SMART POWER NELL’AGENDA OBAMA
di Alessia Centioni
La vittoria di Barack Obama è l’inizio della nuova politica degli Stati Uniti. Per “nuova” si intende la fine della presunzione americana di agire al di sopra di tutti, la fine dell’approccio da superpotenza legittimata a dettare l’ordine mondiale. Con l’amministrazione Bush, gli Stati Uniti hanno concluso il capitolo della guerra fredda, dove la spartizione del globo, dopo il collasso sovietico si credeva spettasse alla potenza a stelle e strisce. Il mito è finito. Se l’ambizione di essere i condottieri della lotta al terrorismo internazionale e i paladini della democrazia si è arenata nel pantano della missione in Afghanistan e nel fallimento della guerra in Iraq, la crisi finanziaria ha sbattuto in faccia all’America che essere la potenza mondiale per eccellenza è solo un’illusione. Negli Stati Uniti del 2009 gli americani sono coscienti che l’era dell’ indipendenza è finita.
Dalla disperazione in cui Bush ha fatto precipitare gli Stati Uniti, Obama riparte verso la speranza. La speranza, necessariamente intrisa di realismo, deve fare i conti con la sfiducia che investe la democrazia americana, dove violazioni dei diritti umani e civili fuori e dentro i confini (il carcere di Guantanamo ne è l’esempio), tracollo finanziario e conseguente aumento della disoccupazione rappresentano la fotografia dell’America in crisi.
Oggi ogni americano è indebitato fino al collo; è chiaro allora che, non è più l’autonomia solitaria ma la dipendenza a contraddistinguere le relazioni Usa con il resto del globo. Ne prenderà atto il Presidente democratico, conscio che una corsa verso il ripristino dell’egemonia statunitense non farebbe altro che accelerare la caduta libera della grande nazione.
Obama è deciso verso la ristrutturazione americana che deve necessariamente passare attraverso il dialogo con gli altri attori internazionali. Se la forza di Obama durante la campagna elettorale è stata nel dialogo con gli elettori (l’uso di internet, di sms ha permesso una comunicazione incisiva e quanto mai diffusa), ora l’abilità comunicativa dovrà tornare utile per sintetizzare il messaggio indirizzato ad interlocutori diversi, dentro e fuori i confini. Come le altre nazioni anche gli Stati Uniti sono cambiati.
Lo scenario globale è frammentato: nuove potenze emergenti, spostamento dei capitali verso l’oriente, risorse energetiche in mano a quelli che, neanche un ventennio fa, erano i nemici primi degli Stati Uniti, scontro culturale con il mondo musulmano. Anche all’ interno entro i confino federali, la nuova amministrazione affronterà realtà diversificate. La popolazione americana è un melting pot di minoranze, dove quella ispanica cresce più rapidamente, seguita da quella afro-americana e asiatica. La supremazia economica non le appartiene più, considerato il crescente debito americano nei confronti di altri paesi come Cina e Russia, che guarda caso, giocano un ruolo strategico nella partita dell’approvvigionamento energetico mondiale. I cambiamenti demografici ed economici potrebbero cambiare la cultura americana determinandone anche l’inversione politica.
Cambiare si può, ma con calma. Infatti la nuova amministrazione Obama, perseguirà la rottura con il passato ma non illudiamoci di trovare una politica modificata nella sua natura. L’America è sempre l’ America, conserva ancora il primato militare, tecnologico e culturale. Dunque, il prestigio va ritrovato. Se l’ America è in crisi anche l’ Europa non scherza. Il club decadente dall’altra parte dell’ emisfero non ha certo occupato una posizione di guida internazionale, nonostante i tanti sforzi verso l’integrazione europea. Allora è chiaro che, se pure dopo qualche scivolone, sono ancora molti quelli che vogliono dialogare con gli Stati Uniti. «L’America da sola non può risolvere i problemi più pressanti del mondo e il mondo, a sua volta, non può risolverli senza l’America», ha dichiarato Hilary Clinton alla Commissione esteri del Senato, «penso che gli Usa hanno lasciato a desiderare ma sono sempre desiderati». L’opinione del futuro Segretario di stato è senza dubbio logica ma lo svantaggiato di Obama rispetto ai suoi predecessori (causa la pesante eredità lasciatagli dall’ ultimo), nelle future trattative internazionali è un dato di fatto. D’ora in poi chi negozierà con l’ America potrà pretendere di stabilire le condizioni dell’accordo allo scopo (ovvio) di soddisfare il proprio interesse, potrà giocare un ruolo paritetico sul tavolo negoziale mai esercitato prima. E’ questo oggi il mondo multipolare con cui fare i conti. Come recentemente dichiarato, sia Barack Obama che Hilary Clinton sono concordi sulla diplomazia che sarà «l’avanguardia della politica estera americana», ovvero la «superpotenza intelligente», che rilancerà il suo ruolo di leader come promesso da Obama. Lo «smart power» è in particolare riferito al Medio Oriente «che non si limita a Israele e Palestina, ma riguarda una realtà più ampia. Il principio più importante che voglio riconfermare è quello del rapporto storico e speciale fra Stati Uniti e Israele, che ho ribadito durante tutta la mia carriera e che non intendo soltanto mantenere ma rafforzare. Gerusalemme sarà la capitale di Israele» ha ribadito il Presidente eletto, facendo capitolare i timori (o le speranze, dipende dai punti di vista) che un presidente di nome Hussein potesse essere inevitabilmente sbilanciato a favore dei palestinesi. Ipotesi tanto ingenua quanto di cattivo gusto, prodotta con l’intenzione di spostare qualche migliaia di voti utili. Contrariamente a insinuazioni da campagna elettorale, l’orientamento sarà sicuramente molto vicino a Israele, non a caso l’attuale consigliere di Obama sul Medio oriente è Dennis Ross, sostenitore dell’invasione statunitense in Iraq e molto vicino a neoconservatori come Paul Wolfowitz. Ha lavorato per Wolfowitz nelle amministrazioni Carter e Reagan, prima di occuparsi di Medio Oriente sotto il presidente Bush senior e Clinton. Dopo avere lasciato il Dipartimento di Stato nel 2000, si è unito al think tank proisraeliano di destra, il Washington Institute for Near East Policy, e ha lavorato come analista di politica estera per la Fox News. Ross è ben noto per la sua linea aggressiva, anche se ad oggi, sulla soglia della Casa Bianca parla di un’atteggiamento “intelligentemente aggressivo”, sinonimo di una stategia inclusiva che offrirà opportunità di dialogo. Anche all’Iran.
Intanto nelle ultime settimane il conflitto israelo-palestinese si è incendiato ancora, più di un migliaio di vittime civili si aggiungono alle condizioni insostenibili in cui la popolazione è costretta a vivere nei territori. Il bisogno di porre rimedio all’ennesima emergenza umanitaria che inginocchia i palestinesi e la sollecitazione dell’Europa per un maggiore impegno da parte degli americani non sembrano essere stati bene uditi oltre oceano; l’approvazione, al Consiglio di sicurezza ONU, della risoluzione per l’immediato cessate il fuoco e la distribuzione di aiuti umanitari, ha visto un’unica astensione. Quella degli Stati Uniti. Duole ammetterlo, ma nonostante il massacro quotidiano in corso a Gaza, il conflitto israelo-palestinese non rappresenta la priorità nella strategia internazionale della nuova presidenza. Il conflitto è in una fase molto aspra, riflesso della delicata situazione interna a ciascun paese (le elezioni in Israele il prossimo 10 Febbraio e l’instabilità di Hamas) e dell’effetto collaterale devastante che gli interventi, a volte forzati e maldestri, degli Stati Uniti e dei suoi alleati, hanno avuto in Medio Oriente.
Ecco perché in cima all’agenda presidenziale le questioni da risolvere sono altre:
crisi economica, rapporti con Russia, Cina e Iran, e relazioni con l’Unione europea.
Il tracollo economico americano ha colpito profondamente i cittadini americani. Molti di loro hanno perso il lavoro, e dopo il lavoro stanno perdendo la casa, il simbolo del sogno americano. Quel sogno è stato tradito da anni di deregulation neo-liberista e avide speculazioni finanziarie.
Il piano anticrisi di Obama prevede la riduzione delle imposte per raggiungere una distribuzione egualitaria della tassazione, distribuzione che sotto l’ amministrazione Bush aveva nettamente favorito i più abbienti. Il Presidente eletto punta ad aumentare dal 33% al 39% l’imposta per i cittadini con reddito maggiore a 250,000 dollari annui. Investimenti intorno ai 50 miliardi di dollari sono previsti per le infrastrutture mentre per il cavallo di battaglia pre-elettorale, ovvero la riforma del sistema sanitario, Obama garantisce un’ampia estensione della copertura sanitaria. Tranquilli, le disparità dell’american dream rimangono. La copertura non sarà obbligatoria per tutti e non sarà garantita a tutti. Con i quaderni contabili alla mano si nota che l’assistenza sanitaria aumenta del 2,5% l’anno cosicchè Medicare e Medicaid, le due più grandi strutture sanitarie, rappresenteranno presto una grande fetta del PIL americano. Per fortuna alla sanità ci penserà Tom Daschle, veterano ed esperto delle guerre tra lobby.
La grande novità in fatto di programmazione economica è senz’altro quella legata ai green collars job, ovvero coloro che lavorano nel settore ambientale. La svolta della nuova presidenza, che vuol (e deve) fare di necessità virtù, sta nell’investimento in fonti energetiche alternative che dovrebbero garantire maggiore indipendenza nell’approvvigionamento di risorse energetiche sia la creazione di 3 milioni di posti di lavoro.
La crisi economica valutata globalmente, offre un collegamento chiarissimo tra l’interdipendenza degli USA, l’assetto geopolitico e la sicurezza mondiale. Gli americani sono indebitati con mezzo mondo, molti paesi creditori degli Stati Uniti non sono “paesi amici”, anzi di loro si direbbe tutt’altro. Essi potrebbero essere classificati come nemici o partener; considerata la portata degli interessi in ballo e della sicurezza che deriva dalla loro soddisfazione, la prima soluzione non conviene all’America e meno che mai ai suoi creditori. Alcuni di questi paesi detengono il controllo sulle risorse energetiche mondiali. Puntualizzati alcuni punti si capisce che la potenza americana non è più così solida.
La Cina ha un credito con Washington superiore a 518 miliardi di dollari, il crollo di Wall Street ha arrecato una grave perdita di capitali anche alla Repubblica Popolare che è riuscita, per un soffio, ad evitare ripercussioni sulla stabilità economica interna, registrando comunque un arresto della crescita. Pechino sperava di continuare a beneficiare degli investimenti sul debito americano ancora per un po’ di anni, ma la crisi ha fatto emergere la necessità di chiarire le relazioni tra Washington e Pechino. Certo è che il capitalismo cinese non può, adesso, correre il rischio di intensificare gli affari con gli Stati Uniti, poiché una nuova crisi di Wall Street trascinerebbe anche il capitalismo mandarino. Sui rapporti con la Cina influiscono anche quelli che l’ America ha con la Russia. L’ipotesi di una sincera intesa tra Mosca e Pechino è remota, ma la possibilità di strizzarsi l’occhiolino con lo scopo di premere su Washington potrebbe non esserlo. E’ stato esplicitamente dimostrato negli ultimi due anni che, se il comunismo è finito, il rancore russo per gli Stati Uniti resiste ancora, nutrito dall’ambizione, quasi sempre disattesa, di essere considerata al pari delle altre potenze occidentali. La Russia detiene gran parte della liquidità statunitense oltre a tesori energetici e testate nucleari. Un bel problema per Washington, che ha ripetutamente messo alla prova la pazienza sovietica allargando la sfera di influenza della Nato sul vecchio continente. Quando lo scontro stava prendendo toni aspri, la tensione russa è stata ridimensionata dal crollo finanziario e la conseguente diminuzione del prezzo del petrolio ha fatto il resto. Cosi la congiuntura negativa per Putin e Medvedev sarebbe l’occasione di Obama per temperare le relazioni con il Cremlino, la posizione geopolitica della Federazione preoccupa molti. In alcuni stati membri dell’Unione Europea la dipendenza da Mosca è forte, in Germania come nei Balcani e in Medio Oriente le forniture di gas tengono insieme gli “amici della Russia” mentre la sua influenza si sposta anche oltre l’Europa, fino all’America Latina e all’ Africa. L’altra minaccia made in Russia è la nascente triade del gas; Iran e Qatar si uniranno al colosso sovietico per saldare le risorse di gas in un cartello detentore del 56% delle fonti mondiali. Un accordo con Mosca è auspicabile per l’amministrazione Obama, il quale dovrebbe sottoporre a Medvedev anche la revisione della corsa agli armamenti nucleari.
Lo smart power in salsa clintoniana sa che da qui si aprirebbe la porta del dialogo con Teheran. Si dice che al mondo nessuno è indispensabile: vale anche per la Russia. Non per l’Iran.
L’Iran deve essere considerato da Washington un attore regionale di primo piano e non un semplice avversario. Dopo un vero dialogo instaurato con l’Iran e, a detta di Ross, con una “aggressiva” pressione diplomatica, sarebbe possibile un’intesa con Teheran. Compromessi diplomatici con Ahmadi-Nejad sulla questione nucleare farebbero tirare il fiato a mezzo mondo e aiuterebbero Washington ad uscire dalla palude mediorientale, dove diplomazia e politica militare stanno per essere inghiottite. La distensione nel mondo arabo sarebbe palpabile con conseguenze decisive sulla guerre tra Israele e Palestina, in Afghanistan e Iraq. Anche la partita giocata sul terreno delle energie subirebbe una svolta, ma ai danni della Russia. Il progetto egemonico di Gazprom (riguardante la partecipare alla costruzione e alla gestione del gasdotto da 7 miliardi di dollari che collegherà l’Iran e l’India via Pakistan) potrebbe fallire. L’ accordo iraniano con gli USA prosciugherebbe i canali euro russi, il gas percorrendo il gasdotto turco verso l’Europa metterebbe da parte la Russia e i suoi ricatti.
Anche la strategia transatlantica ha iniziato a scricchiolare, i piani di interferenza della Nato in zona caucasica hanno dimostrato l’inadeguatezza di garantire stabilità ai paesi candidati ad entrare nell’ organizzazione. Hilary Clinton e i generali americani intenderanno che l’Europa non può continuare ad essere la ruota di scorta.
Se in tempo di guerra fredda l’Europa era oggetto di una strategia di contenimento adesso, nell’era della politica multilaterale, l’Europa dovrà essere la partner principale della nuova America ispirata dal potere intelligente.
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