Innovatori Europei

Significativamente Oltre

Gli scenari energetici nell’area EU – MENA

desertec

di Massimo Preziuso

Nei prossimi decenni, diversi sviluppi globali creeranno enormi sfide per l’umanità. Ci confronteremo con problemi quali il cambiamento climatico, la crescita demografica oltre i limiti della capacità del Pianeta, ed una crescita di domanda di energia ed acqua causata da battaglie per la prosperità e l’espansione.

In un mondo fortemente interconnesso nell’economia, nei commerci e nella politica, sfide come queste vanno affrontate in ambito globale.

In questo contesto, per l’Europa è al contempo naturale e fondamentale rivolgere lo sguardo alla sponda sud del mediterraneo, se vuole affrontare le criticità a cui ci avviciniamo.

In tal senso, l’Unione Europa, nel dimostrarsi ancora una volta quale principale promotore di innovazione politica del pianeta, ha fatto importanti passi verso la definizione di una piattaforma politica euro – mediterranea, coinvolgendo anche l’area medio orientale.

Le relazioni politiche ed economiche dell’Unione Europea (UE) con i paesi della sponda sud del mediterraneo (Med) hanno subito, negli ultimi anni, una profonda evoluzione.

Fra il 1995 e il 2003 la politica mediterranea dell’Unione Europea si è concretizzata soprattutto nel Partenariato Euro-Mediterraneo (PEM), noto anche come processo di Barcellona. Dopo l’allargamento dell’UE nel 2004, i paesi sud-mediterranei facenti parte del PEM sono stati inclusi nella nuova politica europea di vicinato (PEV) accanto a quelli dell’Europa orientale restati fuori dall’UE.

Nel dicembre 2007, in una conferenza stampa a Parigi, presenti i primi ministri di Italia e Spagna, il presidente Sarkozy ha annunciato la creazione dell’Unione per il Mediterraneo (UpM). I paesi che hanno firmato il documento istitutivo sono quarantatre: tutti i membri dell’Unione Europea e le nazioni che si affacciano sul Mediterraneo, ad eccezione della Libia che ha preferito partecipare come osservatore. Questo nuovo organismo, costituito a livello dei primi ministri delle nazioni aderenti, ha una doppia presidenza affidata a turno a due paesi, uno europeo e l’altro mediterraneo (attualmente Francia ed Egitto).

La sede dell’UpM, decisa in una riunione avvenuta a Marsiglia nel novembre 2008, è Barcellona.

Dal 2009 tutte le strutture logistiche dell’organizzazione sono operative, guidate da un segretariato generale, con l’incarico di gestire i fondi e di controllare lo stato di avanzamento dei progetti comuni che verranno intrapresi.

L’UpM può finanziare i suoi progetti utilizzando diverse fonti, dalla partecipazione del settore privato al prelievo dal budget europeo, dal contributo dei partners a quello della Banca europea di investimento.

A tutt’oggi però l’operatività di UpM è molto limitata per difficoltà politico-istituzionali non ancora superate.

L’UpM, nasce con l’idea che i settori economici siano trainanti per lo sviluppo delle relazioni tra le due sponde del mediterraneo, e per questo ha come compito prioritario la realizzazione di progetti regionali di grande impegno economico e i firmatari dell’accordo hanno convenuto di dare la priorità a sei iniziative fondamentali:

– il disinquinamento del Mediterraneo,

– la costruzione di autostrade marittime e terrestri tra le due sponde del Mediterraneo,

– il rafforzamento della protezione civile,

– la creazione di un piano solare mediterraneo,

– lo sviluppo di un’università euro-mediterranea

– un’iniziativa di sostegno alle piccole e medie imprese

 

In particolare, al suo interno, il tema energetico – ambientale ne rappresenta un motore trainante, nella constatazione del primario ruolo che le energie rinnovabili possono avere nel garantire un avvicinamento reale tra le due sponde del mediterraneo.

Secondo uno studio del 2009 della Fondazione Mezzogiorno Europa (M. Pizzigallo, L’Italia e l’Unione per il Mediterraneo, Napoli, Fondazione Mezzogiorno Europa, 2009) infatti “la principale richiesta dei Paesi del Maghreb, nell’ambito dei futuri progetti targati UpM, riguarda il trasferimento di tecnologia per la realizzazione di impianti fotovoltaici, eolici e geotermici. La produzione di energia “pulita” libererebbe molti di questi Paesi da una stringente dipendenza energetica, tanto più se si considerano le caratteristiche fisiche e climatiche dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, per le quali il sole e il vento costituiscono una “materia prima” a basso costo e a massimo rendimento. Per tali motivi, dunque, proprio sul settore energetico vertono i progetti futuri di molti enti, e anche l’Italia guarda con favore allo sviluppo delle energie rinnovabili, cercando di trarre giovamento dalla condivisione di conoscenze ed esperienze con la sponda Sud”.

Esempio concreto di attuazione dell’iniziativa in ambito energetico è dato dal “Piano solare mediterraneo” (PSM) inserito nell’UpM per l’integrazione dei mercati energetici e la promozione dello sviluppo sostenibile nell’area del mediterraneo. L′obiettivo principale del PSM è noto: installare 20 GigaWatt di capacità di energia rinnovabile nei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente entro il 2020; in buona parte per soddisfare i bisogni locali, ma in parte anche per esportare elettricità nell′Ue, dove potrà essere utilizzata per contribuire al conseguimento dell′obiettivo di portare al 20% la quota di rinnovabili ne consumo totale di energia.

In questo contesto, su iniziativa del chapter tedesco del Club di Roma, nasce il progetto Desertec (che oggi raduna sedici primari partner tra cui Eon, Rwe, Deutsche Bank, First Solar, oltre all’italiana Enel Green Power) che propone una cooperazione tra Europa, Medio Oriente e Africa Settentrionale (EU-MENA) per la costruzione di centrali solari termodinamiche ed eoliche nei deserti della regione MENA. Obiettivo del progetto è di proporre e realizzare impianti solari ed eolici nei Paesi nord-africani e medio – orientali, al fine di coprire entro il 2050 il 15% della domanda elettrica dell’Europa e una porzione significativa di quella dei Paesi produttori, con investimenti stimati in circa 400 miliardi di euro.

Il trasporto avverrà grazie alla realizzazione di una rete di linee di trasmissione elettrica ad alta tensione con cavi sottomarini tra Africa ed Europa, denominata Transgreen, progetto di punta tra i sei previsti dalla UpM, presentato dalla francese Edf.
Sullo sfondo, la posta in gioco è molto alta. Si tratta di sviluppare l’interscambio di energia elettrica e di collegare le nuove fonti di generazione di energia rinnovabile alle reti tradizionali. E allo stesso tempo, rendendo disponibili grandi volumi di energia generata in località remote, consentire una maggiore apertura del mercato dell’elettricità tra stati, favorendo la riduzione dei prezzi al consumo e la spinta all’innovazione tecnologica. L’obiettivo finale è ridurre i costi per l’utente finale. Con un’incognita. I tempi sicuramente lunghi, e la necessità di un non sempre facile coordinamento politico tra stati.

L’accoppiata Desertec-Transgreen può diventare a sua volta complementare della “Supergrid” paneuropea, che si inquadra nell’ambito degli obiettivi Ue di riduzione delle emissioni di gas serra del 20% entro il 2020 e che prevede di rendere disponibili grandi volumi di energia generata in località remote da fonti rinnovabili. Un esempio tipico sono le centrali eoliche offshore del nord Europa, come quelle in corso di realizzazione in Gran Bretagna.
Attualmente nel Mediterraneo sono collegate con linee a corrente alternata le reti elettriche di Marocco e Spagna, via Gibilterra. Transgreen dovrebbe partire più a est, da Algeria o Tunisia. Molti i progetti allo studio, come il collegamento Balcani-Italia, Malta-Italia, Tunisia-Sicilia.

In conclusione, tornando ad UpM, per alcune sue caratteristiche, secondo lo studio di Mezzogiorno Europa, essa rappresenta una grande opportunità di crescita per l’Italia: “In primo luogo, la connotazione prettamente tecnica e progettuale della nuova organizzazione, che individua gli ambiti prioritari di intervento in settori economici e sociali di particolare rilevanza strategica: l’ambiente, con particolare riferimento alla lotta all’inquinamento nel Mediterraneo; i trasporti; la protezione civile; le energie alternative, con il progetto di “Piano Solare Mediterraneo”; l’alta formazione e la ricerca, nel cui ambito è stata prevista l’istituzione di un’Università Euro-Mediterranea; lo sviluppo economico, sociale ed imprenditoriale dell’area mediterranea. In secondo luogo, la flessibilità regionale di tali progetti che potranno investire tutti o solo una parte dei partner, a seconda del loro grado di interesse e di coinvolgimento nello specifico settore di intervento. Questa sorta di “cooperazione a più velocità” nel Mediterraneo potrebbe consentire alle realtà italiane di porsi in prima fila nell’implementazione dei progetti con i paesi della sponda Sud. In terzo luogo, la decisa apertura, prevista nell’UpM, agli attori non statali, come le autorità locali, le imprese e le organizzazioni non governative, costituisce un quadro istituzionale di estremo interesse per l’Italia, in cui la forte crescita della cooperazione decentrata ha già permesso ad enti, istituzioni, autorità locali e organizzazioni della società civile di assumere una forte proiezione internazionale, spesso con il Mediterraneo come area di intervento privilegiata.”

 

Per concludere, alcuni cenni su Europa ed Area Mena:

EUROPA

L’Unione Europea è una unione politica ed economica composta attualmente da 27 Stati membri. Con oltre 500 milioni di abitanti, è oggi l’area economica più ricca del mondo.

La Regione, riconosciuta da tutti quale leader nelle politiche energetiche – ambientali (in ultima il “pacchetto clima” varato nel 2008), con la costituzione di una UpM centrata sul tema dimostra una naturale capacità di guardare oltre e di fare innovazione politica.

Nonostante si trovi in una fase delicata della sua vita politica, alle prese con pesanti crisi proprio in alcuni dei paesi “mediterranei” (Grecia, Spagna e Portogallo), l’Unione sta dunque puntando fortemente sul tema energetico – ambientale quale occasione per il rilancio della sua iniziativa politica e della sua economia, oltre che necessità per il superamento di una dipendenza sostanziale da partners “difficili” come la Russia nell’approvigionamento di combustibili fossili, e la contestuale riduzione del gap di costo dell’energia che ne limita seriamente e da tempo la competitività di sistema.

Vi è da dire che all’interno della UE risiedono paesi riconosciuti quali leaders delle industrie delle energie pulite (si pensi alla Germania, ma anche alla Spagna e all’Italia, nella filiera della produzione di energia elettrica da rinnovabili) e della sostenibilità ambientale (si pensi al caso della Svezia o dell’Olanda, per le loro politiche ambientali).

Detto questo, la costituzione di un mercato europeo dell’energia è ancora lontano, viste le correnti differenze esistenti tra i singoli stati membri nella composizione della produzione energetica e quindi nei livelli di prezzi ed emissioni ad essa relative: vi è quindi ancora molto da lavorare.

Il settore è sede di enormi potenziali di crescita per l’intera Unione, ma necessita di un approccio più europeo di quello finora avuto (che vede essenzialmente la libertà per i singoli Paesi membri di definire le proprie politiche energetiche, all’interno di alcuni obiettivi europei di lungo periodo).

 AREA MENA 

Per area MENA si intende l’area del Nord Africa e del Medio Oriente, che parte dal Marocco – nord ovest dell’Africa – ed arriva all’Iran – sud est asiatico.

La Regione ha una popolazione simile a quella europea (circa 500 milioni di persone) ed è caratterizzata fortemente dalle sue vaste risorse petrolifere e di gas naturale, che la rendono decisiva per la stabilità economica del pianeta: secondo l’Oil and Gas Journal (Gennaio 2009), la Regione ha il 60% delle riserve di petrolio mondali (810.98 miliardi di barili) ed il 45% delle riserve di gas naturale (2868.886 trilioni di cubic feet).

Anche per questo l’area MENA nei prossimi anni vivrà seri problemi derivanti dalla presenza contestuale di un enorme aumento demografico e di seri impatti da cambiamento climatico.

Studi della Banca mondiale prevedono dal solo aumento della popolazione, da qui al 2050, il dimezzamento delle risorse acquifere per individuo. Nello stesso periodo di tempo, la temperatura  prevista in rialzo di 2°C comporterà severi danni e numerose morti. Nel contempo, l’area è caratterizzata da un livello di emissioni di CO2 di 60% superiore alla media dei paesi in via di sviluppo.

Detto questo, i paesi MENA hanno un enorme potenziale nelle energie rinnovabili. In particolare, essi condividono le migliori condizioni al mondo per l’energia solare: abbondante soleggiamento, basse precipitazioni, ed enormi distese di terreni non utilizzati vicini a reti viarie e di trasmissione. E fortunatamente, nell’intero bacino del mediterraneo la domanda per elettricità “verde” sta crescendo rapidamente.

I paesi produttori di petrolio dell’area, in particolare i paesi del Golfo, stanno prendendo la leadership tecnologica e finanziaria nello sviluppo di tecnologie low carbon, in particolare per quanto riguarda la carbon capture and storage (CCS). In questo ambito la regione potrebbe contribuire a portare tale tecnologia dalla fase attuale di testing a quella di commercializzazione su larga scala.

Vi è da aggiungere però che, laddove una crescita low carbon dell’economia potrebbe generare importanti benefits per le economie dei paesi MENA (aumenti di produttività e risparmi fiscali associati ad una migliorata efficienza nell’uso dell’energia, una migliorata qualità dell’aria, una ridotta congestione del traffico, etc), le barriere tecnologiche ed in particolare i bassi livelli di prezzo dell’energia presenti nella regione danno un basso incentivo – in assenza di supporto finanziario esterno – per uno sviluppo low carbon su larga scala.

Michele Santoro: interrogativi collaterali

santoro

di Pierluigi Sorti

Una contrastato dibattito imperversa da giorni sulla stampa sulle modalità della risoluzione ( ancora non formalizzata) del contratto di lavoro fra Rai e Michele Santoro.

Opinionisti di vario orientamento ne hanno preso parte, compresi colleghi in Rai dell’ interessato stesso.

Dovrebbe stupire tuttavia che non si sia potuta ascoltare la voce che sarebbe stato normale attendersi in una vicenda come questa, quella cioè delle rappresentanze sindacali della Rai.

La circostanza che, presumibilmente, dipendenti super retribuiti come Santoro non rientrano in una specifica categoria sindacale, non avrebbe dovuto passare sotto silenzio la stridente contraddizione fra situazioni estese di precarietà di fasce di lavoratori e trattamenti così principeschi.   

Che alla Rai si manifestino rapporti di lavoro difficilmente comparabili con la stragrande maggioranza delle attività professionali e lavorative di molti altri luoghi di lavoro, è un fatto  indubbio.

Che tuttavia possano manifestarsi, nel medesimo organismo pubblico aziendale,  condizioni contrattuali per prestazioni con divari di rapporto, fra ultimi e primi della scala retributiva, da uno a quaranta o cinquanta, non è facilmente tollerabile, anche  prescindendo dal particolare momento di acutissima crisi generale.  

Prestazioni peraltro che oltre a non implicare rischi fisici e patrimoniali, offrono grande ampiezza di notorietà personale, intrinsecamente appagante, e viatico a facili e lucrosi cimenti aggiuntivi nei campi più vari, dalla politica alla pubblicità, con eventuale ritorno nelle generose e materne braccia di provenienza.

Ma la specificità di fattispecie contrattuali non facilmente riconducibili, alle categorie lavorative tradizionali, avrebbe dovuto trovare da moltissimo tempo la sua sede naturale di disanima in un istituto di rango costituzionale ( art. 99 ) appunto incarnato nel “Consiglio nazionale dell’ Economia e del Lavoro” di cui è sempre stata “magna pars” una dirigenza di provenienza sindacale.

Il Cnel ( tale ne è l’ acronimo ) concepito e voluto nell’ assemblea costituente da un giurista di elevata concezione democratica come Costantino Mortati , aveva tutti i requisiti costituzionali

– di consulenza e di elaborazione legislativa  per camere e governo – in tutto il vasto ambito dei rapporti nei campi dell’ economia e del lavoro e del loro perenne ciclo evolutivo.

Il perchè dell’ obsolescenza, cui è di fatto è stato derubricato tale istituto costituzionale, è un interrogativo aperto, in una con altre essenziali norme  dimenticate della nostra carta costituzionale, la cui risposta potrebbe contribuire a far luce sul declino in cui versa il nostro paese.

Unione per il Mediterraneo: qualcosa si muove?

Unione per Med

di Luisa Pezone

La macchina dell’Unione per il Mediterraneo comincia, lentamente, a muoversi. Era ferma, a parte qualche isolato passo in avanti, dalla fine del 2008. La recessione economica globale e l’eterna crisi israelo-palestinese riesplosa a Gaza avevano bloccato quasi del tutto la marcia della nuova organizzazione euro-mediterranea nata nel luglio del 2008, su impulso iniziale di Sarkozy e dopo una lunga e sofferta gestazione politico-diplomatica. 

La missione dell’UpM, proclamata solennemente nell’imponente vertice di Parigi che le aveva dato i natali, era quella di imprimere una decisa sterzata ai rapporti euro-mediterranei che, tra la crisi del Processo di Barcellona e il basso profilo della Politica Europea di Vicinato, apparivano ormai agonizzanti.

Il Processo di Barcellona, o Partenariato Euro-Mediterraneo, era partito nel 1995 sull’onda della conferenza di Madrid del 1991 e degli accordi di Oslo del 1993 che lasciavano presagire per il Grande Medio Oriente un’era di pace e stabilità. L’Unione Europea intendeva dotarsi di uno strumento con cui gestire la pace costruita dagli Stati Uniti, consolidandola attraverso le “armi” ad essa più congeniali: il sostegno ai processi di democratizzazione, la cooperazione economica, l’integrazione sociale e culturale. Ma il disegno si era ben presto arenato sulle debolezze strutturali dell’UE, sulla priorità assegnata all’allargamento ad Est e sul mancato coinvolgimento dei paesi della riva Sud nelle decisioni prese a Bruxelles. Ma era stato soprattutto il fallimento del processo di pace in Medio Oriente e il nuovo unilateralismo americano dopo l’11 settembre a travolgere il progetto di Barcellona e ad infilarlo in un vicolo cieco.

Per questi motivi, la Commissione guidata dal Presidente Prodi cercò di inserire nel 2004 i rapporti euro-mediterranei all’interno della nuova Politica di Vicinato, destinata a promuovere stabilità e prosperità nei “nuovi vicini” dell’Unione Europea allargata a 25 e poi a 27. L’obiettivo, come si scrisse allora nei documenti istitutivi,  era “sostituire una frontiera che separa con una che unisce”. Ma l’introduzione della nuova politica finì per strutturare le relazioni euro-mediterranee su un “doppio binario”, quello globale e multilaterale del Partenariato e quello tecnico e bilaterale del Vicinato, con il risultato di togliere coerenza ed incisività all’azione europea.

Fu in questo quadro che Sarkozy, prima da candidato e poi da inquilino dell’Eliseo, lanciò nel 2007 l’idea di un’ “Unione Mediterranea”. Il progetto era semplice e basato su due punti chiave: ripensare i rapporti tra le due sponde del Mediterraneo all’esterno del canale comunitario, costruendo un’organizzazione aperta solo ai paesi rivieraschi, naturalmente più interessati ad elaborare forme di cooperazione più avanzate; abbandonare i grandiosi progetti globali di Barcellona e ripiegare su un approccio più pragmatico, fondato su progetti concreti. Gli obiettivi di Sarkò erano altrettanto chiari: rimettere la Francia al centro delle dinamiche comunitarie e mediterranee, tracciare una strada alternativa all’ingresso della Turchia nell’UE, orizzonte strategico da sempre lontano dall’idea d’Europa del Presidente francese. Lungo la strada, però, l’iniziale disegno francese aveva cambiato volto e nome, grazie soprattutto all’azione della Merkel indisponibile a lasciare le relazioni dell’Unione Europea con i paesi mediterranei sotto l’esclusivo marchio di Parigi. Nasceva così nel luglio del 2008 l’Unione per il Mediterraneo, che abbraccia i 27 paesi UE  e 16 partner mediterranei, compresi anche quelli dei Balcani occidentali: Croazia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Albania. Rimanevano però, anche all’interno della nuova configurazione, alcuni degli elementi più originali della prima idea francese: l’approccio spiccatamente tecnico e progettuale, fondato su pochi e ben definiti settori di importanza strategica, e il tentativo di creare una reale  co-ownership tra le due sponde, attraverso una struttura istituzionale che prevede una Co-Presidenza congiunta e un Segretariato diviso a metà tra i paesi UE e non UE.

Proprio la difficoltà di mettere in moto questo farraginoso meccanismo istituzionale ha costituito uno dei fattori che hanno rallentato la messa in moto dell’UpM a pieno regime. Ora le varie tessere del mosaico sembrano gradualmente tornare al loro posto. Dalla scorsa estate, i rappresentanti dei paesi arabi hanno ripreso la propria partecipazione alle riunioni tecniche, da cui si erano auto-sospesi in seguito all’offensiva israeliana a Gaza del dicembre 2008. Negli stessi mesi, la Commissione Europea ha stanziato, in occasione dell’anniversario dell’UpM, 72 milioni di euro, che vanno ad aggiungersi ai 28 già impegnati lo scorso anno. Più di recente, il 21 gennaio, ha avuto luogo il primo summit dell’Assemblea Locale e Regionale Euro-Mediterranea, uno dei pilastri istituzionali dell’Unione per il Mediterraneo. Infine, è stata finalmente individuata la figura del Segretario Generale nel giordano Ahmad Khalaf Masadeh,  fino ad oggi ambasciatore giordano presso l’Unione europea e la Nato a Bruxelles. Il Segretariato rappresenterà il cuore pulsante della costruzione istituzionale dell’UpM, e avrà sede a Barcellona, nel Palazzo di Pedralbes.

Si riparte insomma da Barcellona, dove tutto era cominciato quindici anni fa.

L’Italia che verrà

italia

di Aldo Perotti

Prendo spunto dalla recente approvazione del federalismo demaniale per avviare una riflessione sul futuro del nostro paese. Mi ripeto e ripeto spesso che il disegno che sembra delinearsi nel combinato disposto delle intenzioni della Lega, del sostanziale assenso della sinistra e della connivenza delle regioni meridionali, e quello di un’Italia in un assetto pre-unitario quasi a cancellare 150 anni e più di storia.Cos’è una nazione ? Un popolo, un territorio, una sovranità, una storia, un lingua, un ordinamento giuridico. Si potrebbe dissertare su ognuno di questi concetti per definire lo stato nazionale e molti hanno studiato come nascono le nazioni, le loro finalità, i loro meriti e demeriti. E’ solo il caso di ricordare che i “padri della patria”, i vari Mazzini, Garibaldi, Cavour ecc. non fossero proprio degli stupidi e che avessero più che valide ragioni per la costruzione dell’Italia unita, che non si limitavano al semplice desiderio di casa Savoia di ampliare i suoi domini, ma facevano riferimento ad una serie di condizioni che imponevano al nostro paese di trovare una sua struttura unitaria, una sua massa critica, in grado di dialogare alla pari con gli altri stati nazionali che si andavano via via assestando.
Del resto il territorio italiano è da sempre ben definito. Separato dal resto d’Europa a nord dalle Alpi ed altrove dal mare, l’Italia ha – anche geograficamente – una sua ragion d’essere.Ma ormai questa idea sembra essere superata e nel nord del paese, sondaggi e risultati elettorali alla mano, il modello secessionista Leghista sembra aver preso il sopravvento e quindi nel futuro tutto sembra destinato a cambiare. Parlo di modello secessionista perché il faro che guida la politica della Lega è in fondo (il primo amore non si scorda mai) la secessione, nel senso di creazione di una nazione-stato distinto dal resto della penisola con il fiume Pò suo confine naturale a sud.
Questa ambizione è conseguenza di un percorso storico che ha visto, anche grazie all’unità d’Italia, attraverso l’industrializzazione e le favorevoli condizioni geografiche, la disponibilità di manodopera meridionale facilmente (anche se non immediatamente) integrabile, uno sviluppo economico particolarmente forte delle regioni del nord a fronte di un grande ritardo delle regioni del sud a prevalente vocazione agricola. Il paese vanta quindi un nord ricco e benestante che sopporta e supporta (così si dice) un sud povero ed arretrato che nonostante la generosità delle regioni ricche non riesce a sollevarsi dalla sua misera condizione.
Il bisogno delle regioni ricche di liberarsi di chi si avvantaggia di una condizione parassitaria è assolutamente comprensibile e quindi la secessione, la separazione, quell’ ognuno per la sua strada che si dicono i coniugi dopo il divorzio, sembra essere del tutto comprensibile.
L’idea di secessione è ovviamente contrastata da chi invece – rifacendosi alla storia – vede nell’idea di aggregazione, nella forza del numero, dei vantaggi in grado di superare le differenze tra uomini, territori e risorse. Chi ha sognato e sogna un’Europa politicamente unita, un grande nazione Europea, non può che ritenere l’aspirazione all’autonomia, all’indipendenza, solo il retaggio di un antico passato – medioevale come approccio – che crede di saper e poter gestire il suo feudo anche in barba all’imperatore, grazie ad alte mura ed ad un “fedele” esercito di mercenari (non ha caso la Lega fa continuo riferimento ad un momento storico che è tardo-mediovale o pre-comunale, ovvero un periodo che ricorda la situazione attuale, territori ricchi che vogliono autogovernarsi ed affrancarsi dall’impero che parassita risorse).
Quindi sembra proprio che, mascherata da federalismo (che poi federalismo non è perché il federalismo è l’unione di più stati per fini comuni), assisteremo ad una secessione di fatto o meglio ad una “esplosione” del paese in 21 staterelli tenuti insieme da una “costituzione federale” che sarà la vecchia e amata costituzione italiana ampiamente riveduta e corretta.
Con il federalismo demaniale – il primo passo – la questione “territorio” sembra risolta in parte.
Ci saranno contenziosi in futuro, questo è certo, ma il fatto che la regione disponga di un proprio demanio, di propri beni pubblici, è un segnale molto forte. Il fatto che il Pò rimanga in qualche modo “extraterritoriale” in quanto “statale” ricorda non poco il regime di extraterritorialità che riguarda il Danubio, fiume su quale si affacciano più nazioni.
L’approccio regional-nazionale (come potremmo forse definire un regionalismo spinto, per certi aspetti xenofobo) sarà in futuro portatore di conflitti spesso irrisolvibili. Già oggi ne abbiamo un assaggio quando lo stato “centrale” emana norme, che in qualche modo riguardano l’autonomia (la sovranità) regionale, subito partono ricorsi alla Corte Costituzionale per conflitto di attribuzione, competenza, ecc.
Stabilire, non solo nelle materie concorrenti ma in tutta la sfera pubblica, dove arriva lo stato centrale e dove quello regionale diverrà via via più complesso.
Il federalismo fiscale, che dovrebbe concedere autonomia impositiva e responsabilizzare nell’utilizzo delle risorse, rischia di rivelarsi anche per le regioni più ricche un terribile boomerang.
La tassazione è una “imposizione” nel senso che un’autorità più forte “impone” il suo volere ed “esige” il versamento di somme per scopi vari e non sempre ben giustificati agli occhi del “tassato” (il termine contribuente è solo più elegante). Per far pagare le tasse occorre forza, si deve essere grandi e grossi e poter contare su amici ancora più forti (essenzialmente un esercito). Se qualcuno non intende pagare le tasse lo Stato ricorre alla forza per farle pagare o comunque interviene (è il caso del crimine organizzato) per impedire o interrompere attività svolte e flussi di denaro che sfuggano al suo controllo.
Come spera un’Amministrazione Regionale di combattere l’evasione, la criminalità affaristica, senza avere a disposizione dei funzionari, un piccolo esercito, in grado di intervenire. Tra l’altro dovendo evitare quei fenomeni di “sub-corruzione” che, nelle piccole comunità, sono più facili ed incontrollabili. In un piccolo paese, un vigile non è in grado di fare multe ai suoi concittadini (non è carino e non e simpatico) e si concentra sui forestieri. Per questo motivo i carabinieri di prima nomina non possono lavorare nei paesi di origine, la loro funzione di “soggetti terzi” ne risulterebbe sminuita; potrebbero avere un occhio di riguardo con i compagni di scuola.
Le Regioni dovranno affiancare alle strutture regionalizzate dell’attuale Agenzia delle Entrate un sistema di esazione del tutto simile a quello nazionale (Equitalia, Commissioni Tributarie, ecc.) ma regionalizzato se non vorranno che fare continuo ricorso allo Stato Centrale (con i suoi tempi). Uno Stato centrale tra l’altro sempre meno interessato a svolgere il ruolo del “cattivo conto terzi” e la cui centralità è e sarà continuamente messa in discussione.
Se per lo Stato centrale è difficile riscuotere le imposte per uno stato parcellizzato diverrà quasi impossibile e sarà costretto a far pagare di volta in volta i singoli servizi per garantire il funzionamento delle strutture pubbliche, con un venir meno di quei servizi totalmente pubblici che non è agevole sottoporre a tariffa (come la pulizia delle strade, la loro manutenzione, ecc.).
Un grosso passo indietro nella storia.
In Bulgaria, dove non navigano nell’oro ed il sistema fiscale non è del tutto funzionante (anche perché prima – con il comunismo – quasi non esisteva), la manutenzione dei marciapiedi è affidata ai negozianti con il risultato che i marciapiedi sono un patchwork assurdo di materiali (con qualche buca qua e la).
Ho paura che si finirà anche da noi, in qualche quartiere, a dover rinunciare del tutto ai marciapiedi…..

Chi si ferma è perduto

globalizzazione

di Fabrizio Macrì

Ginevra 15 marzo 2010, Palais des Nations, sede delle Nazioni Unite.

Nelle sale conferenza 25 e 26 di questa storica sede si è svolto un interessantissimo simposio tra accademia, agenzie governative e organizzazioni internazionali sul tema degli investimenti diretti esteri. L’UNCTAD (United Nations Conference on Trade and Development) è la massima autorità mondiale in materia e da ormai 20 anni produce il World Investment Report, pubblicazione di riferimento per chiunque si occupi di analizzare i flussi di investimento tra Paesi. Scopo dell’incontro: una definizione degli ambiti di ricerca in questi campo negli anni a venire con particolare attenzione alle esigenze dei paesi in via di sviluppo e degli obiettivi di sviluppo sostenibile per l’economia mondiale.

Un magnifico incontro tra istituzioni specializzate (l’UNCTAD appunto), agenzie governative preposte tra le altre cose al marketing territoriale e accademia, qui fortemente rappresentata ed assoluta fonte di ispirazione per tutti i partecipanti alla conferenza.

La discussione partita apparentemente a ruota libera, presto si concentra sullo scottante tema del rapporto tra istituzioni (organizzazioni internazionali, governi ed enti locali) ed aziende multinazionali generatrici dei flussi di investimento internazionali.

La dicotomia che viene qui immediatamente affrontata e che divide le menti presenti è quella tra politica pubblica ed interesse privato, tra etica democratica e dei diritti umani e share holders value, dividendi delle TNC’s (Trans-national Corporations) autrici di forti investimenti nei Paesi in Via di Sviluppo.

La domanda che tutti si pongono è: dato per scontato che il libero mercato ed il crescente processo di internazionalizzazione delle economie in atto portano inevitabilmente a dei “market failures”, degli “errori di mercato” e quindi degli squilibri sociali, quali politiche pubbliche devono essere messe in atto per correggerli e per far si quindi che i flussi di investimento siano compatibili con le esigenze di sviluppo dei paesi poveri?

Cosa bisogna fare, per scendere nel concreto, per evitare che gli investimenti fatti nel Mozambico si concentrino nell’area metropolitana della Capitale Maputo dove per le multinazionali è più facile realizzare profitti immediati, ma che si dirigano anche nelle aree più periferiche e si traducano in infrastrutture, utilities e servizi pubblici utili alla maggioranza della popolazione che vive in condizioni di miseria?

E soprattutto sono i Governi nazionali gli interlocutori più affidabili per garantire il connubio sviluppo economico e diritti umani, crescita degli utili d’impresa e allargamento della democrazia?

Quale livello di Governance deve essere coinvolto, quello delle istituzioni internazionali, dei Governi nazionali o degli enti locali da cui spesso hanno origine gli incentivi per l’attrazione degli investimenti esteri sui territori? Di fronte a questi temi epocali che attengono al destino politico-economico del Pianeta, l’UNCTAD, già di per se dotata di uno staff internazionale di fini economisti, chiede aiuto con questo simposio al mondo dell’accademia, delle più prestigiose università internazionali, presenti per l’Italia l’Università di Torino, di Urbino e la Bocconi di Milano.

Di fatto l’organizzazione nr.1 al mondo chiede aiuto a squadre di giovani e brillanti ricercatori provenienti da tutto il mondo e lascia loro mano libera nella ricerca di soluzioni che forse un giorno arriveranno, attraverso i canali dell’ONU all’attenzione dei Governi e dei decision maker internazionali. Indiscusse protagoniste sono le università del mondo anglosassone, USA e UK ma anche e soprattutto del Pakistan, della Cina e dell’India, impressionante la presenza di ricercatori africani, i più motivati e protagonisti assoluti della conferenza.

Ci si chiama per nome, si accompagnano all’esposizione di non banali concetti di economia internazionali, simpatiche e informali battute che rendono il terreno fertile, il confronto immediato e produttivo, la ricerca di risposte sincera.

L’Europa c’è ma tace, l’Italia è quasi assente..del resto mentre osserviamo ammirati l’evolversi di questo appassionante confronto, il pensiero non può che andare al dibattito che ci tiene impegnati nel Bel Paese: le intercettazioni, la procura di Trani, le epurazioni televisive, le elezioni regionali, parteciperà il PDL alle elezioni di Roma? Chi vincerà l’isola dei famosi? Un ministro malmena un giornalista, Emilio Fede ha un malore, il Milan esprime un calcio aggressivo e si riavvicina all’Inter.

In Italia ci siamo accorti che il Mondo corre e non aspetta? Ci siamo accorti che fuori dai nostri confini e anche fuori dai confini della Vecchia Europa si stanno formando classi dirigenti destinate a mettere in discussione l’egemonia americana sul mondo nel giro di dieci anni? Che ci sono decine di piccoli paesi ancora poveri ma ricchi di voglia di competenze, di giovani brillanti che parlano 5 o 6 lingue, modesti ma preparatissimi che aspettano solo di ribaltare la gerarchia del potere economico e politico nel mondo? Si sono accorti le centinaia di Ingegneri, Geometri Dottori, Onorevoli, Cavalieri e Saltimbanco che nella provincia italiana  sfoggiano eleganti cravatte e supponenza da vendere che il mondo parla di strategie nazionali, si chiede come conciliare sviluppo economico e democrazia, rispetto dell’ambiente ed innovazione tecnologica? Lo sanno costoro che cosa pensa l’Italia del suo ruolo da qui a 10 anni? Su quali mercati esporteremo, dove investiremo, chi verrà (se verrà) ad investire tra le Alpi e la Sicilia? Pagheremo finalmente i nostri migliori ricercatori, faremo finalmente ponti d’oro a cinesi, indiani africani per venire a studiare da noi, per invadere le nostre Università e travolgerci con il loro entusiasmo? Pronto Italia c’è qualcuno? Il mondo là fuori progetta il futuro, investe e scommette su cambiamenti radicali, da noi tutto tace.. silenzio… inizia il varietà a reti unificate…abbiamo bisogno di distrarci, meglio non pensarci.

Ex Grande Potenza Industriale vendesi, in buono stato ma ferma da 15 anni.

Voto laziale / la rivincita del contado

polverini

di Pierluigi Sorti

Non nella mala sanità, non nella discarica di Malagrotta, non nella legalità, non nei livelli occupativi, non nell’ astensionismo ( qui assai più accentuato che altrove ) suggeriamo di cercare la differenza degli oltre settantamila voti in meno che separano Emma Bonino da Renata Polverini.  

E’ nell’ immagine con cui le due candidate si sono proposte e sono state proposte, all’ elettorato laziale, che possiamo spiegare l’ effetto opposto riscontrato nella città capoluogo dal resto delle quattro province.  

A Rieti, a Frosinone, a Viterbo e soprattutto a Latina è scattato un meccanismo in cui erano certo presenti i fattori regolativi di scelta preferenziale elencati più sopra: ma è lecito pensare che dopo la sciatta vicenda della presentazione delle liste, magari sotto traccia ( forse anche con meccanismo inconscio ) il mondo della provincia abbia voluto cogliere l’ occasione opportuna per differenziarsi, a rivalsa  della sua inferiorità, da Roma capoluogo.

A ciò hanno contribuito appunto le effigi che le due candidate hanno scelto per sè stesse.   

In apparenza indifferente alla percepibile e masochistica freddezza di non poche esponenti, non soltanto femminili, per la propria candidata, la Bonino sceglieva un profilo di quasi new entry ( “fidatevi di me “) sembrava chiedere, quasi in difensiva, di essere dimenticata come quasi quarantennale e positiva protagonista in molteplici luoghi politici e istituzionali, italiani ed europei.  

Di contro la figura di Renata Polverini, con la scioltezza casual del suo abbigliamento, interpretava, forse non volutamente ma efficacemente, il ruolo di chi, nella cinematografia western di tempi non lontani, osa chiedere, quasi solitaria, giustizia riparatrice delle prevaricazioni dei potenti della città.  

In un minisondaggio, effettuato in un campione non superiore alla trentina di persone, è in effetti risultato un corredo di elementi, a favore o sfavore dell’ una o dell’altra, ma comunque estraneo a differenziazioni politiche o programmatiche, e tutto concentrato invece su specificità caratteriali, oltre che ovviamente di generica appartenenza .  

In effetti la radicale Bonino, quasi fiera della sua autonomia e indifferente alla tepidezza della sua coalizione, insisteva con monotonia sul tema della legalità, si mostrava impermeabile ai contributi che inizialmente le provenivano da più parti, sostenuta infine da un partito, il suo, che di questo isolamento, con discutibile saggezza, ha sempre plasmato il suo modo d’ essere. 

La seconda, Renata Polverini, si batteva in ogni dove, percorrendo i più remoti angoli della Regione, e, disinteressata a ogni forma di orgoglio, oscurava le sue piccole trasgressioni fiscali e le dissimulazioni della sua consistenza sindacale, valorizzava la sua conterraneità laziale a fronte della rivale piemontese, partecipava con disinvoltura alla medievale e anacronistica cerimonia del giuramento a Piazza del Popolo e, sfruttando astutamente la sua posizione iniziale di orfana di partito, è riuscita a trasformare tale handicap in vittorioso investimento elettorale.

 

Il voto delle regionali e un Paese che cambia faccia di nuovo

 zaia

di Massimo Preziuso

Dopo aver seguito con interesse e stupore i risultati di queste elezioni regionali, mi viene spontaneo fare alcune considerazioni, forse per fissarle meglio nella mente.

 Il nostro Paese cambia faccia di nuovo.

 Dopo le timide prove di bi-polarismo del 2008, oggi si torna prepotentemente alla frammentazione vistosa di poteri, sparsi tra i territori e le numerose sigle politiche.

Con queste elezioni gli Italiani hanno dato un ulteriore segnale di “allontanamento” dalla linea politica dei grandi Partiti nazionali: lo si vede al Nord con la Lega con i successi dei due “giovani” Zaia e Cota, nel Lazio con la vittoria della Polverini (difficilmente classificabile all’interno del Centro Destra, così come lo sarebbe stato la Bonino nel Centro Sinistra), in Campania con Caldoro ed in Calabria con Scopelliti (prima di tutto due “giovani” leader emergenti), in Puglia (dove la leadership “personale” di Vendola batte il PDL) ed in Basilicata (dove una coalizione ampia di Centro Sinistra, formatasi attorno a De Filippo, schiaccia il Centro Destra).

 Forse anche per alcune scelte di “non rinnovamento” fatte a Sinistra, ma il risultato elettorale non è positivo per il Partito Democratico così come non lo è per il Popolo delle Libertà.

Il PD però continua a risultare forte in un’area geografica importante del Paese, quella centrale, con la vittoria in Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche (a cui si legano Liguria, Basilicata e Puglia), ed è attorno a quel nucleo forte che può e deve ripartire.

Il PDL, invece, sebbene sia andato un po’ meglio delle peggiori previsioni, risulta frantumato in tanti “micro poteri” locali.

L’UDC risulta evidentemente in una situazione di “caos interno” da cui oggi può uscire solo con scelte di avvicinamento sincero e netto verso il PD.

Il risultato è invece molto positivo per la Lega che “mangia” il Nord Italia, sfruttando la sterile dialettica sui “massimi sistemi” da anni in corso tra i due grandi Partiti, così come lo è per l’Italia dei Valori che cresce più o meno per le stesse ragioni.

In questo contesto, e soprattutto con la previdibile centralità dei temi “federalisti” che la Lega Nord imporrà a breve nell’agenda politica nazionale, a me sembra arrivata l’ora che PD e PDL ripensino radicalmente al loro modo di rapportarsi con i territori, che si deve oggi necessariamente sviluppare attorno a temi di politica “concreti” sentiti dai cittadini, quelli che interessano lo sviluppo delle aree in cui vivono, allontanandosi, almeno un po’, dalla discussione sulle grandi questioni.

A cominciare dalla necessaria definizione di un nuovo modello di sviluppo economico e culturale per il Paese, attorno a cui creare soprattutto condizioni di prosperità ed occasioni di crescita per le nuove generazioni, che necessitano urgentemente di nuovi entusiasmi.

Un compito potenzialmente più facile per il Partito Democratico, se agirà rapidamente.

CAMBIAMO LA CAMPANIA – CON VINCENZO DE LUCA

De Luca

CAMBIAMO LA CAMPANIA – CON VINCENZO DE LUCA

La Regione Campania, come tutto il Mezzogiorno, è oggi ad un bivio unico ed irripetibile.

Le elezioni del 28 e 29 Marzo rappresentano una occasione da non perdere per dar forma concretamente ad una Regione che trae forza dalle sue ineguagliabili potenzialità, fatte di storia, cultura, tradizioni, saperi e le trasforma in sviluppo sostenibile, economia, politiche attive per il lavoro e innovazione.

E’importante che Napoli, la Campania e il Mezzogiorno non sfumino questa occasione di osteggiare e rovesciare la politica avversa che il governo centrale sta perseguendo.

E’anche vero che ci sono stati molti limiti nella classe dirigente meridionale e campana per i quali non basta l’autocritica ma serve un vero e proprio rinnovamento a partire dalle istituzioni e dalle classi dirigenti stesse. Rinnovamento che è anche questione di Genere e Generazioni, come da tempo sosteniamo.

La Campania e il Sud stanno pagando a caro prezzo, più delle altre zone d’Italia, la crisi economica mondiale e l’allontanamento delle loro esigenze dall’agenda politica nazionale non ha aiutato certamente in questo periodo così difficile.

A livello nazionale, dopo due anni di assenza di politiche e di riforme, il Governo Berlusconi sta crollando sui propri errori.

A livello regionale, in Campania oramai la differenza tra i candidati è ben evidente a tutti: il carismatico De Luca è uomo che ha sempre e sapientemente lavorato sul territorio, ed esce da una fortissima e positiva esperienza di trasformazione della città di Salerno, Caldoro è un politico di sub-governo nazionale lanciato in un territorio che poco conosce.

Una occasione per cambiare la Campania come questa è quindi unica e irripetibile, anche perché il Presidente De Luca si farà portatore di tutte le nuove istanze di cambiamento che la Campania deve affrontare e vincere, ed in primis:

–          Il tema dell’efficienza della amministrazione pubblica (circa 22.000 addetti), a partire dalla Sanità, come volano per lo sviluppo di capitale sociale;

–          Il tema Energetico – Ambientale (in una Regione naturalmente adatta alla green economy)  sottostante a tutte le politiche di cambiamento settoriale;

–          L’Innovazione quale risultato della messa in moto, anche grazie all’ausilio delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, di processi virtuosi tra le enormi ricchezze di sapere sparse nel territorio (in primis i centri universitari e di ricerca di eccellenza con i loro circa 25.000 addetti e le piccole e grandi realtà imprenditoriali);

–          L’industria del Turismo e dell’alimentare sostenibile quale motore di attrazione di capitali e di saperi;

–          Il Bacino Euro-Mediterraneo quale riferimento di crescita per le future generazioni;

–          Il contrasto all’illegalità e al sommerso per migliorare la qualità della vita soprattutto delle giovani generazioni;

–          Una dura lotta alla camorra, oggi più che mai fattore limitante per lo sviluppo culturale ed economico del territorio

–          I fondi strutturali 2007 – 2013, i programmi dell’Unione per il Mediterraneo, i programmi a sportello Bruxelles e il loro corretto impiego e utilizzo; 

–          I programmi infrastrutturali, la cooperazione interregionale nonché  la creazione di “commissioni ad hoc” composte da rappresentanti delle Amministrazioni e del sistema imprenditoriale, con lo scopo di analizzare i problemi relativi all’attuazione degli interventi e proporre soluzioni operative in grado di accelerare le realizzazioni.

Tutto questo per rilanciare l’entusiasmo e l’orgoglio in una Regione in cui le persone per troppo tempo sono state costrette a camminare a testa bassa

E’ per questo che gli Innovatori Europei sostengono Vincenzo De Luca alla Presidenza della Regione ed Igina Di Napoli ed Osvaldo Cammarota al Consiglio Regionale della Campania.

Cambiamo la Campania il 28  e 29 Marzo 2010. Con loro si può!

 Per gli Innovatori Europei

Massimo Preziuso – Coordinatore IE

Luisa Pezone – Coordinatore IE Napoli

www.innovatorieuropei.com

Innovatori Europei interviene a “Cambiare la politica, incontrare la cultura”, Napoli, 21 Marzo

Di Napoli

Domenica 21 Marzo alle ore 10:30  al Teatro Nuovo, in Via Montecalvario 16

Incontro – dibattito su “Cambiare la politica, incontrare la cultura”

con Vincenzo De Luca e Igina di Napoli e con: 

Giulio Baffi, Andrea Geremicca, Massimo Preziuso, Osvaldo Cammarota, Renato Nicolini, Umberto Ranieri, Pappi Corsicato, Graziella Pagano, Mario Raffa

Coordina:
Alfonso Ruffo, direttore de “IL DENARO”

Intervengono, tra gli altri:
Laura Angiulli
Gennaro Cimmino
Mario Crasto De Stefano
Angelo Curti
Marcello Di Vincenzo
Mara Fusco
Mario Persico
Salvatore Pica
Gianni Pinto
Antonello Pischedda
Eleonora Puntillo
Patrizio Rispo
Marco Rossi
Lello Serao

UNO SGUARDO DIVERSO SULLA CULTURA E LA CAMPANIA

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