della politica monetaria. Una fase in cui le economie europee e l’Italia avrebbero bisogno di maggiore, anziché minore, inflazione. In questa situazione la misura in cui il calo del greggio avrà ripercussioni negative dipenderà da due fattori. Il primo è il grado di diffusione delle pressioni disinflazionistiche al di là degli effetti (benefici) di primo impatto e le ripercussioni sulle aspettative. L’abbattimento di quest’ultime, se non contrastato dalla politica monetaria, attiverebbe gli effetti depressivi esemplificati nella figura 2. Il secondo fattore riguarda, di conseguenza, l’azione della Bce e in particolare la dimensione (e qualità) dell’espansione quantitativa di liquidità annunciata nelle ultime settimane.
Aspettative. L’odierno controshock petrolifero si verifica in una situazione in cui le aspettative di inflazione hanno già preso, da tempo, ad allontanarsi dall’obiettivo di medio termine della Bce per l’area euro (2%). Il rischio più che concreto è che la sconnessione tra attese degli operatori e target Bce si rafforzi col ridimensionamento del greggio. Presentiamo su questo qualche evidenza per l’Italia.
Fig. 3- Italia: inflazione negli acquisti ad alta frequenza e aspettative a breve (qualitative) dei consumatori Fonte: elaborazioni Nomisma su dati Istat.
Il punto cruciale per la politica monetaria in questa fase è la dipendenza delle aspettative dall’inflazione corrente piuttosto che dagli obiettivi che la banca centrale afferma di voler perseguire. Nella figura 3 si riportano, sull’asse orizzontale, l’inflazione mensile misurata sui beni e servizi a elevata frequenza di acquisto e, sull’asse verticale, le attese delle famiglie sull’inflazione futura. Per quanto riguarda la prima variabile, è presumibile che la dinamica dei prezzi degli acquisti ad alta frequenza (il cosiddetto carello della spesa) sia la componente che più influisce sulla percezione delle famiglie circa l’andamento dell’inflazione. Per quel che concerne la seconda variabile, essa misura le attese qualitative dei consumatori per i mesi successivi a quello della rilevazione ed è data dalla differenza tra la percentuale di coloro che si attendono un incremento dei prezzi più rapido (o costante) rispetto a quello corrente e la quota di coloro che si aspettano un incremento più debole[1]. La figura mostra una chiara rottura della relazione tra le due variabili nel periodo antecedente la crisi (2000-2007, pannello A della figura 3) e in quello successivo (2008-2014, pannello B). Mentre prima della crisi le attese apparivano slegate dall’inflazione osservata, dal 2008 vi è una evidente correlazione (0,62, sulla base della retta interpolante). E’ come se in un periodo di forte incertezza, quale è il 2008-2014, le aspettative delle famiglie fossero divenute adattive: molto più legate all’osservazione delle dinamiche correnti e, quindi, molto meno influenzate dall’obiettivo della Bce che da quelle dinamiche è andato, dal 2013, sempre più distanziandosi. E’ un segnaledi disancoraggio delle attese.
La figura 3 suscita un’ulteriore osservazione sul nesso tra aspettative, da un lato, e effetti del greggio, dall’altro. Le aspettative dei consumatori sono divenute più sensibili, nel corso della crisi, alle dinamiche dei prezzi per gli acquisti di ogni giorno. Sono quelli su cui incide in modo diretto il calo del petrolio (prezzo dei carburanti). Osservare, dunque, che l’inflazione core (al netto dell’energia e degli alimentari), pur molto bassa, resta in territorio positivo (+0,6% a dicembre) può risultare meno rilevante, per la lettura di come si orientano le aspettative, della piega negativa che ha preso la dinamica dei prezzi ad alta frequenza di acquisto dopo la caduta dei corsi del greggio (-0,5% a dicembre).
E’ vero che le attese dei consumatori, misurate dalle inchieste congiunturali, si riferiscono alle dinamiche previste nel breve termine (a tre-quattro mesi), mentre le aspettative rilevanti per la conduzione della politica monetaria (del cui disancoraggio si preoccupa la Bce) sono quelle di medio termine, in un periodo di circa cinque anni. Tuttavia in un comportamento adattivo, come quello che emerge negli ultimi anni, ciò che si prevede per il breve termine può influire su ciò che si attende per il medio termine. Inoltre, le indicazioni di cui si dispone dipingono un quadro di attese già molto depresso anche per il medio periodo.
Fig. 4 – Aspettative (quantitative) di inflazione nel mercato dei Btp (differenza in punti percentuali tra rendimenti nel mercato secondario dei Btp ordinari e di quelli indicizzati con analoghe scadenze)1 1 Quotazioni del 9 gennaio 2015. Fonte: elaborazioni Nomisma su dati Il Sole 24 ore.
Una misura delle aspettative (quantitative) di inflazione può essere ricavata dalla differenza di rendimento nel mercato secondario tra i buoni poliennali del tesoro ordinari (Btp) e quelli indicizzati all’inflazione (Btpi e Btp€) con simili scadenze. Poiché i primi non sono protetti dall’inflazione, mentre i secondi lo sono, la differenza tra i rispettivi rendimenti rivela la previsione implicita del mercato circa la dinamica futura dei prezzi. Come mostra la figura 4, le aspettative sul tasso di inflazione italiano che si formano in questo mercato (con riferimento ai Btpi, pannello A) sono estremamente basse: negative (i buoni indicizzati rendono più di quelli ordinari) nei prossimi tre anni, vicinea zero nel 2020. Le aspettative relative al tasso di inflazione euro (con riferimento ai Btp€, pannello B) sono solo marginalmente più elevate di quelle relative all’inflazione italiana, ma risultano sempre negative nella prospettiva dei prossimi anni e pari ad appena lo 0,2% nel 2021 (0,4% nel 2023).
Politica monetaria. La Bce è chiamata, sin dalle prossime settimane, a cercare di neutralizzare queste tendenze. Essa deve contrastare il radicarsi nell’economia delle spinte disinflazionistiche e la caduta delle aspettative che vengono dal petrolio. E lo deve fare supplendo all’esaurimento delle munizioni convenzionali a sua disposizione (la riduzione dei tassi) con lo strumento non convenzionale dell’espansione della liquidità. E’ il quantitative easing (Qe), già perseguito con decisione dalla altre banche centrali e contemplato, infine, anche dalla Bce: acquisti significativi e prolungati nel tempo di titoli pubblici e privati nel mercato secondario. Il Qe dovrebbe conseguire quel che non si può fare più con lo strumento convenzionale: abbassare cioè i tassi di interesse reali, creando inflazione e soprattutto aspettative di inflazione. Riuscirà la Bce in questa impresa? Qui sorge un punto delicato. Quando la Bce afferma di voler puntare a realizzare l’obiettivo statutario di un’inflazione al 2% per l’eurozona, sta praticamente dicendo di voler perseguire un’inflazione al 3% in Germania. E questo non per un solo anno, ma per tutto il tempo in cui la dinamica dei prezzi dei periferici dovrà rimanere sotto quella tedesca per correggere gli squilibri intra-area (Germania al 3%,periferici all’1% e quindi area euro al 2). Accetta la Germania una simile prospettiva? Il dubbio è che la resistenza tedesca nasconda sotto la nobile preoccupazione che il Qe allenti la pressione a risanare sui periferici, la meno nobile intenzione di bloccare o rendere sostanzialmente inefficace quella che è l’unica politica monetaria idonea per l’area euro, ma che contrasta con gli interessi tedeschi.
Ma quanto dovrebbe essere grande l’intervento a cui la Germania si oppone? Per giungere a una stima approssimativa ci si può chiedere quale è la riduzione del tasso di interesse di policy che sarebbe oggi necessaria per risollevare l’Europa e quanto grande deve, quindi, essere l’aumento della quantità di moneta che equivarrebbe a quella riduzione del tasso nominale di policy.
A questo scopo, nella tabella 1 si riportano il tasso di rifinanziamento vigente della Bce (0,05%) e quello che sarebbe desiderabile sulla base di una policy rule che fa dipendere il tasso di rifinanziamento Bce dal gap dell’inflazione (nell’accezione core e a tassazione costante) rispetto all’obiettivo (2%) e dal gap del tasso di disoccupazione rispetto al Nairu (o disoccupazione strutturale nella stima Oecd). Se l’inflazione è al livello dell’obiettivo e il gap di disoccupazione è nullo, il tasso desiderato della Bce è uguale a quello di equilibrio[2]. Quest’ultimo è cruciale nel determinare l’appropriatezza della politica monetaria e dipende, a sua volta, dal tasso di interesse reale che assicura l’equilibrio di pieno impiego nell’economia (TIRE). Tale tasso non è, però, costante. Esso scende nelle recessioni ed è presumibile che nella lunga crisi dell’economia euro si sia portato stabilmente su un valore negativo: impossibile da raggiungere quando il tasso nominale di policy è al limite zero e le aspettative di inflazione sono in forte deterioramento.
Come si vede dalla tabella il tasso di interesse vigente della Bce (0,05%) è superiore a quello desiderato, anche supponendo che il tasso di interesse reale di equilibrio (TIRE) non abbia subito un abbassamento con la crisi (con TIRE=2%, il tasso di policy desiderato è -0,15%). L’allontanamento dal tasso vigente diventa ben più marcato quando si considera che il tasso di interesse reale di equilibrio si è sostanzialmente ridotto con la recessione. Se esso fosse divenuto nullo (TIRE=0), il tasso di interesse desiderato dovrebbe essere pari a circa -2%. Se, più realisticamente, si assume che il TIRE sia divenuto negativo (TIRE=-1,5%), il tasso di policy desiderato scenderebbe a quasi -4%. Nella tabella si riporta, poi, un analogo esercizio condotto per l’Italia, stimando il tasso desiderato di policy adeguato per la situazione della nostra economia[3]. In generale, si evidenzia che se l’attuale livello del tasso Bce (0,05%) è restrittivo per l’area euro, lo è molto di più per un’economia come quella italiana che ha un’inflazione più bassa i quella europea ed è in condizioni cicliche peggiori. Assumendo per l’Italia il tasso di interesse reale di equilibrio negativo ipotizzato per l’area euro (TIRE=-1,5%), il tasso di policy desiderato sarebbe -6,7%. Occorre, però, considerare che, data la prolungata recessione, il TIRE italiano si dovrebbe collocare a un livello più basso di quello dell’area euro.
Tab. 1 – Tasso di interesse di policy della Bce vigente e quello che scaturisce da una funzione di reazione di policy in tre differenti ipotesi del tasso di interesse reale di equilibrio, TIRE (TIRE=2%, TIRE=0,0%, TIRE=-1,5); stime riferite a fine 2014 Fonte: elaborazioni e stime Nomisma su dati Bce, Eurostat, Oecd
Se questi sono gli ordini approssimativi di grandezza della contrazione che sarebbe desiderabile per il tasso di policy della Bce, quanta immissione di quantità di moneta sarebbe necessaria per raggiungere un effetto comparabile? Nelle discussioni in corso si fa riferimento a cifre comprese in un intervallo molto ampio, tra 500 e 1.000 miliardi di euro. Un’iniezione di 1.000 miliardi (pari a circa 80 al mese) sarebbe equivalente, secondo valutazioni basate sull’esperienza di Qe americana e inglese, a una riduzione del tasso di policy di circa 200 punti base nell’arco di un biennio. Prendendo a riferimento le stime della tabella 1, ciò sarebbe un intervento adeguato per l’area euro se il tasso di interesse reale di equilibrio si fosse semplicemente annullato. Un simile programma risulterebbe, invece, insufficiente se il tasso reale di equilibrio europeo fosse diventato negativo. In questo caso occorrerebbero interventi ben più consistenti, nell’ordine dei 100 miliardi e più di euro al mese. Per la recessione italiana un simile programma sarebbe un fattore importante anche se non decisivo, essendo una misura studiata per la situazione media dell’area euro da cui l’Italia si discosta, come mostra la tabella 1, in negativo.
Qualità e credibilità. La determinazione della dimensione teoricamente adeguata del Qe non esaurisce, però, il discorso sull’efficacia della politica monetaria. Oltre all’entità contano molto la qualità dell’intervento e le modalità di comunicazione. Per la qualità si può osservare che il Qe non può prescindere dall’acquistare titoli del debito pubblico di tutti i paesi membri dell’unione monetaria. Solo in questo modo si possono, infatti, raggiungere le dimensioni richieste. Sotto questo aspetto qualità è sinonimo di quantità. Inoltre, non sarebbe accettabile la messa in capo alle singole banche centrali nazionali degli acquisti dei titoli di stato dei rispettivi paesi: si tratterebbe della negazione della politica monetaria unica.
Ma la comunicazione svolge forse il ruolo più decisivo. L’obiettivo dell’intervento è quello di modificare le aspettative di inflazione, riportandole dai livelli attuali, ulteriormente depressi dal petrolio, al 2%. A questo fine la Bce deve essere in grado di convincere gli operatori che il Qe durerà per tutto il tempo necessario, ovvero anche quando l’inflazione euro si sarà riportata al 2%, perché non conta la realizzazione del target in un singolo mese o anno, ma il fatto che esso venga incorporato stabilmente nelle aspettative future. E’ la parte più difficile per una banca centrale, ancor più per la Bce alle prese con le resistenze tedesche che minano la credibilità di simili impegni. Per questo il Qe è necessario, ma non è detto che sia sufficiente.
[1]Nella figura le attese in ogni mese sono associate all’inflazione rilevata nel mese precedente: le attese di dicembre 2014 sono associate all’inflazione dei beni e servizi acquistati con alta frequenza di acquisto di novembre 2014.
[2]La funzione di reazione della Bce (policy rule) è la regola di Taylor basata sull’impostazione proposta da A. Udibe, “The European Central Bank Must Act Aggresively to Restore Price Stability in the Euro Area”, in Rebuilding Europe’s Common Future, The PIIE Biefing, n. 14-5, December 2014. Essa ha la seguente specificazione:
Tasso desiderato = TIRE + inflazione core + 0,5 x (inflazione core – 2%) + 0,5 x 1/okun x (Nairu-tasso di disoccupazione)
Dove 1/okun è il reciproco del coefficiente di Okun (che descrive la relazione tra variazione della disoccupazione e variazione dell’attività economica); per questo coefficiente si assume un valoreuguale a 0,5. L’inflazione core è al netto delle tasse indirette. Quando i due termini in parentesi sono pari a zero, l’economia è in equilibrio e il tasso di interesse desiderato è uguale al suo valore di equilibrio (TIRE + core inflation).
[3]Per l’Italia si assume un tasso di inflazione obiettivo dell’1,5%, considerando che la dinamica dei prezzi del nostro paese deve collocarsi sotto quella media dell’area euro.
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