Innovatori Europei

Significativamente Oltre

RIFLESSIONI POST MORTEM/1

di Michele Cipolli – IE Toscana


partito_democratico_simbolo3Dovrebbero farle chi la storia la conosce meglio di me, ma l’omertà ha preso il sopravvento anche nel PD. Veltroni sta zitto per il bene del partito (quale?) … e si aprono così dietrologie spicciole tra cui aggiungo la mia. Ma forse sono più sincere e genuine di quelle spiattellate da firme autorevoli che hanno il privilegio di orientare le opinioni dai media dominanti.

Ricordo il luglio 2007, quando ero fiducioso corsista ULIBO; il governo Prodi cominciò a dare i primi segni di cedimento proprio quando la comunità finanziaria lanciava i primi warning sul problema subprime; il crollo finanziario prossimo venturo era ampiamente noto a tutti gli addetti ai lavori, però nessuno sapeva quanto fosse grande e pervasivo. Quel bel percorso di apprendimento, discussione e condivisione di un progetto politico venne bruscamente interrotto due mesi dopo per il repentino decollo del PD di Veltroni ed il governo di centrosinistra ebbe vita breve.

Lo scenario e le prospettive erano cambiate nel mondo e così l’equilibrio di potere nel partito. Anche i buoni progetti dovevano essere rivisti per seguire la nuova rotta.

Adesso il triste ma corretto addio di Veltroni alla segreteria, il perpetuarsi della perdita di reputazione da parte dei maggiori esponenti e del PD, la lotta tra correnti e capi bastone che rappresentano il passato e che faranno sempre perdere ogni progetto progressista. Il caso ed il destino non c’entrano in questa storia; non vi è leadership nel centro sinistra (le parole Obama e Italiano sono inconciliabili) e non si costruisce un progetto progressista a partire dalle segreterie; e inoltre cercando di lottare sulllo stesso piano dei marpioni amici di Berlusconi (non sono scaramantico …), cercando di entrare in affari per gestire clientelarmente il potere, si perde senza dignità come sta accadendo inesorabilmente.

I pochi giovani entrati nel PD o si sono allineati o ne sono usciti a breve giro di posta. Secondo voi che significa? Un progetto gestito male da persone con scarsa autorevolezza, reputazione e trasparenza politica non può che fallire e lasciare più di un terzo del paese in mano a banditi arroganti che niente hanno a che fare con lo stato di diritto. Vergogna! La sinistra ed il centro sinistra pagano questa irresponsabilità (talvolta sfociata in collusione), che proviene proprio da chi dovrebbe promuovere i diritti e i valori dello stare insieme, della collettività. E invece sono (siamo) stati superati su tutto. I giochi di potere e l’ipocrisia, oltre che l’evidente incapacità sono stati smascherati dagli elettori e probabilmente nessuno degli attuali pseudo-leader potrà invertire ala tendenza.

Congresso e primarie nazionali il prima possibile; ottobre potrebbe dare qualche spiraglio di ripresa economica e voglia di ricostruire ma secondo me è troppo tardi. Molti voti alle europee sono ormai persi a vantaggio di Di Pietro e Casini, occorre effettuare una svolta innovativa il prima possibile, concentrata sulle persone, nuove e/o giovani. Ma non mi fido di quelle che sono entrate dalla porta di servizio in questi ultimi tempi poichè il reclutamento ha seguito regole poco chiare. Tutto nuovo dalle fondamenta, pena il PD al 15% e anche meno, per la gioia di chi questo fallimento lo aveva previsto già nel 2007 (non dico chi, ma erano in molti).

Un caro saluto a tutti voi, io non perdo la speranza ma probabilmente voterò altro alle prossime. Non ce la faccio a sostenere ulteriormente questa gente, ci meritiamo molto di più come tanti nostri concittadini.

Michele Cipolli

PAPA’ NON ROMPERE

veltronidi Aldo Perotti

E’ così pure Walter ha mollato. Non credo ci ripensi. Con ogni probabilità si dedicherà all’Africa, come sta facendo Prodi del resto, e come fanno spesso le persone capaci e volenterose (ne conosco qualcuna). Sembrerebbe proprio che sia più facile fare del bene in Africa che in Italia.

Ormai parecchi anni fa, frequentavo l’università, mi ero alzato sul tram per cedere il posto ad una signora molto in la con gli anni, la quale mi rispose stizzita di farmi gli affari miei; avevo sottolineato la sua condizione di persona anziana; condizione che evidentemente l’arzilla rifiutava con tutte le sue forze.

L’Italia è così. Non vuole sentire se non complimenti, battute di spirito, inviti a cena, sottili allusioni. L’Italia ama essere corteggiata a suon di balle, essere presa in giro, lusingata all’inverosimile. Adora il pettegolezzo, non si preoccupa del portafoglio, non pensa mai al futuro e si gode il presente.

Il mio errore dell’epoca è stato ed è l’errore di Veltroni e di tutta la sinistra (Soru ha fatto lo stesso errore); i boy scout e le loro buone azioni sono definitivamente passati di moda nel nostro paese, spazzati via da una cultura edonistica che è riuscita addirittura a diventare maggioranza in un paese ormai solo”incidentalmente” cattolico. ( Quando un settimanale come Famiglia Cristiana si becca la querela di un ministro appare chiaro che il sistema di valori giudaico-cristiani che ha costruito l’Europa che conosciamo non abita più le stanze della politica e del potere).

E cosi chiunque tenti di affrontare i problemi, ma anche solo di riconoscerli, è un disfattista, un “corvaccio”, che non sa godersi la vita apprezzando quello che ha e quante cose belle gli offre la televisione.

Hai il conto in rosso ? Corri, corri che c’è la partita. Non trovi lavoro ? E’ perché ti vesti male. Dovresti sbottonare la camicetta ed accorciare la gonna. Sei cosi bella. Non puoi pagare il mutuo ? Ma dai, una soluzione la troviamo.. aggiungiamo qualche rata. Molti, moltissimi, corrono incontro e abbracciano chi gli promette felicità e amore eterno; i più smaliziati, è purtroppo sono una minoranza, vivono quotidianamente nel sospetto domandandosi “dov’è la fregatura?”.

Del resto chi dice la verità, è attento, scrupoloso, anche all’interno delle famiglie, diventa subito un pessimista, musone e rompiballe. “Lo dico per il tuo bene” è universalmente nota come una delle frasi più inutili della storia dell’umanità.

Eppure Veltroni e gli altri insistono. In ogni sua frase, nei suoi discorsi, anche nell’ultimo c’è sempre sottesa quella frase … “lo dico per il tuo bene”… il risultato è inevitabile … “papà non rompere”.

In una situazione del genere la sinistra, il Partito Democratico, è ancora di fronte ad una scelta chiara ed abbastanza semplice. O sceglie di assecondare il paese e scende sullo stesso piano degli avversari promettendo l’impossibile ed offrendo scenari ancora più idilliaci (ma probabilmente non è nelle sue corde), oppure attende preoccupato l’evolversi dei fatti, il risveglio delle coscienze, sperando che dalla “notte brava” il paese ritorni tutto intero anche se malridotto.

Gli uomini ? La leadership ? Assolutamente ininfluenti. Se la mia immagine del paese è anche solo in parte rispondente al vero nessun “grillo parlante”, nessun “boyscout”, nessun “buon padre di famiglia”, può sperare di contrastare l’affascinante imprenditore a bordo della sua Ferrari. Aggiungo che se qualche “papà di larghe vedute” in un’ottica di minor danno volesse in qualche modo assecondare il gigolò nell’illusione di poter controllare la situazione, potrà pure rimediare qualche passaggio in macchina, ma certo non farà del bene ed alla fine non ne otterrà che un maggiore rimorso.

Ci sarà qualcuno in grado di far capire al paese che la situazione mondiale richiede impegno e sacrificio, che si deve investire sulla scuola, sulle infrastrutture, sull’ambiente?

Chi avrà la capacità e la forza di dire “tu stasera non esci, devi studiare e mettere in ordine la camera, che a giugno hai gli esami” ?

L’ALTRA FUGA DI CERVELLI

fuga-dei-cervellidi Ainhoa Agulló

Il fenomeno migratorio, attualmente al centro di numerosi e accesi dibattiti, non costituisce, invece, una realtà moderna, ma esso ha accompagnato, fin dalle origini della storia, l’essere umano. Secondo i dati dell’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) e dell’OCSE, agli inizi del secolo scorso, i migranti nel mondo erano il 3% della popolazione globale, percentuale che si è mantenuta costante finora.

Tuttavia il fenomeno migratorio, nell’attualità, deve essere collegato a quello della Globalizzazione che, trasformando i mercati del lavoro mondiali, ha incrementato le disuguaglianze economiche e sociali e ha così costretto le persone ad abbandonare le proprie nazioni. Infatti, la particolarità che contraddistingue questo periodo storico deriva dal fatto che il tasso di crescita annua dei migranti internazionali si è incrementato di quasi un 3%, e continua ad aumentare. Secondo l’OCSE, gli immigrati verso i maggiori Paesi industrializzati sono triplicati rispetto agli anni ’60 e costituiscono il 7,5% (75 milioni di persone) del totale della popolazione dei Paesi OCSE, nella fascia di età tra i 15 e i 64 anni.

Per quanto riguarda l’Europa, secondo le previsioni, tra una quarantina di anni, un terzo dei suoi cittadini supererà i 65 anni di età. Per questo motivo, comincia, da subito, ad avere bisogno sia di manodopera ma soprattutto di cervelli venuti dall’estero, disposti a trasferirsi e a lavorare nel continente europeo, in condizioni simili a quelle che può offrire la Silicon Valley in California o Sidney in Australia. Si deve tener conto, inoltre, che attualmente un alto numero dei cervelli “locali” europei sono in fuga verso i Paesi che investono in R&D&I, malgrado la Strategia di Lisbona, che cerca di creare le cosiddette “reti di contenimento territoriali”, volte a valorizzare il capitale umano e sociale, acquisito sul territorio dell’Unione. È questo il motivo reale per il quale l’Europa sta cercando di introdurre la cosiddetta Carta Blu europea, ovvero un permesso unico, di lavoro e di residenza, per gli immigrati altamente qualificati, in risposta alla famosa Green Card americana. La Carta Blu rientra perciò nella logica dei programmi di “immigrazione selettiva”, che mirano a soddisfare il fabbisogno sempre più pressante dei Paesi occidentali.

È ovvio che le migrazioni internazionali sono conseguenza, in molte occasioni, di conflitti interni, internazionali e/o di disastri ambientali. La maggioranza delle persone che decide, però, di abbandonare il proprio Paese, lo fa, in realtà, per motivi fondamentalmente di carattere economico. Perciò, all’interno del gruppo dei migranti “economici”, conviene fare un’ulteriore distinzione, fra le “semplici” migrazioni per lavoro (che costituiranno una manodopera più o meno specializzata) e la cosiddetta “fuga di cervelli”, più conosciuta con l’assettico termine di brain drain.

Malgrado il fenomeno non sia molto publicizzato, è ormai accertato che a tentare il “salto” verso l’Europa (e, più in generale verso i Paesi industrializzati) sono i più istruiti, sia tra gli immigrati regolari che tra quelli in situazione irregolare. In concreto, per quanto riguarda l’Italia, più del 41% degli immigrati dichiara di essere in possesso di un diploma di scuola superiore (mentre per gli italiani questo dato riguarda solo il 33% della popolazione) e il 12% ha seguito una istruzione universitaria (di fronte ad un 10% di italiani), nella fascia di età tra i 25 e i 64 anni. Lo stesso studio, visto da una prospettiva di genere, dimostra, inoltre, come le donne sono, in media, più istruite degli uomini, anche se con grandissime differenze da nazione a nazione.

Ci troviamo così di fronte ad un immenso spreco di capitale umano nel fenomeno migratorio, che si manifesta sotto due aspetti:

– da una parte il brain drain, che presuppone un impoverimento culturale per i Paesi di origine, che si vedono privati dei loro migliori cervelli;

– dall’altra (soprattutto tra gli immigrati in situazione irregolare), si produce un mancato utilizzo delle risorse umane qualificate, nei Paesi di destinazione, fenomeno conosciuto come brain waste.
La Banca Mondiale, fino a poco tempo fa, aveva fatto riferimento ad un aspetto positivo della fuga di cervelli, ovvero alla cosiddetta “Nuova Economia del Brain drain”, o, meglio, del brain gain, ossia del guadagno: secondo questa teoria, la richiesta di immigrati qualificati nei Paesi industrializzati avrebbe ripercussioni positive sui loro Paesi di origine, non solo in termini di rimesse, aspetto più evidente a tutti: i flussi di capitali provenienti dai migranti girerebbero attorno ai 150 miliardi di dollari, il doppio rispetto al 2000 e cinque volte di più rispetto al 1990; secondo questa teoria, i governi dei Paesi in via di sviluppo verrebbero sollecitati, attraverso le richieste di alti profili professionali, a migliorare i propri standard di istruzione, avendo, come conseguenza, un innalzamento complessivo del livello di vita del Paese stesso. Più recentemente, però, sempre la Banca Mondiale ha ammesso che ciò ha pure un impatto negativo, da un punto di vista eminentemente economico, se si tiene conto delle risorse investite nella loro istruzione, senza il tornaconto del loro utilizzo posteriore da parte del Paese che ha investito nella loro formazione.

Per questo motivo, negli ultimi anni, stanno acquistando particolare importanza le cosiddette diaspora options, che prevedono una brain circulation (o brain exchange), e collocano il migrante, in quanto conoscitore di territori, al centro dei progetti di cooperazione, volti a favorire uno sviluppo parallelo e sinergico tra i Paesi di origine e quelli di destinazione. Si richiede, perciò, l’implementazione di una interazione bidirezionale, che permetta, in tal modo, un movimento circolare. In questo senso, il Parlamento Europeo, in un suo rapporto sulle relazioni UE/Regione mediterranea (regione particolarmente colpita dai flussi migratori, a livello globale), già nel 2001, ha considerato che la politica migratoria deve avere la sua ragione di essere nell’organizzazione della circolazione di persone. Se non si risponde a tale domanda di organizzazione, si favorisce l’immigrazione clandestina. Per tale motivo, è necessario considerare le migrazioni al centro della cooperazione, elaborando una politica migratoria articolata sulle necessità di co-sviluppo. Bisogna tenere anche conto, nei Paesi di accoglienza, di un adeguato utilizzo delle professionalità e del bagaglio di studio dei migranti, giacché ciò permette di favorire la loro integrazione e di ridurre il rischio di fenomeni di rigetto nelle società di accoglienza.

Ciò, per quanto riguarda i cervelli in fuga, implica la necessità di creare un sistema che permetta agli emigrati di continuare a lavorare fuori casa (e perciò che li consenta di crescere, da un punto di vista professionale), senza che tale cosa produca un impatto negativo per il proprio Paese, e che, contemporaneamente, essi vengano considerati come un “contributo” dal Paese di accoglienza.
Alcuni dei cervelli in fuga, a tal fine, propongono che i Paesi di origine stabiliscano (attraverso le organizazioni internazionali di competenza in materia) il pagamento di una tassa per l’assunzione di personale qualificato nei Paesi industrializzati. Ma il dubbio che si pone è se tale proposta permetterebbe, veramente, ai Paesi di origine, di riassorbire i costi dell’istruzione, impedendo un acquisto “a costo zero” da parte dei Paesi che “importano” cervelli, come finora è avvenuto.

DUE LACRIME IN PIU’ PER ELUANA

eluanadi Aldo Perotti

Avvoltoio o iena.

Non è facile definire chi si avventa sull’animale morente e indifeso, debole, oppure si ciba dei suoi resti. Galline che si litigano un lombrico che finirà diviso in due.

Come è possibile accingersi ad una battaglia di civiltà (o di inciviltà), a difensori di principi inviolabili, a tutori del diritto, di fronte ad un dramma individuale così enorme. Una povera ragazza ed un padre disperato divengono un pretesto.. non altro che un pretesto …. per uno scontro poltico-mediatico-giudiziario di cui proprio non abbiamo bisogno nel nostro paese. Troppo spesso le disgrazie dei singoli finiscono in pasto ad un sistema che se ne ciba e auto-gratifica il suo operato spesso per colpa di tutti noi, per la morbosa curiosità che ispira il disgraziato – vittima o mostro – di turno.

In un paese civile Eluana sarebbe un nome inventato. La sua storia si sarebbe dovuta svolgere nel più assoluto anonimato. Dottori, giudici, tribunali, tutti avrebbero dovuto conservare un assoluto riserbo e parlare di diritti, doveri, valori, senza cadere in quella ricerca di visibilità che sembra l’essenza dei nostri tempi. E invece no. Tutti scendono in campo pro o contro, “è gia morta”, “no, è ancora viva”, “soffrirà”, “non soffrirà”, “non si sa”, “è accanimento terapeutico”, “è diritto a rinunciare alle cure”,”è dovere curare”.

Sembrano avere tutti ragione, o tutti torto. Pochi politici, che a questo punto giudico i migliori, hanno saputo conservare una posizione di distacco e di rispetto rifiutandosi di entrare nell’arena.
Non capisco molto di stato vegetativo ma provo solo ad immaginare una condizione come quella della povera ragazza.

Se Eluana è viva e consapevole, anche solo in parte, solo minimamente, della sua condizione credo le sue sofferenze siano incommensurabili. Sofferenze alle quali si sommano quelle dei suoi cari. Quando la sofferenza, fisica o anche psichica, è grande, la morte rientra tra le opzioni possibili. Il suicidio o l’omicidio e anche l’omicidio-suicidio sono una realtà di sempre. Esiste purtroppo una sofferenza troppo grande per continuare a vivere. Se Eluana è viva, vuole morire.

Se Eluana non sente, non capisce, non sa, non soffre, non pensa, se Eluana è ormai veramente ed irreversibilmente un vegetale, una pianta attaccata all’irrigazione automatica, allora è quasi in Paradiso e papà Beppino potrebbe tirare un grosso sospiro di sollievo… Eluana forse è felice.
La povera Eluana, a differenza di Piergiorgio Welby, non può dire la sua e non ci può essere di alcun aiuto. Non può inoltrare formale richiesta di morire dolcemente, nel sonno, nel sogno.

Lascia purtroppo a chi le sta accanto, un po’ più vivo o meno morto di lei, una scelta impossibile. Se fossi io a dover chiudere il rubinetto, probabilmente rimarrei li appoggiato altri 17 anni.

La posizione della Chiesa, della religione, che sulla morte ha decisamente il suo peso, è una posizione assolutamente razionale. Per la Chiesa non è una questione di Fede. Per i credenti chi muore va in Paradiso ed il problema non si pone… anzi… tanto vale darsi una mossa.

Di contro, razionalmente, non possiamo considerare la morte un bene (i kamikaze lo fanno e la cosa non fa certo comodo alla collettività). La morte, inevitabile che sia, ci priva del bene ultimo della vita, bene non negoziabile in via ordinaria. Pertanto la volontà di morire, il suicidio, non rientra tra i comportamenti razionali. Non si rinuncia volontariamente e razionalmente alla vita. Chi ci rinuncia o vorrebbe rinunciarci è mosso da cause che lo pongono in una condizione anomala, in una condizione di incapacità di intendere e di volere, di fatto è impazzito (a causa del dolore e della sofferenza). E’ questo il motivo per cui, in certi casi, si possono celebrare i funerali del suicida. Già solo mettere in pericolo la propria vita è considerato da folli (o da eroi… ma passiamo a situazioni straordinarie).

La Chiesa si propone quindi di combattere le cause di quella “ pazzia” che porta a desiderare la morte. Tutte cause molto razionali, la malattia, la solitudine, la fame, la povertà. La Chiesa, con un atteggiamento conservativo che le è tipico, nel combattere l’eutanasia (come il suicidio) vuole combattere essenzialmente quella che sembra una via d’uscita fin troppo facile nella lotta contro la sofferenza . In quest’ottica l’eutanasia rappresenta, anche laicamente, una assoluta sconfitta per l’umanità.

Non credo che i fautori “alla leggera” del testamento biologico e dell’eutanasia si siano posti una semplice domanda “ma serve veramente all’interessato ? o serve e più ai medici e ai familiari per accelerare la pratica.. ”. Alla povera Eluana, prigioniera sospesa tra la vita e la morte, forse ne una legge sul testamento biologico (ammesso che a vent’anni uno ne voglia o possa consapevolmente sottoscrivere uno) ne la legalizzazione dell’eutanasia sarebbero serviti a qualcosa.

Non so come finirà la povera Eluana. Spero solo che molto presto non se ne parli più e che invece qualche uomo di buon senso definisca, insieme ad altri, delle regole mediche condivise, che possano essere di sostegno e di conforto per i familiari di queste “vite sospese” , lasciati spesso troppo soli nell’incertezza, nel dubbio, nell’attesa.

La politica dovrebbe impegnarsi invece , per evitare che altri finiscano come la povera Eluana, a comprendere le cause della sua sfortuna. E’ non cerchiamo colpe nei dottori che l’hanno curata e rianimata, non andiamo a cercare accanimenti o altro.

Eluana ha avuto un incidente d’auto il 18 gennaio 1992.

Aveva 20 anni. Erano le quattro del mattino. Era un sabato.

COME SUPERARE QUESTA CRISI 2

crisiCome superare questa crisi ? Quale crisi !? Crisi economica e/o crisi del sistema

di Aldo Perotti

Leggo nel bell’articolo di Daniele una serie di proposte tutte ponderate, ragionevoli, ma nelle quali non trovo personalmente, e spero non se ne dispiaccia, nulla di veramente nuovo.

Si tratta effettivamente di ottime proposte ma non immaginano, come invece piace a me, un mondo diverso.

Ma iniziamo con ordine. La crisi.

A detta del nostro Presidente del Consiglio la crisi, letta come recessione – riduzione del PIL , è un fenomeno trascurabile. E, da un certo punto di vista, ha ragione. Se il PIL misura in qualche modo il “livello di benessere” tornare 3 o 4 anni indietro nel tempo non è così terribile. Il problema vero è che leggere la crisi attraverso gli usuali indicatori economici si rischia di giungere ad una sottovalutazione del problema ed alla ricerca di soluzioni “economiche”, tutt’al più aziendalistiche.

Ed è quello che sta succedendo. Aiuti, incentivi, detassazione, qualche svalutazione, ricontrattiamo i mutui, detassiamo, riorganizziamo, ricapitalizziamo, ecc. ecc. In quest’ottica la crisi non spaventa più di tanto; la possiamo interpretare come una fase ciclica negativa quanto si vuole ma, come dicono tutti gli economisti, passerà.

Se invece allarghiamo lo sguardo con una visione più distaccata si osserva che la crisi economica, ed è questo che più spaventa, sembra essere un segnale di crisi “socio-planetaria”, nella quale in discussione non sono in fondamentali dell’economia ma i fondamentali della convivenza umana sul pianeta.

Gli uomini “consumano” le risorse del nostro pianeta da millenni. Molte si rigenerano, altre no. Questo consumo ha avuto una accelerazione spaventosa negli ultimi due secoli. I benefici li conosciamo tutti. C’è una parte del pianeta la cui vita ha raggiunto livelli di qualità inimmaginabili cent’anni or sono. Se paragoniamo la vita di un faraone a quella di molti nostri contemporanei ho l’impressione che il faraone nutrirebbe una sostanziale invidia nei confronti di chi per alimentazione, durata della vita, potere sugli uomini, considerazione degli altri, è oggi anche un semplice capitano d’industria.
Il problema reale è che il livello dei consumi individuali, per ragioni che la storia spiega, è drammaticamente diverso da individuo a individuo, da regione a regione, da stato a stato. Le scienze economiche hanno studiato e spiegato tutto questo, proponendo anche soluzioni, ma senza risolvere il problema. Gli ultimi 50 anni poi, grazie ad una relativa pace mondiale, hanno permesso la creazione di relazioni economiche globali che hanno visto e vedono lo spostamento di risorse, materie prime, semilavorati, lavoratori, scienziati, su tutta la superficie del pianeta. Tutto questo permette un livello di produzione (e di consumo) elevatissimo e misurabile attraverso quantità enorme di rifiuti che l’umanità produce.

Per complicare le cose si deve aggiungere che il tutto è dominato da un principio generale che rende disponibile per l’uso di altri quelle risorse detenute e non utilizzate a fronte della promessa di una maggiore restituzione futura. Si tratta del sistema dei prestiti, del credito, della rendita, dell’interesse sul capitale, che rende certo possibile un ancora maggiore utilizzo delle risorse ed un maggiore consumo anticipato (un consumo diremmo “a debito”). Tutto questo ha portato, a scala planetaria, ad un tale intreccio di collegamenti creditore-debitore che il fallimento di una banca in un posto sul pianeta fa cadere sul lastrico una famiglia all’altro capo del mondo. Molti hanno “consumato” (e ancora consumano) a spese di altri. Paesi come gli Stati Uniti hanno debiti enormi con la Cina dove milioni di operai “lavorano e producono” per permettere ad altri di consumare, questo a fronte di un impegno che sulla carta li rende in pratica ormai “proprietari” (in senso lato) di un pezzo di America.
Immaginiamo per un attimo di voler mettere un po’ d’ordine e consolidare il debito trasformandolo tutto in diritti reali: hai un debito ? hai perso la tua proprietà che viene ceduta a chi vanta dei crediti. Vedremmo delle cose incredibili: tutti i beni pubblici del nostro paese diverrebbero proprietà in parte dei cittadini in cambio dei titoli di debito pubblico e in parte di proprietà estera; molte fabbriche italiane – attraverso una serie di passaggi finanziari – diventerebbero probabilmente proprietà di cittadini cinesi o indiani; e purtroppo si scoprirebbe che a fronte (a garanzia) di molti investimenti finanziari non c’è nulla o nei casi migliori qualcosa di molto incerto che vedrà la luce solo nel futuro.

I parametri di “ricchezza” dei singoli paesi valutati non sul PIL (sul consumo) ma sul “patrimonio” ci vedrebbero di fronte un mondo diverso.

La complessità del sistema è tale che investire in un fondo di investimento in Italia può significare comprare una quota parte di una casa negli Stati Uniti per farci abitare un operaio che al primo problema sul lavoro non pagherà l’affitto o la rata del mutuo (sono i famigerati sub-prime sparpagliati per il mondo).

Se una cosa di positivo c’è, in questo sistema, è che ha creato una sorta di fratellanza universale nella quale i creditori ci tengono molto ai debitori nella speranza di recuperare il loro investimento. Paradossalmente tutti pregano per una ripresa dell’economia americana nella speranza di recuperare un po’ del denaro investito quando ,attraverso il fallimento delle banche, molti hanno già “donato” fiumi di denaro ai super-consumatori americani.

Questo, come prima conseguenza, riduce molto le possibilità di guerre (non si uccide il debitore.. i morti non pagano i debiti).

Non ci sono ancora segnali di “rottura” di questo meccanismo per cui ritengo che la crisi che stiamo affrontando è e rimane una crisi economica. Il livello di fiducia nell’umanità è ancora abbastanza elevato. Si continuano ad utilizzare le banche, le carte di credito. Si comprano i titoli di stato. La borsa valori è attiva e funzionante, ha perso qualche punto, ma nessuno mette in discussione il sistema. Bisogna però ricordare che esiste un movimento “no global” che fa proseliti.

Credo personalmente che la globalizzazione sia ormai un dato di fatto e che indietro non si torna. Il vero problema verrà alla luce quando in questo sistema globale il gruppo dei “creditori” che stanno permettendo ai consumatori “a debito” di mantenere il loro livello di consumi inizierà a consumare “in proprio” ed in particolare a chiedere di rientrare delle “somme anticipate”. A quel punto ci potrebbe essere un’inversione delle parti con gli attuali consumatori che scendono a livelli di consumi sempre più bassi pur continuando a produrre (e molto) per garantirsi la sussistenza. Una sorta di inversione dei ruoli tra oriente/terzo mondo e occidente.

Come evitare questa possibile più grave crisi ? Dobbiamo essenzialmente puntare a limitare i danni e cercare potentemente di recuperare un sistema più sostenibile.

Barack Obama credo lo abbia ben chiaro.

L’occidente deve consumare di meno. Deve consumare meglio. Non più la quantità ma la qualità del consumo deve divenire i l parametro del benessere. Un atteggiamento parsimonioso verso le cose è l’unico che permetterà a tutti una vita sostenibile. Risparmiamo acqua, aria, terra.

Si deve ristrutturare il sistema del credito con l’obiettivo di combattere l’accumulo di capitale. L’accumulo di capitale finanziario è il latifondo moderno, va combattuto con ogni mezzo per l’inevitabile deriva usuraria che comporta (non è una cosa nuova … le religioni spesso combattono il concetto di interesse).

Bisogna ripensare la banca del futuro. Molto promettenti , a mio giudizio, le iniziative di “social lending”.

L’obiettivo può essere quello di qualificare il nostro sistema di vita facendo in modo che i paesi emergenti nel perseguire il nostro livello di benessere non abbraccino (cosa che purtoppo stanno facendo) l’attuale modello insostenibile che con i suoi cicli economici, con la promozione dell’indebitamento, con il capitalismo d’assalto, è spesso fautore di tragedie come l’impoverimento, la disoccupazione, l’emarginazione.

E’ forse questo, certo a parole mie, il “Patto delle responsabilità collettive per il Paese” a cui accennava Daniele.

SMART POWER NELL’AGENDA OBAMA

BarackObamadi Alessia Centioni

La vittoria di Barack Obama è l’inizio della nuova politica degli Stati Uniti. Per “nuova” si intende la fine della presunzione americana di agire al di sopra di tutti, la fine dell’approccio da superpotenza legittimata a dettare l’ordine mondiale. Con l’amministrazione Bush, gli Stati Uniti hanno concluso il capitolo della guerra fredda, dove la spartizione del globo, dopo il collasso sovietico si credeva spettasse alla potenza a stelle e strisce. Il mito è finito. Se l’ambizione di essere i condottieri della lotta al terrorismo internazionale e i paladini della democrazia si è arenata nel pantano della missione in Afghanistan e nel fallimento della guerra in Iraq, la crisi finanziaria ha sbattuto in faccia all’America che essere la potenza mondiale per eccellenza è solo un’illusione. Negli Stati Uniti del 2009 gli americani sono coscienti che l’era dell’ indipendenza è finita.

Dalla disperazione in cui Bush ha fatto precipitare gli Stati Uniti, Obama riparte verso la speranza. La speranza, necessariamente intrisa di realismo, deve fare i conti con la sfiducia che investe la democrazia americana, dove violazioni dei diritti umani e civili fuori e dentro i confini (il carcere di Guantanamo ne è l’esempio), tracollo finanziario e conseguente aumento della disoccupazione rappresentano la fotografia dell’America in crisi.

Oggi ogni americano è indebitato fino al collo; è chiaro allora che, non è più l’autonomia solitaria ma la dipendenza a contraddistinguere le relazioni Usa con il resto del globo. Ne prenderà atto il Presidente democratico, conscio che una corsa verso il ripristino dell’egemonia statunitense non farebbe altro che accelerare la caduta libera della grande nazione.

Obama è deciso verso la ristrutturazione americana che deve necessariamente passare attraverso il dialogo con gli altri attori internazionali. Se la forza di Obama durante la campagna elettorale è stata nel dialogo con gli elettori (l’uso di internet, di sms ha permesso una comunicazione incisiva e quanto mai diffusa), ora l’abilità comunicativa dovrà tornare utile per sintetizzare il messaggio indirizzato ad interlocutori diversi, dentro e fuori i confini. Come le altre nazioni anche gli Stati Uniti sono cambiati.
Lo scenario globale è frammentato: nuove potenze emergenti, spostamento dei capitali verso l’oriente, risorse energetiche in mano a quelli che, neanche un ventennio fa, erano i nemici primi degli Stati Uniti, scontro culturale con il mondo musulmano. Anche all’ interno entro i confino federali, la nuova amministrazione affronterà realtà diversificate. La popolazione americana è un melting pot di minoranze, dove quella ispanica cresce più rapidamente, seguita da quella afro-americana e asiatica. La supremazia economica non le appartiene più, considerato il crescente debito americano nei confronti di altri paesi come Cina e Russia, che guarda caso, giocano un ruolo strategico nella partita dell’approvvigionamento energetico mondiale. I cambiamenti demografici ed economici potrebbero cambiare la cultura americana determinandone anche l’inversione politica.

Cambiare si può, ma con calma. Infatti la nuova amministrazione Obama, perseguirà la rottura con il passato ma non illudiamoci di trovare una politica modificata nella sua natura. L’America è sempre l’ America, conserva ancora il primato militare, tecnologico e culturale. Dunque, il prestigio va ritrovato. Se l’ America è in crisi anche l’ Europa non scherza. Il club decadente dall’altra parte dell’ emisfero non ha certo occupato una posizione di guida internazionale, nonostante i tanti sforzi verso l’integrazione europea. Allora è chiaro che, se pure dopo qualche scivolone, sono ancora molti quelli che vogliono dialogare con gli Stati Uniti. «L’America da sola non può risolvere i problemi più pressanti del mondo e il mondo, a sua volta, non può risolverli senza l’America», ha dichiarato Hilary Clinton alla Commissione esteri del Senato, «penso che gli Usa hanno lasciato a desiderare ma sono sempre desiderati». L’opinione del futuro Segretario di stato è senza dubbio logica ma lo svantaggiato di Obama rispetto ai suoi predecessori (causa la pesante eredità lasciatagli dall’ ultimo), nelle future trattative internazionali è un dato di fatto. D’ora in poi chi negozierà con l’ America potrà pretendere di stabilire le condizioni dell’accordo allo scopo (ovvio) di soddisfare il proprio interesse, potrà giocare un ruolo paritetico sul tavolo negoziale mai esercitato prima. E’ questo oggi il mondo multipolare con cui fare i conti. Come recentemente dichiarato, sia Barack Obama che Hilary Clinton sono concordi sulla diplomazia che sarà «l’avanguardia della politica estera americana», ovvero la «superpotenza intelligente», che rilancerà il suo ruolo di leader come promesso da Obama. Lo «smart power» è in particolare riferito al Medio Oriente «che non si limita a Israele e Palestina, ma riguarda una realtà più ampia. Il principio più importante che voglio riconfermare è quello del rapporto storico e speciale fra Stati Uniti e Israele, che ho ribadito durante tutta la mia carriera e che non intendo soltanto mantenere ma rafforzare. Gerusalemme sarà la capitale di Israele» ha ribadito il Presidente eletto, facendo capitolare i timori (o le speranze, dipende dai punti di vista) che un presidente di nome Hussein potesse essere inevitabilmente sbilanciato a favore dei palestinesi. Ipotesi tanto ingenua quanto di cattivo gusto, prodotta con l’intenzione di spostare qualche migliaia di voti utili. Contrariamente a insinuazioni da campagna elettorale, l’orientamento sarà sicuramente molto vicino a Israele, non a caso l’attuale consigliere di Obama sul Medio oriente è Dennis Ross, sostenitore dell’invasione statunitense in Iraq e molto vicino a neoconservatori come Paul Wolfowitz. Ha lavorato per Wolfowitz nelle amministrazioni Carter e Reagan, prima di occuparsi di Medio Oriente sotto il presidente Bush senior e Clinton. Dopo avere lasciato il Dipartimento di Stato nel 2000, si è unito al think tank proisraeliano di destra, il Washington Institute for Near East Policy, e ha lavorato come analista di politica estera per la Fox News. Ross è ben noto per la sua linea aggressiva, anche se ad oggi, sulla soglia della Casa Bianca parla di un’atteggiamento “intelligentemente aggressivo”, sinonimo di una stategia inclusiva che offrirà opportunità di dialogo. Anche all’Iran.

Intanto nelle ultime settimane il conflitto israelo-palestinese si è incendiato ancora, più di un migliaio di vittime civili si aggiungono alle condizioni insostenibili in cui la popolazione è costretta a vivere nei territori. Il bisogno di porre rimedio all’ennesima emergenza umanitaria che inginocchia i palestinesi e la sollecitazione dell’Europa per un maggiore impegno da parte degli americani non sembrano essere stati bene uditi oltre oceano; l’approvazione, al Consiglio di sicurezza ONU, della risoluzione per l’immediato cessate il fuoco e la distribuzione di aiuti umanitari, ha visto un’unica astensione. Quella degli Stati Uniti. Duole ammetterlo, ma nonostante il massacro quotidiano in corso a Gaza, il conflitto israelo-palestinese non rappresenta la priorità nella strategia internazionale della nuova presidenza. Il conflitto è in una fase molto aspra, riflesso della delicata situazione interna a ciascun paese (le elezioni in Israele il prossimo 10 Febbraio e l’instabilità di Hamas) e dell’effetto collaterale devastante che gli interventi, a volte forzati e maldestri, degli Stati Uniti e dei suoi alleati, hanno avuto in Medio Oriente.

Ecco perché in cima all’agenda presidenziale le questioni da risolvere sono altre:
crisi economica, rapporti con Russia, Cina e Iran, e relazioni con l’Unione europea.

Il tracollo economico americano ha colpito profondamente i cittadini americani. Molti di loro hanno perso il lavoro, e dopo il lavoro stanno perdendo la casa, il simbolo del sogno americano. Quel sogno è stato tradito da anni di deregulation neo-liberista e avide speculazioni finanziarie.
Il piano anticrisi di Obama prevede la riduzione delle imposte per raggiungere una distribuzione egualitaria della tassazione, distribuzione che sotto l’ amministrazione Bush aveva nettamente favorito i più abbienti. Il Presidente eletto punta ad aumentare dal 33% al 39% l’imposta per i cittadini con reddito maggiore a 250,000 dollari annui. Investimenti intorno ai 50 miliardi di dollari sono previsti per le infrastrutture mentre per il cavallo di battaglia pre-elettorale, ovvero la riforma del sistema sanitario, Obama garantisce un’ampia estensione della copertura sanitaria. Tranquilli, le disparità dell’american dream rimangono. La copertura non sarà obbligatoria per tutti e non sarà garantita a tutti. Con i quaderni contabili alla mano si nota che l’assistenza sanitaria aumenta del 2,5% l’anno cosicchè Medicare e Medicaid, le due più grandi strutture sanitarie, rappresenteranno presto una grande fetta del PIL americano. Per fortuna alla sanità ci penserà Tom Daschle, veterano ed esperto delle guerre tra lobby.

La grande novità in fatto di programmazione economica è senz’altro quella legata ai green collars job, ovvero coloro che lavorano nel settore ambientale. La svolta della nuova presidenza, che vuol (e deve) fare di necessità virtù, sta nell’investimento in fonti energetiche alternative che dovrebbero garantire maggiore indipendenza nell’approvvigionamento di risorse energetiche sia la creazione di 3 milioni di posti di lavoro.

La crisi economica valutata globalmente, offre un collegamento chiarissimo tra l’interdipendenza degli USA, l’assetto geopolitico e la sicurezza mondiale. Gli americani sono indebitati con mezzo mondo, molti paesi creditori degli Stati Uniti non sono “paesi amici”, anzi di loro si direbbe tutt’altro. Essi potrebbero essere classificati come nemici o partener; considerata la portata degli interessi in ballo e della sicurezza che deriva dalla loro soddisfazione, la prima soluzione non conviene all’America e meno che mai ai suoi creditori. Alcuni di questi paesi detengono il controllo sulle risorse energetiche mondiali. Puntualizzati alcuni punti si capisce che la potenza americana non è più così solida.
La Cina ha un credito con Washington superiore a 518 miliardi di dollari, il crollo di Wall Street ha arrecato una grave perdita di capitali anche alla Repubblica Popolare che è riuscita, per un soffio, ad evitare ripercussioni sulla stabilità economica interna, registrando comunque un arresto della crescita. Pechino sperava di continuare a beneficiare degli investimenti sul debito americano ancora per un po’ di anni, ma la crisi ha fatto emergere la necessità di chiarire le relazioni tra Washington e Pechino. Certo è che il capitalismo cinese non può, adesso, correre il rischio di intensificare gli affari con gli Stati Uniti, poiché una nuova crisi di Wall Street trascinerebbe anche il capitalismo mandarino. Sui rapporti con la Cina influiscono anche quelli che l’ America ha con la Russia. L’ipotesi di una sincera intesa tra Mosca e Pechino è remota, ma la possibilità di strizzarsi l’occhiolino con lo scopo di premere su Washington potrebbe non esserlo. E’ stato esplicitamente dimostrato negli ultimi due anni che, se il comunismo è finito, il rancore russo per gli Stati Uniti resiste ancora, nutrito dall’ambizione, quasi sempre disattesa, di essere considerata al pari delle altre potenze occidentali. La Russia detiene gran parte della liquidità statunitense oltre a tesori energetici e testate nucleari. Un bel problema per Washington, che ha ripetutamente messo alla prova la pazienza sovietica allargando la sfera di influenza della Nato sul vecchio continente. Quando lo scontro stava prendendo toni aspri, la tensione russa è stata ridimensionata dal crollo finanziario e la conseguente diminuzione del prezzo del petrolio ha fatto il resto. Cosi la congiuntura negativa per Putin e Medvedev sarebbe l’occasione di Obama per temperare le relazioni con il Cremlino, la posizione geopolitica della Federazione preoccupa molti. In alcuni stati membri dell’Unione Europea la dipendenza da Mosca è forte, in Germania come nei Balcani e in Medio Oriente le forniture di gas tengono insieme gli “amici della Russia” mentre la sua influenza si sposta anche oltre l’Europa, fino all’America Latina e all’ Africa. L’altra minaccia made in Russia è la nascente triade del gas; Iran e Qatar si uniranno al colosso sovietico per saldare le risorse di gas in un cartello detentore del 56% delle fonti mondiali. Un accordo con Mosca è auspicabile per l’amministrazione Obama, il quale dovrebbe sottoporre a Medvedev anche la revisione della corsa agli armamenti nucleari.

Lo smart power in salsa clintoniana sa che da qui si aprirebbe la porta del dialogo con Teheran. Si dice che al mondo nessuno è indispensabile: vale anche per la Russia. Non per l’Iran.

L’Iran deve essere considerato da Washington un attore regionale di primo piano e non un semplice avversario. Dopo un vero dialogo instaurato con l’Iran e, a detta di Ross, con una “aggressiva” pressione diplomatica, sarebbe possibile un’intesa con Teheran. Compromessi diplomatici con Ahmadi-Nejad sulla questione nucleare farebbero tirare il fiato a mezzo mondo e aiuterebbero Washington ad uscire dalla palude mediorientale, dove diplomazia e politica militare stanno per essere inghiottite. La distensione nel mondo arabo sarebbe palpabile con conseguenze decisive sulla guerre tra Israele e Palestina, in Afghanistan e Iraq. Anche la partita giocata sul terreno delle energie subirebbe una svolta, ma ai danni della Russia. Il progetto egemonico di Gazprom (riguardante la partecipare alla costruzione e alla gestione del gasdotto da 7 miliardi di dollari che collegherà l’Iran e l’India via Pakistan) potrebbe fallire. L’ accordo iraniano con gli USA prosciugherebbe i canali euro russi, il gas percorrendo il gasdotto turco verso l’Europa metterebbe da parte la Russia e i suoi ricatti.
Anche la strategia transatlantica ha iniziato a scricchiolare, i piani di interferenza della Nato in zona caucasica hanno dimostrato l’inadeguatezza di garantire stabilità ai paesi candidati ad entrare nell’ organizzazione. Hilary Clinton e i generali americani intenderanno che l’Europa non può continuare ad essere la ruota di scorta.

Se in tempo di guerra fredda l’Europa era oggetto di una strategia di contenimento adesso, nell’era della politica multilaterale, l’Europa dovrà essere la partner principale della nuova America ispirata dal potere intelligente.

COME SUPERARE QUESTA CRISI?

crisi finanziariaCome superare questa crisi? Un patto delle responsabilità collettive

di Daniele Mocchi – IE Sapere

Tra i tanti insegnamenti che ci sta fornendo questa crisi economica, così unica – se vogliamo – nel suo genere, quello che più mi ha colpito è che non è possibile pensare di rispondervi usando soltanto strumenti tradizionali. Ce lo hanno insegnato addirittura i nostri stessi Governi, nella fase iniziale, quando più o meno all’unisono hanno messo in atto azioni finalizzate a salvaguardare il sistema finanziario, per evitare che si diffondesse panico eccessivo a livello di imprese e famiglie.

Personalmente, sono dell’idea che di fronte ad una crisi così globale e durevole, che nel giro di un anno/un anno e mezzo porterà inevitabilmente ad un rimescolamento degli equilibri competitivi mondiali, chi pensa di seguire il facile ragionamento che <>, rischierà di trovarsi pericolosamente vicino al crinale, quando effettivamente la ripresa si sarà riavviata.

Non voglio entrare nel merito dell’efficacia delle diverse politiche economiche dei Governi europei e mondiali. Dico soltanto che chi ci ha condotto repentinamente nel tunnel riuscirà anche a tirarci fuori, grazie ad un’incisività e ad una flessibilità nella politica economica e monetaria che molte autorità europee non sono state in grado, in questi mesi, di esprimere (vedi BCE).

Ciò che più mi preoccupa è però l’aspetto micro. Questa crisi, infatti, non può essere affrontata solo in chiave macro, se poi a livello di singoli territori, singole imprese, singole famiglie non vi è altrettanta sensibilità a recepire e a modificare certi comportamenti o a correggere certe disfunzioni.

Guardando più specificamente il lato produttivo, resto dell’opinione che un’impresa, oggi, indipendentemente dalla sua dimensione, non può pensare di rispondere a queste gravi avversità soltanto bussando alla porta delle banche per avere liquidità, piuttosto che razionalizzando o allungando le scadenze dei propri ordini ai fornitori, o approfittando del rinnovo e dell’ampliamento dei fondi governativi per mandare in Cassa integrazione parte della propria forza lavoro.

Oggi, ancor più di ieri, è indispensabile mostrare responsabilità e consapevolezza rispetto all’idea iniziale sulla quale ha preso le mosse l’intrapresa. La cifra della responsabilità sociale di un imprenditore si vede, in questo momento, dal coraggio e dalla perseveranza con la quale vuole continuare a portare avanti il proprio progetto imprenditoriale. Pensare pertanto di continuare a finanziarsi, per esempio, con il classico credito ordinario di cassa, sarebbe soltanto un modo per alleviare temporaneamente la situazione, ma nel lungo periodo non porterebbe a nulla, se non ad un aggravamento della situazione dei conti economici e finanziari dell’azienda.

Le risposte da dare oggi, invece, sono altre, più innovative; risposte che in Italia, in generale, non sono purtroppo mai germogliate totalmente. L’idea è che sia assolutamente indispensabile un gentlemen’s agreement tra tutti gli stakeholders del sistema, una sorta di “Patto delle responsabilità collettive per il Paese”, per evitare derive ancora peggiori, che nessuno vorrebbe. Da un lato vi deve essere una presa di coscienza maggiore da parte degli imprenditori che è indispensabile un loro sforzo ulteriore, e dall’altro, però, si deve riconoscere loro la pretesa di poter ricevere qualcosa in più dal contesto in cui operano, dai loro dipendenti, dalle banche.

Ecco perché un patto tra gentiluomini è assolutamente necessario per rispondere a questa crisi in maniera collettiva, come sistema. Se riusciremo a fare ciò come Paese e come singoli territori, questo varrà molto più di tanti finanziamenti pubblici, che per loro natura sono inevitabilmente individuali, a pioggia e, spesso, non sono neppure allocati efficientemente.

La logica che sottende tutto il ragionamento è quella di sfruttare un tale momento storico per uscirne più forti di prima.

Queste, secondo me, sono quindi le azioni che andrebbero messe in atto dalle nostre imprese in questo lasso di tempo.

1. Approfittare di questa crisi per rimettere a posto i conti economici e finanziari. Sappiamo tutti che in generale le nostre imprese sono troppo piccole, sottocapitalizzate, fortemente indebitate e scarsamente redditizie: approfittiamo di questa situazione per invertire questo trend, altrimenti una crisi lunga e così difficile, rischierà di lasciare molte macerie.

Scivolare, infatti, fino ad un rating tripla C non è poi così difficile, soprattutto in momenti come questi: basta essere sottocapitalizzati (l’optimum secondo i parametri di Basilea dovrebbe essere un patrimonio netto pari ad almeno 1/3 del capitale investito), avere margini operativi non entusiasmanti (secondo Basilea pari ad almeno il 10% del fatturato), appartenere a un settore in crisi e essere contraddistinti da performance negative. Ceteris paribus, è facile immaginare che, nel nostro Paese, l’esercito di coloro che rischieranno di ottenere ristrettezze sul credito o impennate del costo del denaro nelle prossime settimane (perché fuori da questi parametri), conterranno molte reclute.
Oggi più di ieri, l’imprenditore, di qualunque statura esso sia, dovrebbe sempre tenere a mente quotidianamente che impresa vuol dire produzione, ma vuol dire anche economia e finanza, e che tutti questi tre aspetti sono strettamente intrecciati tra loro, per cui è fondamentale tenerli in ordine e in equilibrio.

E’ assolutamente indispensabile, dunque, scrollarsi di dosso tutti quei comportamenti poco virtuosi e quei timori che finora hanno accompagnato gran parte del capitalismo italiano. A mio modo di vedere, per fare ciò occorre:

• ricapitalizzare la propria impresa con mezzi propri;

• aprirsi ai capitali esterni (private equity);

• aprirsi alle risorse umane esterne favorendo un mercato dinamico dei managers e dei talenti in generale;

• cercare strade alternative come quella di lavorare in sinergia con altre imprese, anche internazionali, e, se è il caso, praticare la soluzione non indolore della fusione;

• essere più chiari e trasparenti nei propri prospetti contabili e presentare progetti aziendali convincenti, di ampio respiro e di lungo periodo.

2. Rimettere al centro dell’organizzazione aziendale il capitale umano. Questa crisi ci sta insegnando che dobbiamo ritornare alle qualità tangibili, al sapere fare, al saper innovare, elementi che sono stati e sono ancora nel Dna delle nostre imprese, al di là di ciò che viene codificato dalla statistiche ufficiali. La vera forza competitiva di un’impresa oggi, e ancor meglio in una contingenza simile, oltre a dipendere dalla vivacità del contesto nel quale opera, si misura attraverso la capacità di valorizzare i propri uomini e le proprie donne. Sono loro che fanno veramente la differenza, non sono più, come un tempo, né i prodotti, né l’accesso alle materie prime. Molte indagini internazionali ci dicono che la produttività, che poi è il vero deficit delle nostre imprese, non si alza se non attraverso la valorizzazione dei nostri talenti e la qualità del lavoro. Coltivare e valorizzare talenti vuol dire anche assicurare capacità innovativa all’impresa.

3. Guardare a nuovi mercati, come quelli dell’Est Europa, dell’Asia o del Sud America, insomma rafforzare la rete distributiva in paesi non tradizionali, cercare joint venture. Ci si è sempre vantati che le nostre aziende sono aziende internazionali. Ebbene dimostriamolo ancora di più e meglio in queste occasioni!

Va benissimo continuare a vendere una certa quota dei nostri prodotti all’estero, ma l’internazionalità è anche altro. L’internazionalizzazione si misura anche nella capacità di partecipare come protagonisti ai grandi giochi del mondo, nella capacità di fare cooperazioni, joint venture, per accordi tecnologici, per trovare nuove fonti di idee, per conquistare nuovi mercati, etc. E su questi aspetti, purtroppo, siamo un po’ rimasti fuori finora dai giochi globali. E’ logico che occorra un approccio mentale e culturale innovativo, ma se non lo mostriamo adesso se ce l’abbiamo, quando lo facciamo? Sia chiaro: non è un problema di dimensione aziendale.

Già decidere di destinare almeno un 10% del proprio budget in attività di ricerca e sviluppo, nella conoscenza dei mercati e dei potenziali clienti (georeferenziazione dei mercati), e in piani di comunicazione, sarebbe una buona pratica. D’altro canto, negli ultimi anni la qualità del prodotto non è più la discriminante principale del successo di un’azienda, ma sono invece i fattori immateriali e gli individui ad essere determinanti.

E’ giusto quindi che gli imprenditori diano molto alla causa, ma al contempo è anche giusto che ricevano un di più dal sistema banca io e dai loro dipendenti.
Si sa che il sistema bancario in Italia, ma non solo, è assolutamente vitale per le piccole medie imprese, essendo l’unico vero canale dove poter reperire fondi. Proprio per questo è auspicabile che un salto di qualità del tessuto produttivo sia accompagnato da un altrettanto salto di qualità del principale canale di finanziamento. Perché la capacità di investire e di innovare di un’impresa non dipenda soltanto dalla forza contrattuale dell’imprenditore nei confronti del sistema bancario, ma dalla bontà del progetto aziendale che presenta. Oggi si deve ripartire da questo punto. E’ uno dei tanti insegnamenti che ci lascia questa crisi.

Alla luce di ciò, sarebbe auspicabile se il sistema bancario:

1. Andasse incontro alle imprese, laddove queste esprimessero l’intenzione di rinegoziare vecchi mutui, sottoscritti tempo addietro ad un tasso di interesse fisso molto più alto rispetto a quello odierno; oppure accogliesse la loro volontà di fare operazioni di consolidamento del debito, per spalmare il finanziamento su un arco temporale il più lungo possibile, in modo da ridare un po’ di ossigeno ai loro conti. E’ chiaro che l’ausilio di un Confidi in questo caso potrebbe essere prezioso, sostituendo con la propria garanzia la debolezza dell’impresa.

2. Si rendesse disponibile ad entrare direttamente come socio, e non solo come creditore, nel capitale di alcune imprese, laddove queste non avessero disponibilità monetarie per ricapitalizzare saldamente il proprio patrimonio sociale. Questo è un passaggio importante. Oggi è fondamentale, per le imprese, mostrare un’apertura nei confronti del capitale terzo e nei confronti del management esterno, e, per le banche, è altrettanto importante mostrare disponibilità ad investire nel sistema. I problemi sono diventati talmente complessi che se non ci si affida anche a specialisti esterni, a dottori della materia, mettendo da parte l’ambizione personale, si rischia di non guarire le nostre aziende.

3. Desse maggior supporto, non solo finanziario, ai progetti di espansione commerciale all’estero e di stabile presenza sui mercati internazionali del sistema produttivo.

Infine, non può venire meno la responsabilità dei Sindacati dei lavoratori, i quali oggi dovrebbero accantonare ogni forma di protesta sterile che in questo momento non serve a nessuno, e dare una mano a riscrivere le regole per una pacifica convivenza e per una fattiva collaborazione, per uscire da quest’impasse.

LA SVOLTA (VERDE) DI OBAMA

Green Economydi Massimo Preziuso – IE Energia

Stamattina mi sono detto: ieri negli Stati Uniti si è consumata una giornata molto importante per tutto il Mondo.

Obama ha dato una svolta fondamentale alla politica industriale americana, e di conseguenza europea ed asiatica (potremmo dire mondiale).

La decisione di portare i limiti di emissione delle automobili a ribasso, analizzata in maniera ampia, vuol dire tante cose:

1) l’industria automobilistica mondiale si avvia, gradualmente, all’ibrido e all’idrogeno (ed in generale l’industria dovrà diventare “energeticamente sempre più efficiente”)

2) il protocollo di Kyoto andrà a rinforzarsi a Copenaghen quest’anno (è evidente che la decisione “automobilistica” di ieri sottenda una già annunciata trasformazione dell’economia americana da “high carbon” a “low carbon” con tutte le conseguenze che essa porterà soprattutto in Cina): il Global Kyoto è davvero più vicino

3) Soprattutto, ieri, si è avuto il passaggio “fondamentale” di attenzione dal mondo di ieri (la finanza derivata, il credit crunch..) a quello di domani (la sostenibilità, l’ambiente..)

Obama è realmente quello che abbiamo visto durante la lunga campagna elettorale americana: un riformista carismatico e pragmatico, un innovatore reale, un “Leader Nuovo, in un Mondo Nuovo”, destinato a diventare, da qui a 5 anni, il naturale Leader Mondiale di questo inizio secolo, pieno di complessità ma anche di potenzialità.

Speriamo che in Italia ci si riesca ad avvicinarsi, ora e subito, a questo “enorme modello di innovazione” che sta arrivando dall’America.

Vi è chi, come il Partito Democratico, potrebbe “sfruttare” naturalmente e positivamente questo “momento” per cambiare tanti “modelli culturali” del nostro Paese e della nostra Europa.

Speriamo soprattutto che non continui quello che sta accadendo finora: mentre gli altri “innovano” e guardano velocemente al futuro, noi stiamo qui a conservare il presente di pochi, dimenticandoci del futuro incerto di molti.

Voi che ne pensate?

Massimo Preziuso

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