Alla fine del tunnel?
di Francesco Grillo (su Il Mattino)
Le parole sono, come macigni. Soprattutto quelle pronunciate dai leader politici europei e dai dirigenti delle più importanti istituzioni internazionali, in un momento di volatilità alta come quello che i Paesi dell’Euro vivono sui mercati internazionali. Ed è comprensibile che il nostro Presidente del Consiglio cerchi di sfruttare l’abbrivio creato dalle affermazioni rassicuranti di Mario Draghi, invocando un ulteriore sforzo da parte di tutti perché “siamo quasi fuori dal tunnel”.
Quelle di Monti sono ovviamente parole sensate: servono per preparare un bilancio positivo per un governo tecnico rispetto al quale è saggio ritenere che un qualsiasi prossimo governo politico dovrà cercare una continuità; e servono per allontanare di qualche ulteriore centimetro un punto di non ritorno oltre il quale perderemmo il controllo della crisi. Esiste, però, nelle parole di Monti anche un rischio: quello di ritenere che il peggio sia passato, che forse ancora una volta il sistema ha retto e che possiamo andare in vacanza con la convinzione che presto potremo tornare alle antiche abitudini.
Del resto, pochissime ore dopo le parole di Draghi, il governo ha già dovuto subire un assalto che ha parecchio depotenziato la revisione della spesa e, in parte, compromesso il piccolo ma significativo risultato di aver ridotto il numero delle province.
Se passasse questa convinzione di ritorno alla normalità, lasceremmo intatte le ragioni della crisi ed essa sarebbe destinata a ripresentarsi ancora più grande ed irreversibile tra qualche settimana.
In effetti, anche se capiamo le ragioni di Monti, siamo lontanissimi dalla fine del tunnel. O perlomeno ne siamo assai distanti se decidiamo, una volta e per tutte, che il problema da risolvere non è solo o tanto quello di uno spread che comunque rimane vicino ai 500 punti, ma di rimuovere gli ostacoli che impediscono alla società italiana di poter essere più produttiva e più giusta.
La realtà dell’Italia è, in fin dei conti, piuttosto semplice da raccontare. Non ha semplicemente futuro, giusto per fare uno degli esempi più eclatanti, un Paese che spende in pensioni duecentotrentasette miliardi di euro all’anno che sono una cifra quattro volte superiore a quella (cinquantatre miliardi) che viene impiegata per la scuola e per l’università di ogni ordine e grado.
E il livello di ingiustizia sociale cresce ulteriormente se si considera che nonostante una spesa così elevata, nessun altro Paese europeo ha quasi il quindici per cento di anziani sotto la soglia di povertà. Molti dei quali, in questi giorni torridi, sono lasciati languire a casa da soli con quattrocento euro di pensione al mese. E non ha prospettiva una società che si permette il lusso di fare a meno di due milioni e mezzo di giovani – un quarto dei dieci milioni di italiani in età compresa tra i quindici e i trenta anni – che sono fuori sia dal mondo del lavoro che da quello della formazione. Non è neppure immaginabile che stia per uscire dal tunnel un Paese che non riesce a trattenere più della metà dei laureati con centodieci e lode e che attrae nelle proprie università dagli altri paesi europei un numero di studenti tre volte inferiore a quello della Spagna.
Sono problemi strutturali quelli che fanno dell’Italia e, in misura inferiore, dell’Europa nel suo complesso, una società che contemporaneamente riesce ad ottenere il minimo di efficienza e il massimo di ingiustizia. Un sistema che ha costruito una sorta di piramide rovesciata che, spesso, premia gli incapaci e mortifica il talento. E non piacerebbe sia a chi lo volesse osservare dal punto di vista di una autentica destra liberale sia da quello di una sinistra davvero sensibile alle diseguaglianze. Un Paese che non solo non cresce ma che rischia anche di non riuscire a stare più insieme. Nonostante gli appelli energici di un Presidente della Repubblica che è stato in questi anni l’unico punto di riferimento.
Non siamo alla fine del tunnel e l’opera appena intrapresa dal Governo Monti ha bisogno di molto più tempo, coraggio, energia politica per scalfire “diritti acquisiti” e corporazioni che continuano a litigare per difendere la propria fetta di una torta che sta per sparire.
Il tunnel dal quale dobbiamo uscire è quello della foresta pietrificata, di un’economia e di una società che può cominciare a crescere – non solo in termini di ricchezza prodotta, ma di idee, qualità della vita – solo se mette pesantemente in discussione equilibri di potere che hanno esaurito da tempo qualsiasi ragione d’essere.
In questo senso ha ancora ragione la Merkel ma anche Draghi: la crescita di cui abbiamo bisogno deve essere vera e per essere duratura può solo venire da riforme che spostino risorse pubbliche e private verso utilizzi più produttivi. Questa deve essere, assolutamente, la contropartita di un qualsiasi intervento finanziario che altrimenti rischia di annacquare quelle responsabilità con le quali Stati e opinioni pubbliche devono fare i conti.
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