Confronti internazionali. Scongeliamo la foresta pietrificata degli statali
di Francesco Grillo
La trasformazione anche drastica della pubblica amministrazione si può fare. Può essere superata – come promette il ministro Madia – l’idea che i dirigenti siano inamovibili e che la carriera si svolga a prescindere dai risultati. Ed è possibile sciogliere il paradosso – di dover affidare l’attuazione del cambiamento a chi si è specializzato a resistervi – che ha prodotto il fallimento di vent’anni di riforme. Esiste una strada – pragmatica – per rimuovere i vincoli che finora hanno condannato l’amministrazione pubblica ad un declino progressivo e costretto qualsiasi “revisore della spesa” a partorire topolini.
È questo il messaggio che si coglie a leggere le storie del cambiamento nel settore pubblico negli altri Paesi europei in questi anni di crisi. Un rapporto presentato a Dublino la settimana scorsa dall’Agenzia dell’Unione Europea che studia l’evoluzione dei mercati del lavoro, fornisce elementi di comparazione internazionale che mancano nei discorsi che si fanno sulla riforma dell’amministrazione pubblica italiana.
In generale, la crisi ha fatto più vittime nel settore privato che in quello pubblico. Se dal 2008 i ventotto Paesi dell’Unione hanno perso complessivamente 7 milioni di posti di lavoro, il numero di dipendenti nel settore pubblico è rimasto grossomodo lo stesso. Il risultato deriva dalla spinta di due forze che si muovono in direzione opposta: da una parte la necessità di dover far fronte a debiti pubblici fuori controllo che ha portato ad una riduzione nel numero di dipendenti negli uffici centrali; dall’altra l’esigenza, soprattutto in settori come quello della sanità e dell’educazione, di far fronte a bisogni più diffusi (ed anche questo è, paradossalmente, un effetto della crisi), ma anche nuovi rispetto a quelli tradizionali e diversificati.
Se, a livello europeo, le due tendenze si sono bilanciate, nei Paesi – Italia, Spagna, Grecia – più colpiti dalla necessità di correggere i conti pubblici, l’effetto combinato è stato una riduzione nell’incidenza complessiva della spesa per il personale pubblico rispetto al prodotto interno lordo (in Italia siamo passati dall’11,3 nel 2008 al 10,1 nel 2014). Tuttavia, è interessante notare come la necessità di contenere la spesa delle amministrazioni pubbliche è stata gestita nei diversi Paesi europei.
L’Italia è tra gli Stati che meno hanno fatto ricorso alla riduzione degli stipendi che è stata fatta digerire, ad esempio, ai dipendenti delle Regioni che in Spagna sono ben più autonome di quelle italiane (anche se i confronti dell’OECD continuano a dire che i dirigenti italiani di prima fascia sono quelli più pagati e meno valutati). D’altra parte, siamo anche uno dei Paesi che hanno maggiormente utilizzato il congelamento dei contratti per evitare ulteriori aumenti salariali. Si è preferito, insomma, contenere utilizzando l’inerzia come leva.
La pubblica amministrazione italiana è, poi, l’unica, includendo nell’analisi anche quelli che non dovevano fare i conti con la necessità brutale di un taglio, a non aver mai realizzato veri e propri interventi di ristrutturazione di interi comparti. Tra gli esempi più eclatanti ci sono quelli della Polonia che, nel 2012, ha ridotto di cinquemila unità il numero dei poliziotti per effetto di una fusione di diversi corpi e degli inglesi che hanno diminuito, nel 2010, di quasi quattro mila persone gli organici dell’agenzia dell’entrata dopo un progetto di informatizzazione.
I confronti europei dicono, infine, che siamo quelli che maggiormente hanno fatto ricorso alla “tecnica” della riduzione percentualmente uguale della spesa nei diversi comparti e che ha usato di più la scure del blocco del turn over. Abbiamo, oggi, meno dipendenti pubblici solo perché non ne abbiamo assunti di nuovi: il risultato è, però, che la metà di essi ha più di cinquant’anni (negli altri Paesi europei sono un terzo) e siccome le remunerazioni sono legate all’anzianità, essi costano mediamente di più che all’inizio della crisi.
Il fatto è che, come dimostra uno studio condotto dal think tank Vision insieme a ricercatori dell’Università di ADAPT – Centro studi sui temi del lavoro fondato da Marco Biagi, negli altri Paesi europei è minore la differenza tra regole che disciplinano il settore pubblico e quello privato. Non esistono veri e propri “concorsi pubblici” in Inghilterra e i dipartimenti delle Università più prestigiose d’Europa hanno processi di reclutamento e conferma dei professori universitari assolutamente autonomi, come chiede il ministro Stefania Giannini. In Germania e in Francia, le mansioni possono cambiare e ciò è fondamentale per rispondere a discontinuità tecnologiche che rendono obsolete intere filiere produttive (dal rilascio di molti certificati al controllo fisico del territorio). In Spagna bastano tre trimestri in rosso per autorizzare la mobilità di dipendenti che lavorano presso enti pubblici in difficoltà finanziaria.
In Italia domina, invece, il vincolo sancito dalla Costituzione (articolo 97) che vuole che l’organizzazione degli uffici sia disciplinata dalla legge e, dunque, uniforme su tutto il territorio. Ed è questo il nodo gordiano che dobbiamo recidere senza contrapposizioni frontali. La fine del sistema del “tutto garantito” arriverà da robuste e progressive iniezioni di flessibilità che fanno bene a tutti: incoraggiando, ad esempio, lo scambio tra pubblico e privato; favorendo l’accumulazione di quel capitale umano (ad esempio, attraverso esperienze in altri Paesi) che rende più forti le persone e le organizzazioni.
Del resto, la più importante opportunità che il “quantitative easing” offre all’Italia è affrontare la madre di tutte le riforme – quella dell’amministrazione pubblica che è pre-condizione di tutte le altre – senza la fastidiosa sensazione di essere, in maniera permanente, sull’orlo del precipizio del default. Senza essere schiacciati dalla logica del taglio immediato che finisce con l’essere, inevitabilmente, lineare. È una finestra di opportunità quella aperta da Draghi che ha, però, il difetto di durare fino al Settembre del prossimo anno, quando dovremo ricominciare a confrontarci con mercati che non hanno alcuna pazienza.
Ed è per questo motivo che diventa urgente che il ministro Madia apra un dibattito sulla grande trasformazione, simile a quello che c’è in questi giorni sulla Scuola che della riforma della PA costituisce un’anticipazione.
Usciamo dal fortino delle revisioni della spesa destinate a spostare montagne per partorire topolini; abbandoniamo la nozione di riforma come evento palingenetico e sostituiamola con la nozione di cambiamento continuo nel quale i risultati tangibili a breve sono importanti quanto la strategia di lungo periodo; investiamo l’ossigeno che ci è fornito dalla diminuzione dei tassi di interesse per premiare i migliori e comprare “consenso” alla valutazione. Coinvolgiamo, come succede in Irlanda e Germania, il sindacato che non può non sentire in questo momento di avere un problema di ridefinizione della propria “rappresentanza”, in un confronto che parta dall’ovvia constatazione che un settore pubblico condannato all’inerzia, fa male a tutti, agli altri lavoratori e alla stessa credibilità dello Stato. E, dopo aver spento la prima candelina del governo con il JOBS ACT, poniamoci subito come obiettivo del secondo anno lo scongelamento della foresta pietrificata dell’amministrazione pubblica.
Lascia un commento