I paradossi della guerra sul budget UE
di Francesco Grillo (Il Mattino, 22 Sabato 2012)
Quello che si è consumato tra ieri e l’altro ieri a Bruxelles sul budget per i prossimi sette anni dell’Unione Europea, deve essere stato uno dei vertici più difficili per Mario Monti: da Presidente del Consiglio si trova a dover minacciare il veto per difendere interessi e, soprattutto, ad assumere un approccio al negoziato che, da ex commissario europeo ai mercati e da docente della Bocconi, sarebbe il primo a criticare. E sono i paradossi di dover navigare nelle due crisi – quella europea e quella italiana – che (nonostante i progressi degli ultimi mesi) continuano ad alimentarsi tra di loro creando una miscela esplosiva sempre pronta ad esplodere.
Da capo del governo italiano Mario Monti non può non essere preoccupato per l’erosione della capacità del nostro Paese di contare in Europa. È un deterioramento che è cominciato, ovviamente, molto tempo fa e che continua. Mentre l’Italia nel 2000 presentava nel suo rapporto con l’Unione un bilancio positivo tra i contributi pagati al bilancio comunitario e le somme che lo stesso bilancio allocava al nostro Paese (laddove la Germania pagava per l’esistenza dell’Unione quanto tutti gli altri contributori netti messi assieme), lo scorso anno, secondo i dati della Commissione Europea, siamo riusciti ad essere lo Stato al quale l’Unione Europea è costata di più – se al contributo pagato sottraiamo i finanziamenti allocati al nostro Paese: in proporzione al PIL l’adesione dell’Italia all’Unione è costata nel 2011 lo 0,31% del PIL contro lo 0,24% della Francia, e, comunque, qualche frazione di punto in più rispetto alla Germania che dà le carte e alla Gran Bretagna che ha da sempre il ruolo di chi è costantemente sul punto di far saltare il tavolo e di dover essere convinto a restare.
Le ragioni della perdita di capacità negoziale dell’Italia sono essenzialmente due.
Da una parte la distribuzione del bilancio che è tuttora allocato per il 77% alla politica agricola comune e alle politiche di coesione e i meccanismi attraverso i quali le risorse destinate a questi due programmi vengono distribuiti: in agricoltura l’Italia è penalizzata da un sistema che premia l’estensione dei terreni più che la produzione e, dunque, finisce con il premiare Paesi territorialmente più grandi come la Francia e la Spagna; dall’altra per i fondi strutturali la penalizzazione è arrivata con l’allargamento verso Est e lo spostamento di risorse Paesi più poveri (con la Polonia che è nel 2011 il maggiore beneficiario di finanziamenti comunitari).
Dall’altra, però, l’Italia risulta ancora più indebolita – sul piano finanziario e della credibilità – dalla capacità di usare queste risorse: proprio sui fondi strutturali, laddove ci giochiamo buona parte delle nostre possibilità, i dati della Direzione Generale per le Politiche di Coesione della Commissione Europea, dicono che con una percentuale di spesa inferiore al 30% dopo cinque dei sette anni del periodo di programmazione che sta per finire, siamo al penultimo posto in Europa; per non parlare delle frodi che tanto tengono impegnata la Guardia di Finanza sui finanziamenti agli agricoltori.
In questa situazione, il presidente del consiglio Monti si trova a difendere ciò che a volte appare indifendibile e che, probabilmente, trova egli stesso imbarazzante.
Ed, in effetti, la proposta presentata in un primo momento dal Presidente del Consiglio Europeo, Van Rompuy, conteneva alcune innovazioni che lo stesso Monti ha più volte incoraggiato: una riduzione assai significativa del peso delle politiche agricole; un aumento consistente della spesa per la competitività, una riallocazione importante dei fondi strutturali dalla spesa per infrastrutture a quella per la ricerca: il risultato però risultava essere per l’Italia – aggrappata, di fatto, alla sola paradossale speranza che le quattro Regioni del Sud continuino a risultare in “ritardo di sviluppo” – indigesto con una diminuzione del venti per cento di finanziamenti comunitari allocati al nostro Paese ed un ulteriore crescita del contributo netto che forniamo all’Unione.
Ed è per l’opposizione dell’Italia, – unita in questo a quella della Francia che ha inventato alcuni decenni fa che la priorità dell’Europa fosse la difesa dei suoi agricoltori, oltre che a quella dei Paesi che maggiormente beneficiano di fondi strutturali – che l’asticella si sta nuovamente muovendo verso un bilancio più simile a quelli del passato.
Potrebbe essere un riduzione dei danni per l’Italia. Ma una sconfitta per chi – in altre sedi – si augura un cambiamento sostanziale del ruolo dell’Europa rispetto alla crisi devastante che stiamo vivendo.
Del resto è una contraddizione che da una parte si invochi un’Unione addirittura fiscale e dall’altra si litighi sull’entità di un bilancio comunitario che pesa, comunque, l’uno per cento del PIL europeo e quaranta volte meno della somma della spesa pubblica degli Stati nazionali. Che si favoleggi di Stati Uniti d’Europa, e, poi, si accetti, sin dall’inizio, un budget fatto per ricavi e spese per Paese che, di fatto, prescinde da valutazioni sull’efficienza con la quale le risorse sono utilizzate dai singoli membri dell’Unione. Che si continui ad invocare crescita basata sulla conoscenza mentre, in queste ore, si stanno sottraendo – come avverte il rettore dell’Università per gli Stranieri di Perugia, Stefania Giannini – risorse destinate a finanziare un aumento nel numero di studenti europei che studiano all’estero, per difendere gli agricoltori francesi dalla competizione dei Paesi del Nord Africa e la possibilità – assolutamente virtuale – della Regione Campania di spendere soldi che probabilmente continuerà a non riuscire a spendere.
Ci sarebbe bisogno di una strategia. Che renda tutte le amministrazioni europee (inclusa la Commissione) responsabili dei risultati ottenuti con risorse che sono, comunque, scarse. Che stabilisca meccanismi attraverso i quali le risorse si trasferiscano – in maniera automatica e trasparente – tra amministrazioni che mostrano diverse capacità. Un budget più flessibile, meccanismi che incoraggino la crescita attraverso il confronto di chi gestisce spesa pubblica, potrebbe diventare la migliore legittimazione possibile per una integrazione che non cali dall’alto.
Ma per riuscirci occorrerebbe superare la logica del breve periodo e degli interessi nazionali. E diventare leader di un progetto che dia – aldilà della retorica e degli appelli smentiti dalle scelte concrete – sostanza all’idea di un’Europa più forte. Dovrebbe essere la priorità di chi provi a governare l’Italia per più di un anno e che capisca che la nostra crisi è solo la manifestazione più estrema della crisi di un intero continente. Utilizzando l’argomento che siamo in fondo noi, quelli ai quali l’Europa costa di più. Quelli che più hanno interesse ad una forte, profonda innovazione.
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