2015, sarà l’anno della svolta?
di Saro Capozzoli, Jesa
Siamo giunti alla fine del 2014 ed è tempo di riflessioni. É stato un anno che si è rivelato difficile ma che, a differenza di altri, marca una serie di spartiacque che segneranno il prossimo futuro per l’Italia, e non solo.
Sotto la guida di Xi Jinping, il governo cinese ha approvato ed avviato una serie di riforme per una stabile e definitiva evoluzione e maturazione del paese. La Cina sta cambiando ed il percorso riformativo intrapreso consacrerà una volta per tutte nel nostro immaginario collettivo l’idea di una Cina non più di un paese in via di sviluppo ma potenza responsabile di un reale peso globale.
La campagna anti corruzione, con gli annessi terremoti politici, l’interruzione dell’intervento dello Stato a supporto d’imprese statali e banche in perdita e la contemporanea apertura agli investimenti stranieri in settori strategici fino ad ora riservati solo alle imprese Cinesi (il settore sanitario e previdenziale per esempio), sono solo alcune delle riforme il cui l`obbiettivo è quello di mostrare alla comunità internazionale l’affidabilità del “sistema” Cina e la sua graduale apertura verso una presenza straniera consistente. Chiaramente, dal punto di vista Cinese, il vantaggio di una politica paritaria per imprese locali e straniere è doppio. Non solo l’apertura richiamerà investimenti e genererà nuovi posti di lavoro ma consentirà allo stesso tempo alle imprese locali di alzare i propri standard e migliorare le proprie pratiche industriali col fine ultimo di rafforzare la propria posizione su scenari internazionali.
Dal canto suo, il tessuto imprenditoriale Italiano, non si mostra completamente sprovvisto di una certa “politica” estera. Infatti, nonostante la battuta d’arresto dell’export verso la Russia (circa -20% registrato negli ultimi mesi), la media industria ed imprenditoria italiana sta continuando a internazionalizzarsi con una tendenza sorprendentemente crescente. Ad oggi sono 21830 (dati ISTAT), le imprese italiane all’estero. Presenti in 160 paesi con 1.6 milioni di addetti mostrano un fatturato aggregato di 564 miliardi di Euro. Il fenomeno ha una certa rilevanza. Infatti, non solo aumentare la presenza di imprese nostrane in territori stranieri è utile per aggredire ulteriori nuovi mercati ed espandersi globalmente ma, rafforzando l’impronta internazionale si tutela e si preserva la funzionalità delle sedi centrali Italiane ed i posti di lavoro a casa nostra!
Questa tendenza va tuttavia rinforzata: la ricerca di partner globali e un’espansione ponderata rimane dunque una priorità. Nel mutato contesto odierno non sarà più sufficiente asserire per l’ennesima volta che, nonostante tutto, il nostro PIL rimane tra i primi 10 al mondo e che la nostra economia rimane fortemente industrializzata oltre che evoluta. Ma piuttosto una seria iniziativa di espansione e progressione è necessaria per assicurare la competitività futura ed affrontare con successo e da protagonisti le crescenti sfide che giungono dall’Asia. Se non lo facessimo rischieremmo di perdere sempre più competitività, e nel medio termine di crollare nelle classifiche; cosa che non possiamo permetterci se vogliamo mantenere un ruolo di spessore in Europa e nel mondo.
Se non attraverso un’internazionalizzazione produttiva, rimane comunque necessario tenere in considerazione le opportunità commerciali che il grande mercato Cinese ed i suoi cambiamenti interni offrono. Basti pensare che solamente il 2.5 % dell’export italiano è diretto verso questo paese, mentre la nostra dipendenza è importante: la Cina rappresenta ormai il 20% di tutto il nostro import e genera un saldo commerciale negativo di circa 1 miliardo di Euro (al 11.2014). Cina, India e Indonesia rappresentano il 20% della crescita mondiale e a breve rappresenteranno un terzo di quella futura: la Cina permane quindi un grande obiettivo.
L’attrattiva principale risiede sicuramente nella crescita costante e robusta della classe media (con capacità di spesa giornaliera tra 10 e 100 USD) il cui bacino passerà progressivamente da 150 milioni di persone a 500 milioni entro i prossimi 10 anni, con un aumento dei consumi in settori come l’abitazione, l’istruzione, il turismo, l’alimentazione e la sanità. In un momento in cui il governo appoggia e spinge la popolazione a “consumare” (consumi che, dal 50% attuale peseranno per il 60% del PIL entro il 2020, quindi 1000 miliardi di USD in più) è necessario riflettere sulle nostre strategie future.
Ma c’è un altro fenomeno che in chiusura di 2014 è necessario sottolineare e che è per certi versi paritetico nonché opposto all’internazionalizzazione nostrana: la globalizzazione delle aziende cinesi. Nonostante il rallentamento che l’economia cinese abbia fatto registrare in questi ultimi mesi, in gran parte dovuto all’aggiustamento del PIL rispetto le ricadute della corruzione e alla spesa fuori controllo che il governo ha scelto di calmierare, la crescita interna è destinata ad aumentare grazie alla fase di internazionalizzazione della Cina verso il mondo esterno. Cogliere l’opportunità di crescere e trovare spazi insieme alle aziende cinesi che vogliano espandersi e collaborare con partners stranieri nel mondo è un’occasione più vicina di quanto si pensi.
Dal canto nostro è necessario uno sforzo, un cambio di mentalità importante. Se impareremo a capire che alleanze forti e strategiche con players internazionali (tra cui si annoverano ad oggi anche imprese Cinesi) non rappresentano una minaccia ma un’opportunità unica da valutare e cogliere, forse riusciremo a sbloccare l’Italia. Il nostro sistema di imprese è composto da magnifiche realtà, spesso uniche nel panorama mondiale seppure piccole, ma a volte gestite con visioni e metodi superati che trovavano “spazio” e senso negli anni ’80 e ’90. Queste modalità di conduzione non sono più redditizie e possibili al giorno d’oggi.
Il mondo è cambiato. Non solo a causa della crisi, ma anche e soprattutto a causa dell’impatto dell’uso del web, settore in cui, peraltro, il nostro paese ha una colpevole arretratezza. In un contesto connotato da queste “peculiarità”, restare “soli” ad affrontare una sempre più aggressiva e tecnologicamente avanzata concorrenza internazionale, e fiancheggiati da un sistema finanziario e bancario incapace di supportare le necessità economiche di sviluppo internazionale delle nostre imprese, non è un’alternativa perseguibile.
L’unica strada percorribile per acquisire forza è quella dell’aggregazione reciproca o dell’apertura del capitale a partner stranieri che possano portare, insieme ai benefici derivanti dall’unione delle forze, capitali finanziari, valore industriale, strategico e di mercato.
Il tema dell’apertura del capitale d’impresa verso entità esterne è piuttosto controverso. Ogni qualvolta che affronto l’argomento con la classe imprenditoriale mi ritrovo spesso dinnanzi a secchi rifiuti. Rimango tuttavia convinto che molte realtà potrebbero muoversi più velocemente e con più forza sui mercati emergenti, cosi come su quelli maturi, se solo il nostro contesto fosse abbastanza maturo da permettere una comunicazione efficace, non solo con imprese locali cinesi, ma anche con imprese in altri mercati di riferimento.
Il fatto che la maggior parte delle M&A cinesi si stiano concentrando nel nord Europa, in paesi come la Germania e la Gran Bretagna, che apparentemente non sembra di essere in difficoltà, deve far riflettere. Anche in Spagna spesso accade che la notizia di una partecipazione estera in un’azienda locale venga entusiasticamente riportata dai media come un forte riconoscimento del valore delle proprie aziende. In Italia invece, l’informazione addita qualsiasi operazione di M&A come una svendita di Made in Italy, un rischio, un fattore negativo. Mi chiedo, cosa sarebbe successo alle aziende oggetto di acquisizione se fossero rimaste da sole ad affrontare i mercati, le crisi, la carenza di risorse?
La responsabilità dei media, nell’influenzare l’immaginario comune, fa la sua parte in un periodo delicato come il nostro. L’Italia potrà maturare solo quando il mondo potrà essere descritto correttamente da persone a conoscenza delle dinamiche macroeconomiche che lo stanno cambiando. Non è poi certo con il populismo e con le false promesse che cambieremo l’Italia. Servono riforme capaci di cambiare sostanzialmente il paese. Serve creare il giusto clima, dimostrare affidabilità e avere larghe vedute.
Serve portare gli investitori a credere in noi. D’altro canto è solo per mezzo di investimenti, rinnovata forza imprenditoriale, crescita e posti di lavoro che sarà possibile restare un paese di riferimento in Europa e nel mondo, per non finire come la Grecia, se non peggio.
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