Innovatori Europei

Significativamente Oltre

Il lobbismo è pluralismo

pluralismo di Stefania Guttà*

“La società generale si suddivide a sua volta in un insieme di società particolari a cui gli individui partecipano sulla base di un interesse che li accomuna” J.J. Rousseau

Che cos’è il lobbying, dove nasce e a cosa serve?

Cercheremo di rispondere brevemente a questi quesiti.

Etimologicamente il termine lobby deriva dal latino medioevale (da “lobia” = loggia, portico, chiostro).  Solo successivamente il termine lobby venne a indicare il corridoio delle Istituzioni che indicava gli accordi opachi che venivano suggellati nei meandri dei palazzi tra i rappresentanti dei gruppi di pressione e i decisori.

 Storicamente invece la prima società di lobbying nasce a Washington nel 1902. William Woolf Smith, avvocato, viene incaricato dai ricchi proprietari delle ferrovie (Rockefeller, Vanderbilt, Morgan) di persuadere i politici al fine di assicurare i finanziamenti indipendentemente da quello che il giornalismo investigativo (i cosiddetti Muckraker) scriveva riguardo inchieste e indagini.

Il fenomeno del lobbismo, è stato per lungo tempo – e in parte lo è ancora – associato alla corruzione. La causa principale di questa “cattiva reputazione” è da rinvenire in parte nella mancata regolamentazione, oltre che nella pratica insostenibile di operatori e Istituzioni che hanno contribuito a genere nella percezione collettiva l’idea di una attività poco trasparente da parte dei cosiddetti poteri forti (usando quindi la parola lobby in senso spregiativo).

Ciò che qui si intende sottolineare, viceversa, è l’importanza che l’attività di lobbying ha nell’attuare il principio di democrazia partecipativa; infatti garantire e rappresentare interessi legittimi in maniera chiara, trasparente e professionale produce un contributo significativo all’efficacia dei processi decisionali pubblici, permettendo l’espressione e il contemperamento dei diversi interessi “particolari”: il lobbismo è una condizione fisiologica per il funzionamento della democrazia e non una condizione patologica. .

Il lobbying si propone infatti di influenzare il processo decisionale pubblico tramite un flusso costante di contenuti verso i decision makers  per mezzo del quale i rappresentanti dei gruppi di interesse tematizzano una questione di loro interesse e argomentano le proprie posizioni e i propri obiettivi. I lobbisti– come espressione moderna della complessità della struttura sociale – possono apportare dunque un contributo alla qualità della politica, diffondendo informazioni a tutela di specifici interessi che forse le Istituzioni non conoscono bene e contribuendo a presentare un quadro completo della problematica che sta dietro una certa decisione.

Nelle moderne democrazie la funzione svolta dalle lobby è quella di essere i vasi comunicanti fra le Istituzioni (a tutela dell’interesse pubblico) e gli interessi particolari, espressi da singole parti (organizzazioni o gruppi).

Le lobby quindi agiscono a sostegno di quegli interessi “privati e particolari” che lo Stato non conosce bene e che potrebbe sacrificare a vantaggio di altri interessi e/o obiettivi, dunque sono funzionali al sistema pluralistico perché attivano meccanismi di partecipazione, di associazione e di partecipazione all’interno della società civile e tra essa e le istituzioni.

La rappresentazione degli interessi e l’influenza sul processo decisionale pubblico si inseriscono in quel complesso equilibrio fatto di pesi e contrappesi : ogni decisione pubblica deve tenere conto dell’interesse generale.  L’azione della lobby sarà tesa ad equilibrare la competizione tra interessi, argomentando e convincendo l’interlocutore che gli interessi particolari che rappresenta vanno nella direzione dell’interesse generale.

Il decisore, per contro, ha il compito di analizzare le diverse soluzioni possibili, tenendo conto di tutte le loro implicazioni per scegliere quella che più delle altre tutela l’interesse generale.

È importante quindi che le organizzazioni, gli operatori di relazioni pubbliche (e perché no, anche semplici cittadini) diventino consapevoli della necessità di monitorare il processo decisionale pubblico ed eventualmente di agire per far valere il proprio interesse.

* Stefania, laureata in comunicazione politica presso LUMSA e specializzata con un master in Relazioni istituzionali presso RUNNING, fa parte del Lobbying Lab di Innovatori Europei

H-Farm: l’Italia che si muove

h-farm1di Massimo Micucci (pubblicato su Anteprima)

Lo dico di ritorno da un viaggio in quel Nord Est che conosciamo solo attraverso definizioni di comodo, per la politica e per i giornali. Ho seguito un buon consiglio: sono sbarcato a Mestre con un Freccia Argento in ritardo. Poi, in cinque minuti, ho conosciuto una realtà che è in anticipo. Si chiama H-farm esiste dal 2005 ed è un incubatore di imprese innovative internet oriented, un sistema di seed capital e venture capital (parole e realtà che maneggiamo a fatica) che ormai esiste da qualche anno e non al sole della California, ma nelle nebbie della Marca Trevigiana.

Nel Board of Directors, Riccardo Doandon Ceo, Maurizio Rossi, e Thomas Panto che lo definiscono un “ecosistema” per start up. Un ambiente fatto di servizi, formazione ed esperienze che accompagna giovani idee a diventare aziende. In una ex-fattoria vicino a Roncade a Ca’Tron, il logo riproduce un trattore, ma i nomi sono tutti al futuro, Logopro, Thounds, H-art, H-umus, Zooppa. E che sono? Realtà incubate poi divenute autonome o acquisite da gruppi più grandi. Che fanno? Offrono servizi innovativi che portano internet a funzionare nella realtà off-line, dentro e per le aziende.

Zooppa aggrega le competenze di migliaia di creativi connessi, attraverso contest competitivi. Fate conto che una azienda voglia un’idea, un video per una campagna, una campagna on line: ne avrà 50 o 100, più migliaia di idee grafiche per un costo pari ad un decimo di quello di una grande agenzia. Se invece vi serve solo il logo per la carta intestata o per un biglietto de visita avrete due o quattro test, da due grafici diversi a partire da 59 euro. Per progetti più complessi come apps per smartphone, per sistemi editoriali o televisivi “aumentati” cioè più ricchi e partecipati… ci sono altre start up: aziende pronte a decollare sole, o gia acquisite da gruppi più forti, che comunque non hanno voluto lasciare l’“ecositema” in cui siscambiano idee: qui i brain storming interaziendali e aperti si chiamano “Pizza storm”.

C’è chi già si occupa di integrare tutto l’aspetto digitale di progetti di comunicazione, ma anche di marketing e di produzione: per Diesel, per Poste Mobile, per la Regione Veneto, per la Regione Toscana sul turismo, con una intera redazione digitale solo sui Social media.

E c’è chi invece cerca una frontiera nuova come Thounds, un sistema di collaboratività per fare musica insieme a distanza. A partire anche da una schitarrata, o da un fischietto. Un sistema per creare pezzi “crowdsourced” che ha un’idea chiara delle nuove fruizioni di contenuti: ascolteremo sempre meno musica fatta da altri se non in esperienze molto dirette (concerti, eventi, house concerts) e faremo noi la musica che vogliamo ascoltare. Mi siedo davanti al Mac, suono un motivetto che si registra su un’interfaccia che somiglia a Twitter (importanza del design del software tutto web based), e consento ad altri conosciuti e/o sconosciuti di intervenire sulla mia traccia. Nasce un pezzo completo. Anche qui: la band indie che vuol fare un nuovo singolo, mette una traccia on line aperta alla collaborazione e la migliore performance diventa il B side del pezzo. Si promuovono creando insieme alla rete. Marketing, creatività, user generated content, snack culture etc… tutto insieme.

Il sistema è stato ideato e alimentato dai partners e da altri investori che selezionano le idee, finanziando, sempre in una gara tra le proposte, due o tre prototipi. Poi tra i selezionati, il migliore può aspirare a un impegno in termini di seed o early capital… e da qui è vera start up, appoggiata sul piano logistico, contabile e dei servizi.

Insomma la logica è quella della competizione delle idee e della creazione dal basso di una cultura d’impresa. Secondo Maurizio, che mi ha accompagnato, è un trend obbligatorio, lo vogliamo riconoscere o no. Eppure l’ecosistema nazionale, pubblico e privato, non parla questa lingua. Non la conosce (e forse è meglio perché l’affosserebbe) e non può farlo. Deve invece recitare sul proscenio descritto dai vari CENSIS: la sfiducia, la corruzione, l’immobilità e la paura.

Ma così non ci avvantaggiamo di questa intelligenza diffusa e infatti, spesso gli investitori sono extraeuropei. Per fortuna se ne avvantaggiano sempre più clienti e questa è la vera ricchezza e speranza. Qui ad H-Farm ho sentito una lingua nuova in uno scenario diverso socialmente, geograficamente e generazionalmente. Donadon e i suoi partners non sono innovativi solo perchè sui loro bigletti da visita ci sono anche skype e la pagina delicious, ma perchè non si rassegnano all’esistente.

Si avverte che nessuno aiuto arriverà dalle istituzioni tradizionali, pubbliche e private. Anzi, forse riusciranno a darne uno loro. Il mio interlocutore mi dice: come posso augurarmi che mio figlio lavori in Fiat ? Non ci sarà quel posto. Chiuso il dibattito che appassiona tutti. Geograficamente: un giovane che entra in questo ecosistema percepisce il mercato dei prodotti, dei servizi, della cultura come mondiale: il sito è in inglese, il mio competitor è cinese, il mio mercato è fuori di qui.

Ma c’è un altro aspetto che integra diversi fattori: la generazione nata dopo Google ragiona in un modo che darà la risposta ai problemi su cui ci arrovelliamo in gineprai regolatori, e pure a problemi che oggi non conosciamo (il mercato della musica dopo itunes). Problemi cui non c’è risposta, come la crisi del mercato dell’informazione. Chi è nativo digitale va per tentativi e forse riuscirà a prendere quest’onda, noi, immigrati digitali di quaranta o cinquant’anni, no.

Noi possiamo favorire la nascita di sistemi e occasioni che consentano loro di rispondere. Perchè questi sistemi funzionino deve esserci una collaboratività e una competitività alta tra idee e progetti e il risultato del progetto alla fine dipende dalle persone che sperimentano. E’ una centralità nuova delle persone e delle loro collaborazioni creative, del lavoro e del sapere, che dovrebbe essere integrata nei sistemi formativi in modo più radicale. “Rinunciando a qualcosa dei percorsi didattici tradizionali e introducendo questa creatività industriale dentro l’Università”…

Un altro mondo, una società che si muove, una Italia fiduciosa che, magari, ci riprenderà per i capelli? Intanto crescono i laboratori dove si sperimenta.

Lacrime e sangue

Fiatdi Fabrizio Macrì

„I ricatti ce li pone la globalizzazione, non Marchionne che ci trasferisce il Mondo com‘è, brutture comprese…pensare di continuare così, in un mondo cambiato, è privo di logica. Il gioco prima o poi finisce”.

Questi i due passaggi dell’intervista di Chiamparino che più mi hanno convinto e con il quale condivido non solo la posizione a favore del SI nel referendum di Mirafiori sostanzialmente per le stesse ragioni da lui indicate ma anche la stima di Marchionne e soprattutto il suo modo schietto di “trasferire” il crudo mondo della competizione internazionale nell’asfittica realtà italiana.

Che l’accordo vada migliorato non ci sono dubbi, ne’ ci sono però dubbi che PD e sindacati possano sperare di farlo solo accettando la sfida posta da Marchionne che si riduce ad un nodo che ci piaccia o no dobbiamo sciogliere: in Italia la produttività per unità di lavoro nel settore auto è 1/6 rispetto a Brasile e Polonia. Con questo problema dobbiamo confrontarci ed affannarci a fare proposte alternative se la soluzione Marchionne non ci piace.

Questo lo dobbiamo fare non solo per trattenere FIAT (unica multinazionale che intende investire in Italia al momento) ma anche tutte le altre attività produttive che il nostro paese lo stanno lasciando, schiacciate dalla scarsissima competitività del sistema.

Ruolo del PD quindi è non solo dire di SI a Marchionne in modo netto e chiaro perchè è ovvio e lampante che non possiamo permetterci di perdere un’azienda come FIAT ma anche indicare tutte le altre misure che la politica dovrebbe prendere per accrescere la competitività del sistema e la sua capacità di esportare ed attrarre investimenti a cominciare dalle misure che meno piacciono all’elettorato del Governo, come la riforma degli ordini professionali e l’introduzione di massicce dosi di liberalizzazioni ma anche la riforma della Pubblica Amministrazione ed una pesantissima riforma fiscale: LACRIME E SANGUE insomma, non altro. La realtà impone questo

Nota finale:

ciò che mi lascia allibito è che di fronte ad un Governo immobile e ad una lega nord che a livello locale comanda nelle regioni più forti del Paese da 20 anni ed ha il Governo in mano da 8 con due dicasteri chiave come Interni ed Economia , non si impieghino energie per mettere davanti alle proprie enormi contraddizioni e responsabilità la maggioranza al potere che di tanto vuoto e sterile nordismo ha riempito le nostre risorgimentali orecchie, ma ci si diverta a mettere il dito nelle pur esecrabili divisioni interne del Partito Democratico.

Alemanno, discepolo distratto di Luca Paciolo

alemanno di Pierluigi Sorti

Il caso ha voluto che la notizia dell’ azzeramento della giunta capitolina si diffondesse sui giornali l’ 11 gennaio, mentre , nella Sala del Mappamondo di Montecitorio, si riunissero decine di esperti della contabilità pubblica, provenienti da ogni parte d’ Europa, per discutere su un problema, in apparenza distante, ma che in realtà, sta proprio alla radice, forse inconsapevole, della decisione del sindaco di Roma di assumere l’ inconsueto provvedimento.

Quel convegno a Montecitorio, dedicato a fare il punto sulla definitiva trasformazione della amministrazione pubblica di vari Stati europei, precisamente dal sistema di “contabilità di cassa” a “contabilità di competenza”, secondo precise indicazioni effettuate fin dal 2005 dall’ Unione europea, rende in retrospettiva incomprensibile il comportamento di Alemanno dello scorso luglio.

Avvenne infatti in quel mese, con una scarsa rilevanza giornalistica ( e nell’ afasia delle forze politiche comunali, di entrambi gli schieramenti ), che pure il sindaco Alemanno, da due anni in carica come commissario del Comune, non abbia saputo trarre le conseguenze di un rapporto sul consolidato contabile dell’ ultimo settennio, firmato dalla “sezione Lazio” della Corte dei Conti.

Eppure quel rapporto, suddiviso in capitoli, per un totale di oltre trecento pagine, non ometteva di rendere noti i connotati non certo lusinghieri dell’ amministrazione comunale del periodo menzionato, riepilogabili nella cifra del debito complessivo ( circa dieci miliardi, successivamente accresciuti a 12, 5 ), nel periodo di ammortamento previsto del debito (fino al 2050), nella difficile individuazione dei percorsi delle voci di spesa in ordine alla loro fonte e alla loro destinazione.

In altre parole, un rapporto che implicitamente sottolineava il tema della insostenibilità, nei criteri amministrativi che sovrintendono alle moderne amministrazioni pubbliche, di sistemi contabili basati sulla cassa, cioè sul flusso finanziario, e non sulla competenza.

Era logico attendersi, nella circostanza, che, nella consapevolezza delle doppie sue responsabilità, di sindaco e di commissario, Alemanno, con saggezza,  ponesse subito mano a fare ordine in quei conti, a predisporre le dovute, possibili e assai complesse misure di difesa amministrativa e soprattutto a rendere edotte giunta, consiglio comunale e opinione pubblica,  dello stato di emergenza dell’amministrazione comunale.

E’ accaduto invece che, almeno nella immagine di queste ore, la crisi della giunta sia stata riconducibile alle non commendevoli politiche clientelari, clamorosamente emerse per le illegittime assunzioni operate da alcuni assessorati.

Al di là della delicatissima crisi della giunta capitolina, il problema radicale del Comune di Roma, risiede tutto intero, almeno nei suoi aspetti tecnici, nella insensibilità di troppi amministratori,  eredi distratti di una tradizione culturale del Rinascimento italiano, inaugurata cinque secoli or sono dal frate francescano Luca Paciolo , grande matematico e geniale inventore della partita doppia in contabilità.

L’azione esterna dell’Unione Europea dopo Lisbona

unione_europeaLa nuova edizione di questo fortunato volume, che esce a tre anni di distanza dalla precedente, si concentra sulle trasformazioni introdotte dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel dicembre del 2009, sul profilo complessivo dell’azione esterna dell’Unione Europea.

Lisbona, infatti, presenta alcuni dei suoi più importanti elementi d’innovazione istituzionale proprio nel vasto ed articolato campo delle relazioni esterne dell’Unione: dall’istituzione della nuova figura dell’Alto Rappresentante per gli Affari esteri e la Sicurezza Comune/Vice Presidente della Commissione Europea al coordinamento ad esso affidato dei vari Commissari legati alla proiezione esterna dell’UE; dalla creazione del Servizio europeo per l’azione esterna, che metterà presto in campo una nuova generazione di “diplomatici europei”, alla migliore definizione delle cooperazioni rafforzate (ora cooperazione permanente strutturata in materia di difesa); dal significativo cambio di nome della Politica europea di sicurezza e difesa (PESD) in Politica comune della sicurezza e difesa (PCSD), all’ancora più accentuato coinvolgimento del Parlamento europeo nel complesso della politica estera dell’Unione. Il libro presenta le novità intervenute con il Trattato di Lisbona sia sotto il profilo giuridico che istituzionale, ma offre anche un’analisi convincente delle potenzialità e dei limiti dell’aspirazione dell’UE ad agire come attore globale, così come un quadro esauriente degli scenari geopolitici  che attendono alla prova la politica estera europea. Di fronte ad un processo di globalizzazione sempre più marcato e all’emergere di nuovi protagonisti mondiali, l’Europa non può infatti mancare di far sentire la sua voce negli scacchieri decisivi dei nuovi equilibri mondiali: l’est Europeo, la Russia, il Mediterraneo, il Golfo Persico, la Cina.

Il volume, che si avvale della prefazione di Luigi Ferrari Bravo e della postfazione di Gianni Pittella, primo Vice Presidente del Parlamento Europeo, si articola in quattro contributi che, nel loro insieme, offrono strumenti di analisi e spunti di riflessione indispensabili per comprendere il ruolo dell’Unione Europea nei nuovi assetti globali. Il saggio di apertura, di Cosimo Risi, affronta il tema cruciale dei “confini dell’Europa”, letto alla luce delle vicende che hanno portato al quinto processo di allargamento (2004-2007), delle prospettive del sesto (Turchia, Croazia, Balcani occidentali, Islanda), così come delle politiche UE verso le aree limitrofe: Politica Europea di Vicinato, Partenariato Orientale, Processo di Barcellona – Unione per il Mediterraneo. La grande Europa, secondo il curatore del volume, dovrà superare la consueta dicotomia “allargamento – approfondimento” e non potrà non assumersi “la responsabilità dei problemi del mondo. E questo non per ambizione di potenza, ma perché la comunità internazionale si aspetta che intervenga in funzione equilibratrice rispetto ai vecchi e nuovi attori della scena mondiale”. Il secondo studio, di Alfredo Rizzo, esamina in modo ampio e circostanziato gli aspetti essenziali delle riforme istituzionali e giuridiche che, con il Trattato di Lisbona, incideranno in particolare sul settore delle competenze esterne dell’Unione. L’analisi è efficacemente svolta area per area, con un’immediata comparazione tra l’attribuzione di competenze ricavabile dal sistema pre – e post – Lisbona. I rapporti tra l’UE e le organizzazioni che sorgono attorno ad essa sono al centro del contributo di Piero Pennetta. Lo studio è ampio ed articolato, ed abbraccia le relazioni dell’Unione con le organizzazioni regionali dell’ex URSS, del mondo arabo-islamico, dell’Africa subsahariana, dell’America Latina e caraibica e dell’area del Pacifico. Si tratta di rapporti, come messo in evidenza dall’autore, che si sviluppano in almeno tre direzioni complementari, di carattere economico-commerciale, di assistenza allo sviluppo e di impianto più propriamente politico e di sicurezza. Infine, il tema quanto mai attuale delle relazioni tra l’UE la Cina, che sempre più incombe sulla scena globale, occupa lo scritto di chiusura del volume, di Luca Trifone. Le relazioni tra i due attori, sottolinea l’Autore, possono essere definite quantomeno ambivalenti: da un lato l’ottimo interscambio economico, con l’UE che rappresenta il primo partner commerciale della Cina e la Repubblica Popolare al secondo posto tra i partner dell’Unione; dall’altro i rapporti politici che, pur vicini su alcune questione di fondo e su temi più immediati, risentono in maniera decisiva di una diversità di valori di fondo che spesso spinge le due parti su sponde lontane. Se l’ingranaggio sino-europeo appare pertanto ancora poco oliato, tuttavia il rapporto di sempre più evidente reciproca attrazione tra Pechino e Washington e le previsione di G2 ritenuto l’assetto di potere più probabile dei prossimi anni non può non chiamare in causa l’Unione Europea, la cui azione in questo contesto rischia di rimanere fortemente limitata e circoscritta.

A più di cinquanta anni dall’avvio del processo di integrazione in un’Europa spazzata dai venti della guerra fredda,  a venti dal crollo del sistema bipolare e dalle speranze di una centralità europea nel nuovo ordine internazionale, con la delusione ancora fresca per l’accantonamento del progetto di Costituzione europea, l’Europa è purtroppo ancora “un cantiere in rapido movimento, le cui implicazioni e contraddizioni non sono ancora del tutto emerse”. Nonostante la politica estera europea rimanga ancora prevalentemente ancorata agli orientamenti degli Stati membri e condizionata dalla regola dell’unanimità, le innovazioni introdotte dal Trattato di Lisbona aspirano  ad inserirla “in un circuito più virtuoso volto a garantire più coerenza, più efficacia, più trasparenza”. Si tratta di sviluppi fondamentali, che non garantiscono di per sé il raggiungimento degli obiettivi di pace, sicurezza, rispetto dei diritti umani e democrazia che sono alla base del profilo internazionale dell’UE. Ma certo ne rappresentano la condizione essenziale.

Luisa Pezone

Coordinatrice Innovatori Europei Napoli – Fondazione Mezzogiorno Europa

tratto da: Cosimo Risi (a cura di) Napoli, Editoriale Scientifica, 2010, pp. 264 III edizione

La positiva fuga dei cervelli, Controesodo e la necessità di attrarre talenti stranieri

Italy's brain drain

di Massimo Preziuso

In questa soleggiata domenica mattina – dopo la lettura su The Economist dell’articolo dal titolo Italy’s brain drain. No Italian jobs. Why Italian graduates cannot wait to emigrate – mi viene voglia di scrivere alcune cose su un tema che è da tempo centrale per l’Italia e di cui nelle ultime settimane si parla (anche grazie alla approvazione bi-partisan della iniziativa “Controesodo“), che io chiamo “della fuga e dell’attrazione dei cervelli, italiani e stranieri”.

Parto subito dalla fine. Io credo che la legge approvata – conosciuta come Controesodo – e che in sintesi darà la possibilità a cittadini italiani (o stranieri che abbiamo risieduto in Italia per almeno due anni) che lavorano all’estero da alcuni anni di rientrare ottenendo una “fiscalità agevolata”, è di sicuro un passo avanti che va apprezzato, ma è una occasione sprecata per fare quello che si doveva fare, ovvero “attrarre” talenti stranieri.

Infatti non ho davvero capito perchè non si è voluto cogliere questa opportunità unica di collaborazione tra i due schieramenti su un tema così centrale per il futuro del paese per portare a casa una legge completa, che ci potesse permettere finalmente di recuperare il vero gap che, come Paese, abbiamo rispetto a tutti i Paesi OCSE: quello del flusso netto negativo di laureati (si veda la figura sotto).

Flusso netto di laureati

E’ lì infatti il “caso italiano” e non nella – a mio avviso positiva – fuga di giovani (e meno giovani) talenti (e non talenti) verso l’estero. Quest’ultima infatti può essere e deve essere una grande opportunità.

Il nostro Paese è affondato e continua ad affondare in termini di competitività e questo lo si può spiegare anche con questa semplice immagine: mentre gli importanti cantieri dell’Aquila in ricostruzione sono pieni di lavoratori stranieri e nessun italiano (in un Paese con un tasso di disoccupazione giovanile di quasi il 30%!), nelle nostre università e nelle nostre aziende i laureati extra-italiani (europei e non) sono assenti.

Ecco perchè sarebbe stato necessario estendere l’incentivazione fiscale di “Controesodo” ai laureati “skillati” (con certi criteri da stabilire – ad esempio definendo una quota massima per singolo continente) extra – italiani che decidessero di venire a lavorare in Italia, accettando un lavoro, e risiedervi per almeno 3-5 anni.

Sono convinto (ma immagino non solo io) che l’attrazione in Italia anche di alcune centinaia di laureati provenienti da Cina, India, Brasile, Sud Africa, Israele, etc, apporterebbe un enorme “effetto positivo” al nostro Paese e che questo sarebbe anche molto maggiore dell’attrazione dello stesso numero di laureati italiani che vivono bene e fanno bene nelle loro professioni in Stati Uniti, Inghilterra, Germania o Brasile (sebbene chiaramente le due “attrazioni” non siano in antagonismo tra loro).

Questi ultimi infatti forse (e sperabilmente) torneranno un domani, non solo perchè attratti da un beneficio fiscale, perchè avranno voglia di accettare nuove sfide, per le quali avranno valutato un “costo / beneficio”  positivo, nel loro Paese di origine. Ed allora porteranno in patria un enorme capitale di esperienza e di conoscenza che beneficierà tutti noi.

Ma intanto, attraendo in Italia laureati stranieri, avremmo potuto (e spero potremo) iniziare a creare quei “ponti di conoscenza e di cultura” con gli altri Paesi europei e soprattutto con i Paesi emergenti (come Cina, Brasile, India), come da decenni paesi che sono nostri pari (come la Germania, l’Inghilterra, la Francia, gli Stati Uniti) fanno.

Concludo con l’auspico che il 2011 veda la nostra politica continuare nella direzione tracciata da Controesodo, ed apportarne in qualche modo questa aggiunta, per non perdere questa enorme ed unica opportunità di sviluppo.

N.B. L’immagine e la tabella utilizzati sono tratti dall’articolo di The Economist

La metamorfosi di una novantenne e un capitano di ventura

fiatdi Pierluigi Sorti

Una voce del listino che appariva in borsa dal 1920  ha gemmato, dopo 90 anni, due nuovi e distinti titoli, mentre la Fiat, come voce unitaria, alla prima seduta del 2011, ha cessato di apparire.

Assisteva fisicamente all’ evento il regista di tale opera di estetico rifacimento che, con presumibile intimo compiacimento, non poteva che interpretare come un atto di fede alla sua persona il rialzo immediato dei due titoli neonati : “Fiat auto” e “ Fiat industrial”.    

Da pochi giorni salutato, anche internazionalmente,  uomo dell’ anno, questa è stata l’ ultima mossa di Sergio Marchionne,  nuovo grande demiurgo del mondo imprenditoriale italiano e internazionale.

Egli incarna infatti, nel contempo, l’ imprenditore non timoroso di provocare il risveglio della lungamente  sopita conflittualità aziendale, ma, insieme, la figura di manager, abilissimo nel muoversi a livello globale  fino a fruire delle provvidenze pubbliche a favore della Chrysler, deliberate dal principale stato capitalista del mondo.

L’ immagine stilizzata di John Elkann, il giovane presidente del gruppo Fiat, paragonata al look così inconsueto del suo amministratore delegato, ci riporta al ricordo dei principi rinascimentali italiani che, ormai deprivati di ogni combattività, per tutelare la propria indipendenza, ricorrevano ai servizi di truppe mercenarie, in ciò ponendo le basi irreversibili del loro declino.

La singolarità contrapposta della capacità di movimento di Marchionne, manager di non decifrabile imprinting culturale, possessore di tre passaporti, spie significative della propria indifferenza  patriottica e familiare, è oltremodo istruttiva.

Giocatore spregiudicato, in Italia, nei confronti dei sindacati, Marchionne  ne accetta invece la primazia societaria nella Chrysler americana, dove essi , attraverso le loro fondazioni, detengono la maggioranza del pacchetto azionario, debitamente provvisto di adeguati finanziamenti da parte del governo Usa.

Così, abilmente inserendosi nella scenografia sindacale italiana  – quella padronale compresa – il manager italo – canadese – svizzero ha, dialetticamente, spazi quasi illimitati di manovra, agevolato dal generale disorientamento politico italiano che vede governo e opposizione incapaci di una visione di base e pertanto costretti a stare al suo gioco.

Gli azionisti Fiat, ancor meno pensosi delle sorti patrie, in fondo si assicurano qualche lustro, in più, di salvaguardia dei propri patrimoni e, in meno, di fastidi cui non sono, per scarsa combattività generazionale, capaci di fronteggiare mentre i capitani di ventura, quale appunto Marchionne, non investono altro che il loro impegno, con altezze vertiginose di guadagni diretti e indiretti e  con il  piacere di prestigiosissimi  riconoscimenti professionali, nazionali e internazionali.     

Mentre i sindacati e le forze politiche di opposizione nostrane sembrano incapaci di concepire  almeno una simbolica contromossa: perché non chiedere a Marchionne, proprio ai fini di una miglior conoscenza dei problemi aziendali, e quindi a contribuire alla loro soluzione , quel diritto democratico alla cogestione che la Costituzione prevede all’ art. 46 ?

Sono le news, bellezza! (il libro di Michele Mezza)

                                                                                                                                                                                                                                                                     news-bellezzaL’Innovatore Europeo Michele Mezza pubblica “SONO LE NEWS BELLEZZA! Vincitori e vinti nella guerra della velocità digitale” (Interventi Donzelli).
 

Ecco una sintetica presentazione di un libro da leggere:

 

“Nell’anno di Mc Lhuan- il 2011 è il centenario della nascita-un libro per ragionare sul cambio di paradigma culturale indotto dalla rete, e anticipato proprio dal grande mass mediologo di Toronto.

 

Senza guardare in improbabili palle di vetro per  vaticinare inutili futuri, insieme a Derrik De Kerckhove che firma la prefazione, ed a Pierluigi Celli, che  propone la post fazione, tento di dare un senso ad una trasformazione che non ha nulla di deterministica tecnicalità, ma sembra piuttosto un grande ritorno, una conferma della supremazia del primato  dell’uomo, di ogni uomo.

 

 Proprio il formicolare di infiniti nani che si  sostituiscono ai pochi aristocratici giganti, che ci avevano fatto credere di  aiutarci a vedere meglio, ci rassicura sulla dimensione sociale della rete. Non siamo alla vigilia di un futuro cibernetico e  snaturante, quanto di un espansione di un moderno umanesimo digitale, che riemerge dopo la meccanicistica parentesi fordista.

 

L’informazione è la lente d’ingrandimento che ci fa meglio cogliere questo processo: si estende il consumo di notizie, si allarga la gamma dei produttori di news, si restringe lo spazio dei collettori, dei mediatori. O forse, muta solo il ruolo di questi  antichi artigiani della comunicazione, che non devono decidere  più se questa o quella è la notizia, ma quale senso  l’abbondanza di notizie, che comunque arriva ai nostri occhi , potrebbe assumere in questo o quel contesto.

 

Non è poco, e comunque c’è poco da fare, bisogna arrendersi all’evidenza: queste sono le notizie, bellezza!

 

8 suggerimenti alla classe dirigente italiana

giovani

di Massimo Preziuso, pubblicato sulla rivista generazionale Tr3nta

Tracciato un quadro generale della situazione giovanile in italia, Massimo Preziuso prova a elencare otto punti su cui la classe dirigente italiana dovrebbe investire a partire già dal prossimo anno.

Siamo alla fine di un altro anno (e di un decennio) difficile per la nostra cara Italia.
Il Paese lentamente continua nella sua fase declinante, e questo lo si vede nell’economia ma soprattutto nei fatti sociali.
Le iniziative del movimento studentesco e gli scontri a Roma di qualche giorno fa – malamente gestiti dalla classe dirigente italiana (professionisti, intellettuali, politici) come un qualcosa di strano, fastidioso e fuori luogo – sono una semplice cartina dello stato dell’arte del Paese.
Siamo giunti ad un momento cruciale.
Le nuove generazioni (gli studenti medi e universitari) unite alle ormai quasi – nuove (i trentenni e quarantenni dalla vita precaria) stanno finalmente dando segnali evidenti alla restante parte del Paese di una situazione che non va più bene nemmeno a loro, che la stanno vivendo da un decennio almeno da protagonisti negativi e passivi.
Va detto che, in questo contesto, vi sono anche altri segnali positivi provenienti dai giovani.
Aumenta ad esempio la spinta verso l’associazionismo e la imprenditorialità.
Mai come in questi anni si vedono ragazzi anche giovanissimi che tornano ad impegnarsi nel volontariato o nella politica, cosa che non accadeva solo dieci anni fa. E questo è un fatto che va colto e sostenuto.
Basta poi girare per LinkedIn e leggere i profili professionali dei trentenni di oggi per capire che rivoluzione silenziosa è in atto: da un lato si torna a scendere in piazza nell’età della formazione, dall’altro si rivede il modo di essere lavoratori nell’epoca della precarietà, ma anche delle variegate opportunità, e si ricercano nuove forme di soddisfazione personale al di fuori dei grandi involucri aziendali.
Tutto questo è semplicemente cambiamento, generato da un momento difficilissimo ancora mascherato dai media e dalla politica.
Ed è su questi germogli di “pacifica rivoluzione generazionale” che bisogna assolutamente e rapidamente fare leva per lasciarci alle spalle un decennio di crisi.
E devono farvi leva soprattutto le classi dirigenti che, risultate incapaci di svolgere il proprio ruolo – “dirigere” la società e la sua parte più energica, i giovani, verso il cambiamento – dovranno almeno ora riuscire ad assecondarne il moto spontaneo.

Ed allora cosa si può consigliare loro?

Scrivo qui una mia semplice “wish-list” in ordine casuale, sperando non risulti per questo banale.

Si può e si deve:

1) Immergersi nei luoghi in cui oggi si discute e si fa nuova cultura ed innovazione: il Web ed i social network;

2) Liberare sempre più l’accesso alla Rete, a cominciare da una seria diffusione libera del collegamento internet in luoghi pubblici, con il Wi-Fi;

3) Aiutare a sviluppare a pieno le iniziative associative di vario tipo che nascono nel Web, soprattutto nel passaggio al “mondo reale”, senza il quale Internet non esplica pienamente il suo enorme potenziale di driver culturale e di innovazione;

4) Sostenere la nascita e lo sviluppo di iniziative imprenditoriali giovanili mettendo insieme risorse pubbliche e private;

5) Aiutare i giovani ad effettuare esperienze di formazione e lavoro nei paesi dell’Unione Europea, per formarli alla nuova cornice cultuale di riferimento;

6) Sostenere uno sforzo congiunto delle università italiane per avvicinare i giovani al mondo delle professioni fin dai periodi di studio superiore e universitario;

7) Favorire l’accesso dei giovani in politica, a partire dal livello locale, anche attraverso le così tanto vituperate “quote arancio”. Sono certo che la loro migliore conoscenza del mondo presente sia fondamentale nelle istituzioni più della (eventuale) minore esperienza;

8 ) Last but not least, tornare ad insegnare a scuola – rendendola centrale nella formazione del discente – la ormai lontana ma ancora più necessaria, in una società sempre più complessa, “educazione civica”;

Buon lavoro e buon 2011!

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