Il Sud sta morendo
di Francesco Grillo su Il Mattino
Il Sud sta morendo. Potrebbe essere questa la sintesi del rapporto annuale della SVIMEZ presentato ieri a Roma. Sta morendo messo definitivamente nell’angolo dalla scarsa attenzione dei media e della politica, a Roma, così come a Napoli e a Bruxelles da una crisi più vasta che rischia di minacciare la stessa sopravvivenza del progetto europeo, così come di quello unitario. E, tuttavia, il rapporto – impietoso e condivisibile nelle analisi – appare non affrontare direttamente la questione delle classi dirigenti che è il nodo che ha strozzato qualsiasi prospettiva di sviluppo.
Più di quelle relative all’evoluzione del PIL, tra le molte cattive notizie che il rapporto fornisce, quella che colpisce di più riguarda il lavoro, i giovani, alla quantità e alla qualità di capitale umano che il Sud sta perdendo e, di conseguenza, a ciò che sta diventando la società meridionale.
La recessione nel Sud è, soprattutto, il crollo nel numero di occupati in un territorio che già prima della crisi vedeva le quattro grandi regioni del Sud collocate agli ultimi quattro posti tra le duecentocinquanta regioni europee.
Se tra il 2008 ed il 2010 in Italia si sono persi più di mezzo milione di posti di lavoro, ciò che impressiona è che il Sud – che rappresenta meno di un quarto dell’economia nazionale – ha assorbito più della metà di queste perdite. Ma ancora più eclatante è constatare che in effetti questa riduzione è interamente concentrata nella fascia di popolazione tra i quindici e i trentaquattro anni: in soli due anni gli occupati giovani si sono ridotti di una percentuale superiore al venti per cento. Questa ritirata in massa dei giovani dal mondo del lavoro nel Sud non è, peraltro, attenuata da un aumento del numero di persone che frequentano l’università: se nell’anno scolastico 2002 – 2003 il numero di diplomati che sceglieva di iscriversi ad un corso di laurea era simile nel Nord e nel Sud – e superiore al settantadue per cento – dieci anni dopo questo valore è crollato di dodici punti nelle regioni meridionali. Il risultato finale è l’incrementodei giovani che non sono né impegnati nello studio, né nel lavoro: i laureati con età inferiore a trentaquattro anni e che sono in una situazione di totale inattività sono centosettantamila ed il paradosso è che dovrebbero essere la punta più avanzata di una società che decidesse di voler essere normale.
La questione meridionale è, dunque, sempre di più questione generazionale. Del resto ai giovani del Sud rimane spesso solo l’opzione della fuga: seicentomila – buona parte laureati – si sono spostati verso il Centro Nord negli ultimi dieci anni lasciando progressivamente un Sud che – rispetto agli stereotipi – è semplicemente sempre più vecchio, sempre più assistito e soprattutto senza capacità di dare voce ad un progetto politico qualsiasi.
Il problema è ancora però quello delle classi dirigenti politiche ed amministrative che continuano a perdere un’occasione dietro l’altra e che hanno di fatto spezzato qualsiasi possibilità di ricambio lasciando a chi aveva competenza e talento solo la possibilità di andare via.
I dati, del resto, continuano a togliere qualsiasi legittimità alla lamentela sulla mancanza di fondi. È vero che la quota di spesa pubblica in conto capitale e, persino, quella corrente destinata al Mezzogiorno continua a scendere, come rivelano i dati della SVIMEZ. Tuttavia, è altrettanto vero che come dice la ragioneria generale dello Stato le regioni del Sud non riescono a spendere neanche i soldi dei fondi strutturali: a poco più di due anni dalla fine del periodo di programmazione 2007 – 2013 dei quarantaquattro miliardi di euro messi a disposizione dai programmi comunitari per lo sviluppo del mezzogiorno non ne sono stati spesi neanche cinque, laddove la peggiore prestazione è quella della Regione Campania che pure era una delle amministrazioni europee con la maggiore quantità di risorse a disposizione.
Non convince in questa situazione la creazione di nuove agenzie o di nuovi coordinamenti che rischiano di sommare tra di loro debolezze ed incapacità. Bisogna, invece, avere il coraggio di mettere pesantemente in discussione l’insostituibilità delle amministrazioni pubbliche.
Le idee che altre regioni che sono riuscite nel miracolo che solo alle regioni del Sud non riesce ci sono già: coinvolgimento di fondi di venture capital ai quali demandare l’individuazione e la condivisione del rischio di progetti innovativi; sostituzione di amministrazioni pubbliche incapaci – da individuare attraverso criteri oggettivi, semplici e trasparenti – con altre che si sono dimostrate migliori e che esistono anche al Sud a pochi chilometri di quelle inefficienti; distribuzione diretta ai giovani di parte delle risorse sotto formadi buoni con i quali comprare formazione o di incentivi fiscali per chi decida di tornare e di mettere a disposizione di un progetto il proprio talento; finanziamento di parte del capitale di cooperative di cittadini che accettino la sfida di far funzionare ciò – musei, siti archeologici – che lo Stato ha abbandonato.
Tutte queste misure partono però dal presupposto di porre concretamente la necessità di applicare concretamente il principio della sussidiarietà e dall’idea che nessuno possano usare risorse scarse senza darne conto e che ci sia, invece, nella società – anche in quella meridionale – l’energia per poter invertire declini che non sono mai irreversibili.
(pubblicato su Il Mattino il 28 settembre 2011)
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