Le lezioni su La7 di Romano Prodi: istruzioni per l’uso
E’ giunto il momento di aggiornare, brevemente, la parte dello Spazio della Politica dedicata alla “prodologia”, la disciplina che si occupa dello studio di Romano Prodi. Ne abbiamo parlato già a fine 2009, in un articolo in cui notavamo il suo attivismo nei rapporti internazionali e in particolare con la Cina, e a fine 2010 ne “L’eterno ritorno di Romano Prodi”, abbiamo esposto un punto di vista volutamente provocatorio sulla forza della sua leadership rispetto al resto del panorama politico-economico del Paese. Proprio in questi giorni, alla notizia della presenza televisiva di Prodi si è affiancata quella dell’uscita di un nuovo libretto, dal titolo “Futuro cercasi”. La dignità scientifica della prodologia può essere messa in discussione: perché Prodi? Perché ancora lui? Non è vecchio? Perché dobbiamo essere governati da Prodi e non da tanti Massimo Zedda?
A partire da questi presupposti, è interessante chiederci di che cosa parlerà Prodi nelle sue già celebrate lezioni su La7 e, soprattutto, perché è importante occuparcene, mantenendo un’attenzione sui temi, ancor più che sulla sua “campagna” per la presidenza della Repubblica. Ecco quindi un piccolo riassunto apocrifo dei suoi corsi.
1. Il mondo visto dalla Cina. Gli scritti sul Messaggero e le conferenze degli ultimi anni (in gran parte consultabili qui) testimoniano un fatto: Prodi si è rimesso a studiare. I suoi studi si concentrano proprio su quella idea ambiziosa di “formazione globale” di cui tante volte su Lo Spazio della Politica abbiamo cercato di seguire le tracce. Perciò Prodi cercherà di raccontare ai suoi ascoltatori-studenti i cambiamenti e le contraddizioni del mondo, dalle opportunità e i rischi per l’Africa alla Cina, su cui come sappiamo Prodi ha accumulato un notevole capitale di conoscenza e di relazioni. Prodi cercherà di raccontare la Cina agli italiani attraverso piccole immagini efficaci per i cittadini e per le imprese, come questa di Wenzhou. Spiegherà che non dobbiamo avere paura di una “spartizione cinese dell’Europa”, ma dobbiamo pensare piuttosto a un “rinascimento cinese”, riprendendo la visione del suo collega alla CEIBS David Gosset, direttore dell’Academia Sinica Europea, nell’ultimo volume del rapporto Nomos & Khaos. L’attualità e la sua storia personale imporranno a Prodi una particolare attenzione per l’Europa: sugli squilibri attuali, sulle incertezze dell’ultimo decennio, sulle responsabilità della sua classe dirigente.
2. Il “capitalismo senza volto”. La raccolta di scritti pubblicata dal Mulino nel 1995 nella collana “Tendenze”, e intitolata “Il capitalismo ben temperato”, si apre con lo scritto del 1991 “Esiste un posto per l’Italia tra i due capitalismi?”. In esso Prodi si inserisce sul dibattito in corso sulle varietà dei capitalismi (richiama spesso che i suoi lavori risalgono allo stesso periodo di quelli di M. Albert), affrontando alcuni nodi irrisolti del caso italiano, quello appunto del “capitalismo senza volto”. Tra i saggi vi è anche un programmatico “La società istruita. Perché il futuro italiano si gioca in classe”. I temi affrontati dal Prodi studioso, e i nodi irrisolti del Prodi politico, saranno ripresi in un contesto, con la ripresa di una discussione sulle politiche industriali, che non può non considerare l’apporto dell’economia digitale. E ormai, quanti capitalismi esistono? Come abbiamo scritto in passato, il puzzle si è complicato. Mentre gli economisti si dividono, dobbiamo aggiungere il capitalismo brasiliano, il capitalismo turco e molti altri a una visione troppo ristretta. E Prodi aggiungerà: “Non pensate mica di poter dire ai cinesi che sono “renani”, perché si sentono piuttosto del “delta del fiume delle perle” o di quelle robe lì…”. Mentre si delibera sul modello perfetto o sui modelli meno imperfetti, sarà pur vero che qualcuno dovrà lavorare, competere, dare da mangiare ai propri figli, abbattere o accrescere il debito pubblico, portare rubinetti italiani in Estremo Oriente passando per Suez. Questo modo di ragionare resta prezioso: o ci appassioneremo alla realtà dell’Italia o non ce la caveremo affatto. In questo, Prodi può comunicare a una vasta platea la sua eredità fondamentale, che è stata colta una volta per tutte da Edmondo Berselli con queste parole:
Piuttosto che occuparsi dell’ultima impalpabile variazione della teoria sraffiana del valore, e della produzione di sofismi a mezzo di sofismi, valeva la pena di mettere sotto osservazione l’economia italiana nel suo aspetto fenomenologico. Ed ecco allora voluminose ricerche sull’industria delle calzature, sulla produzione di piastrelle del distretto ceramico di Sassuolo, sull’industrializzazione diffusa delle Marche, in sostanza sull’Italia osservata da vicino, e non fantastica o immaginaria.
3. Il futuro del welfare. Proprio Edmondo Berselli ha messo lo zampino anche nella terza grande questione di cui si occuperà Prodi: il futuro del welfare. Già durante la presentazione del libro postumo del suo amico, “L’economia giusta”, Prodi aveva sottolineato questo punto:
Ogni giorno viene tolto un pezzettino dello Stato sociale… Andiamo avanti in questa situazione di essere costretti ad arretrare nelle conquiste sociali o possiamo fare un salto in avanti tramite un discorso di solidarietà e riorganizzazione della nostra società? (…)
Nonostante la vorticosa crescita che dà un senso tutto opposto alla società cinese e indiana rispetto alla nostra, non di ritirata ma di grande avanzamento, però la differenza tra ricchi e poveri aumenta anche in queste società. (…)
È interessante, perché in tutte le analisi del mondo trovo in questo momento un solo Paese in cui per un periodo medio di un terzo di generazione la distanza è diminuita, ed è il Brasile. Questo in fondo social-liberal-mercat-cristianesimo che ha fatto Lula, in questa meravigliosa sintesi di una vita diversa da tutti gli altri, è uscito sconfitto in tre elezioni e a fare una sintesi di tutto. E a interpretare in modo notevole questi fatti. E riesce – in una situazione di sviluppo – eh eh, a non aumentare queste differenze che sono, come dice Edmondo, caratteristiche di una società puramente mercantile.
Riassunto delle puntate precedenti. Negli anni ’90, Bill Clinton, nella sua strada per i successi nell’abbattimento del debito pubblico degli Stati Uniti, ha affermato di voler chiudere la storia del “welfare come lo conosciamo”. Il punto è stato condiviso da Blair. Come sappiamo, nella spesa pubblica italiana le voci della pubblica amministrazione, della previdenza e della sanità hanno un peso determinante. Ma che cosa può esserci alla fine del welfare come lo conosciamo, concretamente? Se consideriamo la sua fine naturale, possono esserci gli effetti della crisi del debito europeo sulla lotta contro il cancro, che forniscono un’immagine del futuro possibile. Durante il congresso europeo di oncologia a Stoccolma, notevole attenzione è stata dedicata a uno studio sull’aumento dei costi delle cure, e un recente articolo pubblicato su “The Lancet Oncology” ha lanciato l’allarme della crisi del costi, in particolare nei Paesi che invecchiano. In Grecia, la Roche ha sospeso la fornitura di anti-tumorali ad alcuni ospedali greci fortemente indebitati.
Sintetizzando, la domanda “ci sarà una piazza Tahrir italiana in autunno?” (ne abbiamo parlato qui e qui) è ritenuta più interessante della domanda “ci saranno i soldi per i farmaci contro il cancro negli ospedali pubblici italiani in autunno?”. La seconda domanda è più farraginosa e parla di una cosa precisa: è prodiana. Ma parla di un futuro prossimo possibile dell’Europa e dell’Italia, e merita di essere considerata.
Come si vede da queste anticipazioni, con le lezioni di Prodi – magari la sua voce sonnecchiante, col bofonchiare imperturbabile in italo-bolognese, inglese o cinese, andrà intervallata da qualche servizio appassionante, chiedere per informazioni ad Al Jazeera e ai documentari di Niall Ferguson, astenersi CCTV – il nostro dibattito pubblico compirà qualche passo avanti. Gran parte del dibattito pubblico italiano, difatti, si avviluppa sul concetto di “informazione”. In realtà, seppur in un sistema televisivo anomalo, disponiamo di molta informazione. A volte ci manca la formazione. Per questo abbiamo ancora bisogno del vecchio Professore.
Il Sud sta morendo
di Francesco Grillo su Il Mattino
Il Sud sta morendo. Potrebbe essere questa la sintesi del rapporto annuale della SVIMEZ presentato ieri a Roma. Sta morendo messo definitivamente nell’angolo dalla scarsa attenzione dei media e della politica, a Roma, così come a Napoli e a Bruxelles da una crisi più vasta che rischia di minacciare la stessa sopravvivenza del progetto europeo, così come di quello unitario. E, tuttavia, il rapporto – impietoso e condivisibile nelle analisi – appare non affrontare direttamente la questione delle classi dirigenti che è il nodo che ha strozzato qualsiasi prospettiva di sviluppo.
Più di quelle relative all’evoluzione del PIL, tra le molte cattive notizie che il rapporto fornisce, quella che colpisce di più riguarda il lavoro, i giovani, alla quantità e alla qualità di capitale umano che il Sud sta perdendo e, di conseguenza, a ciò che sta diventando la società meridionale.
La recessione nel Sud è, soprattutto, il crollo nel numero di occupati in un territorio che già prima della crisi vedeva le quattro grandi regioni del Sud collocate agli ultimi quattro posti tra le duecentocinquanta regioni europee.
Se tra il 2008 ed il 2010 in Italia si sono persi più di mezzo milione di posti di lavoro, ciò che impressiona è che il Sud – che rappresenta meno di un quarto dell’economia nazionale – ha assorbito più della metà di queste perdite. Ma ancora più eclatante è constatare che in effetti questa riduzione è interamente concentrata nella fascia di popolazione tra i quindici e i trentaquattro anni: in soli due anni gli occupati giovani si sono ridotti di una percentuale superiore al venti per cento. Questa ritirata in massa dei giovani dal mondo del lavoro nel Sud non è, peraltro, attenuata da un aumento del numero di persone che frequentano l’università: se nell’anno scolastico 2002 – 2003 il numero di diplomati che sceglieva di iscriversi ad un corso di laurea era simile nel Nord e nel Sud – e superiore al settantadue per cento – dieci anni dopo questo valore è crollato di dodici punti nelle regioni meridionali. Il risultato finale è l’incrementodei giovani che non sono né impegnati nello studio, né nel lavoro: i laureati con età inferiore a trentaquattro anni e che sono in una situazione di totale inattività sono centosettantamila ed il paradosso è che dovrebbero essere la punta più avanzata di una società che decidesse di voler essere normale.
La questione meridionale è, dunque, sempre di più questione generazionale. Del resto ai giovani del Sud rimane spesso solo l’opzione della fuga: seicentomila – buona parte laureati – si sono spostati verso il Centro Nord negli ultimi dieci anni lasciando progressivamente un Sud che – rispetto agli stereotipi – è semplicemente sempre più vecchio, sempre più assistito e soprattutto senza capacità di dare voce ad un progetto politico qualsiasi.
Il problema è ancora però quello delle classi dirigenti politiche ed amministrative che continuano a perdere un’occasione dietro l’altra e che hanno di fatto spezzato qualsiasi possibilità di ricambio lasciando a chi aveva competenza e talento solo la possibilità di andare via.
I dati, del resto, continuano a togliere qualsiasi legittimità alla lamentela sulla mancanza di fondi. È vero che la quota di spesa pubblica in conto capitale e, persino, quella corrente destinata al Mezzogiorno continua a scendere, come rivelano i dati della SVIMEZ. Tuttavia, è altrettanto vero che come dice la ragioneria generale dello Stato le regioni del Sud non riescono a spendere neanche i soldi dei fondi strutturali: a poco più di due anni dalla fine del periodo di programmazione 2007 – 2013 dei quarantaquattro miliardi di euro messi a disposizione dai programmi comunitari per lo sviluppo del mezzogiorno non ne sono stati spesi neanche cinque, laddove la peggiore prestazione è quella della Regione Campania che pure era una delle amministrazioni europee con la maggiore quantità di risorse a disposizione.
Non convince in questa situazione la creazione di nuove agenzie o di nuovi coordinamenti che rischiano di sommare tra di loro debolezze ed incapacità. Bisogna, invece, avere il coraggio di mettere pesantemente in discussione l’insostituibilità delle amministrazioni pubbliche.
Le idee che altre regioni che sono riuscite nel miracolo che solo alle regioni del Sud non riesce ci sono già: coinvolgimento di fondi di venture capital ai quali demandare l’individuazione e la condivisione del rischio di progetti innovativi; sostituzione di amministrazioni pubbliche incapaci – da individuare attraverso criteri oggettivi, semplici e trasparenti – con altre che si sono dimostrate migliori e che esistono anche al Sud a pochi chilometri di quelle inefficienti; distribuzione diretta ai giovani di parte delle risorse sotto formadi buoni con i quali comprare formazione o di incentivi fiscali per chi decida di tornare e di mettere a disposizione di un progetto il proprio talento; finanziamento di parte del capitale di cooperative di cittadini che accettino la sfida di far funzionare ciò – musei, siti archeologici – che lo Stato ha abbandonato.
Tutte queste misure partono però dal presupposto di porre concretamente la necessità di applicare concretamente il principio della sussidiarietà e dall’idea che nessuno possano usare risorse scarse senza darne conto e che ci sia, invece, nella società – anche in quella meridionale – l’energia per poter invertire declini che non sono mai irreversibili.
(pubblicato su Il Mattino il 28 settembre 2011)
Alla nostra energia ci pensi Iddio!
di Andrea Bonzanni su Lo Spazio della Politica
Sono passati solo tre mesi dal referendum abrogativo sul nucleare ma sembrano secoli. Gli studi televisivi e le pagine dei giornali di quei giorni, croce e delizia di noi geeks dell’energia, non ci sono più. I discorsi sopra i massimi sistemi (energetici) si fanno al massimo in qualche convegno. Vox populi vox dei, è vero. E il popolo il suo verdetto l’ha dato. Ma i temi sollevati in quei giorni, al netto delle tirate di Celentano e soci, non possono essere seppelliti da una croce su una scheda elettorale e dall’abrogazione di un paio di commi di un decreto-legge.
Bocciata dalla volontà popolare la discutibile opzione nucleare, continuare con il business as usual non è tra le possibilità da annoverare. Vi sono impegni vincolanti di riduzione delle emissioni di CO2 che l’Italia, in quanto membro dell’Unione Europea, ha sottoscritto e deve rispettare. Vero è che a noi questi obiettivi non sono mai piaciuti: la voce grossa di Stefania Prestigiacomo al Consiglio europeo dei ministri dell’ambiente nel 2008 è stata una delle ultime battaglie italiane in seno alle istituzioni europee. I Polacchi, orgogliosi delle loro miniere di carbone, ci sono anche venuti dietro, ma gli altri hanno preso una strada diversa e con buona pace dobbiamo adeguarci.
Gli obiettivi per il 2020 saranno raggiunti più per cause contingenti che per meriti della nostra politica energetica. La caduta e stagnazione del PIL, cui la domanda di energia è fortemente correlata, ci dovrebbe permettere di ridurre le emissioni di CO2 del 20%. La quota del 20% di fabbisogno energetico coperta da energie rinnovabili sarà composta per oltre la metà da centrali idroelettriche, vale a dire da investimenti in larga parte realizzati dalla buona vecchia ENEL pubblica, più o meno nel neolitico.
Ce la siamo cavati, verrebbe da dire. Ma non basta. L’Unione Europea, cui certo non mancano ambizione e visione di lungo periodo, ha rilanciato e proposto una riduzione delle emissioni di CO2 tra l’80% e il 95% nel 2050. Un gruppo di 15 esperti sta preparando una Roadmap con scenari e opzioni su come raggiungere l’obiettivo. La pubblicazione del documento è prevista per la fine di novembre, poi inizierà il lungo e intricato iter legislativo europeo.
La battaglia delle idee e degli interessi è già cominciata. Nucleare, rinnovabili, gas naturale e carbone, soli o « puliti » da tecnologie di cattura e sequestro del carbonio sono ai blocchi di partenza, con i loro pregi e difetti, simpatizzanti e nemici, paesi, industrie e partiti di riferimento.Anche a livello nazionale le posizioni sono ben definite: la Germania industriale spinge forte sull’innovazione tecnologica sperando che il resto d’Europa compri tecnologia tedesca. La Gran Bretagna dei commercianti e dei finanzieri punta sulle interconnessioni e mira ad esportare l’eolico del Mare del Nord verso il continente. La Francia con il nucleare è grossomodo a posto così. La Polonia fa blocco e ambisce a ergersi alla testa di un gruppetto di scettici centro-orientali per strappare qualche concessione, magari sul budget 2014-2020 in corso di discussione.
L’Italia è assente ingiustificato. La totale latitanza di un paese fondatore, quarta economia dell’UE, da un dibattito di tale rilevanza rispecchia la debolezza e l’isolamento di cui ahimè soffriamo nell’Europa di oggi. Ma se nel 2050 l’attuale governo, i suoi ministri e (quasi) tutti i parlamentari non ci saranno più, ci sarà ancora un paese che godrà o piangerà delle politiche adottate in questi mesi. Nel settore energetico si parla di foresight e lock-in : le decisioni prese oggi avranno un impatto sui prossimi 20, 30 e 40 anni.
Sarebbe facile prendersela solo con il governo che non governa, che pure ha le sue gravi colpe. Ma su questi temi, una mancanza di progettualità è dovuta anche alla scarsa qualità del dibattito pubblico, che si limita a slogan ad effetto e posizioni a priori senza risolvere certi nodi chiave.
Siamo disposti a sussidiare fonti rinnovabili, accettandone l’impatto sul bilancio pubblico o sui prezzi in bolletta? OK, ma i cittadini contribuenti e consumatori devono esserne informati, evitiamo pasticci alla Quarto Conto Energia.
Crediamo che alcune di queste tecnologie siano particolarmente promettenti e valga la pena scommetterci, magari sfruttando qualche vantaggio comparato del Bel Paese?Attenti ai buchi nell’acqua però, e non pensiamo di poter puntare sul manifatturiero, come purtroppo sta avvenendo. Nella nostra economia aperta, queste attività ad alta intensità di lavoro vanno dove il lavoro costa meno, lascio indovinare a voi dove.
Deleghiamo in toto la transizione all’industria elettrica, lasciando ai colossi del settore la responsabilità di prendere decisioni strategiche chiave? Non è uno scandalo, ma non ci si può aspettare beneficienza. È comunque necessario un quadro legislativo serio che fornisca alle imprese chiari incentivi per ridurre le emissioni.
Certo, la crisi, l’euro, la finanziaria, i tagli, la crescita ci tengono occupati e in uno dei più bui periodi di crisi economica e politica nella storia del nostro Paese parlare di reti elettriche e emissioni di CO2 può sembrare futile e un po’ snob. Ma,per dirla con Kissinger, che di strategia due cose ne sapeva, non possiamo trascurare l’importante per occuparci soltanto dell’urgente. Ritorniamo a parlare di questi temi. È importante, e nemmeno troppo poco urgente!
Interview with Sebastian Nerz – Leader of the German Piratenpartei
by Massimo Preziuso – Innovatori Europei
Sebastian Nerz (photo made by Fany Fazii) is a 28 years old bioinformatics from Berlin and Deutsche Pirate Party leader. The Piratenpartei Deutschland are a striking example of how the speed of the Internet and the creativity of people, put together may achieve real and extraordinary change in modern societies. With a mission primarily oriented to issues like the ‘”free Internet”, the “privacy” and the “open government” the Piraten are emerging as primary political actors in Germany, with their 9% in September 2011 regional elections in Berlin, obtained after the success of their older cousins - PiratPartiet – in Sweden (with their 7% in 2009 European elections).
Let’s figure out with Sebastian how this success came and if this wave of positive change is also coming to us and in which form.
Dear Sebastian. First of all thanks for your time.
As you know, Innovatori Europei is both a (light) movement of political ideas – trying to support change in Italy and Europe – and an observatory on new and interesting happenings around the world. For this reason, we have followed with great interest the important result of the Piraten in the regional elections in Germany held this month.
1) An unexpected success for many, but I guess long planned. How have you grown up and what are the characteristics of your success that can be transmitted to other bottom – up political initiatives born aroud the Internet?
The pirate movement originates from Sweden, where it was founded in 2006. In the same year the German Pirate Party was founded in Berlin. In 2009 the government of Germany proposed the introduction of a censorship system, designated to fight child pornography. While the goal was a good one, the means were not. Building a system that allows to restrict access to websites can only lead to misuse. This proposition led to a very intense discussion in Germany. The pirate party was among the leaders of the opposing parties.
In those days the pirate party Germany grew from roughly 800 to roughly 10.000 members. The discussions have not been nice. Pirates have been named rapists, child molesters, and whatever else because some politicians (and media agencies) did not understand that fighting a mean is not the same as fighting the problem. We kept up fighting against the “Zugangserschwerungsgesetz” law. In the end we won. The law was passed, but it was never actually enforced and has now been canceled.
I believe that this shows: Be true to yourself. Whatever you do, people will attack you for it. People will misunderstand your intentions. Well, then explain it again. And again and again and again.
Afterward the pirate party rebuilt its structures. We needed to adopt to the new situation. Discussions structures working with 800 members are not necessarily working with 10.000 members. This is a very difficult and sometimes frustrating process.
And what we had to learn is how to leave the internet. The net is a wonderful tool to lead discussions with others, to meet and talk, to publish your ideas. But you will never reach all of the people if you stay there. Develop your ideas – and then get out and on a marketplace and discuss your ideas and propositions with the people out there! They have a lot of important things to say. So listen to them. Explain your ideas. Try to work as transparent as possible. If you do it right you have nothing to loose from transparency.
But the most important point is: be honest. Politicians are making errors. This is quite normal. If you try to hide your errors, they are going to come to the light in the worst possible way. So just be honest to your voters and to yourself. And don’t shy away from things only because others are using (or not using) them. You have to find YOUR way of doing stuff and then stick to it.
In short: Use the tools provided in the net to form a group. Meet online and offline. Discuss your ideas. Open your group for external feedback. Work transparent. Be honest. Don’t hide your errors. Don’t hide your success. EXPLAIN your ideas. Many politicians just say „do this“ – but they don’t explain it. This is not going to work for you!
2) Your activity as Piraten is strongly connected with the Internet, as you work for concepts like Open Governance, Privacy and Free Internet. What is your view on the Renewable energy policies, seen they are very strongly connected with the idea of “distributed political and economic power”? And which is your view on the creation of a real (renewable) energy common market at EU level ?
The pirate party Germany is a strong supporter of renewable energy policies. Politics and economy have to stop being short-sighted. We neither have unlimited supplies of coal nor of oil and we have no idea how to handle the risque of nuclear fission plants (quite apart from the fact that there is no unlimited supply of Uranium either).
And the only way to really build a strong renewable energy market is to build a super-national market. We have lots of sun in southern Europe, there are lots of possibilities for pumped-storage power stations in middle and northern Europe, etc In addition by building a super-national energy market some of the problems (e.g. daily fluctuations of the amount of energy needed) can be solved (or at least reduced).
3) What are your goals in Germany? You also want to look out, in countries like Italy? Are you thinking about developing a sort of federation of the Pirate Party in Europe?
We want to change the way politics are working. Politics in Germany are traditionally held behind closed doors. Only the results of discussions are being published, how, who and why decisions have been made is seldom known.
In addition politicians are not honest to their voters. They are promising lots of things if an election is upcoming, but after the election has been held, everything is forgotten.
This destroyed the trust between politics and society. In recent polls politicians have been elected the 2nd least favored job. People expect politicians to lie. Thus we have an ever decreasing percentage of people actually voting (usually around 50-60%). This leads to very frightening democratic problems – if the majority of people is not participating in an election, does it really have a democratic legitimacy?
So we want to change the way politics are working. We want to achieve transparent and open politics. And our experience shows us that people are accepting errors. Politicians are human and human tend to make errors. That is okay! Hiding an error is not.
Apart from that we want to establish more participation processes. People should be able to participate in democratic processes. Politicians need their feedback in order to build working laws – so there should be a strong participation process established in our democracy. At the moment people are not able to participate apart from the regular elections. So we want to change this too.
Another important point are human and civil rights. The last years have seen quite a number of security laws being passed (data retention policies as a recent example). The balance between freedom and security has been tipped towards security. We have to re-balance this scale! Security laws have to be checked for their efficiency and whether they are really needed.
I could continue writing a long essay – about education, why its needed for a stable and democratic society and why the current educational systems in Germany are not sufficient. About a former welfare-state that has reduced its social systems to something that is not worthy of this name – but this would take too long.
In short: We want to change politics. We want to rebuild a social-liberal, democratic, free society with educated citizens, a strong social system, a transparent state that leaves the citizens to themselves and open politics allowing intense participation.
4) Europe is undergoing a complicated time, mainly as a natural result of global phenomena: there is a huge part of the world that rapidly grows and leave western countries poorer. What can we expect in the coming months and years? Shall Europe return to be protagonist, or shall we risk it leaving the main scene?
This will depend strongly on our own decisions. Are we re-enforcing the European bonds or are we trying to hide between national interests? Are we capable of building a strong super-national, democratic society or do we continue using the EU for unpopular decisions?
Europe has a strong economy, many talented engineers and well-educated citizens. We have all the resources we need to stay strong and wealthy in a globalized world. But we have to re-invent the European idea to achieve this goal.
And we have to accept that other parts of the world have a right to live good as well! We cannot continue to live on the cost of others. Following that path could only lead to problems.
5) What is your advice to citizens who want to commit in a beautiful country in a deep and unique crisis period (like Italy)?
Get some information about the root of the problems. Talk about them. Unite with other citizens. Don’t let yourself be frustrated, because whatever you want to achieve, it will take time and it won’t be easy. And don’t let yourself be stopped by minor problems or differences.
It is quite often that we see unification of diverse civil rights organizations working for an important common target. And then they split about some minor differences. This is plain stupid. As long as the main goal is more important then the differences one should continue working together to achieve it! This does not mean that you will continue to do so for all eternity. And perhaps you will have divergent goals in different issues.
That’s okay. Combine for your main goal, diverge for your secondary goals. That way you can achieve much more!
Another important topic is spreading information. The modern net provides lots of new and interesting opportunities to spread information! Start a blog, link with others, use Twitter, Facebook or Google+ to build networks. Yesterday I have listened to a presentation made by a German civil rights activist. She told us „Even if your blog is only read by two people, it is well worth writing it! Two people are two more then zero“. She is right. Perhaps those two are talking to their friends. And they continue to do so – and suddenly everyone is talking about your ideas!
And don’t let yourself be deflected. Perhaps you are reaching some minor goals – but this does not mean that you can stop working! Being a civil rights activist is an ongoing job. And it is one that you can never stop. Because what was won in several years can be lost in days.
6) To end this interview with a proposal: in Italy various innovative inter – parties political initiatives are starting (i.e. The Outsiders, whose I am a founding member) and I imagine the same is happening in your country. Would you like to see Germany and Italy closer via their innovative political movements? What do you think about the creation of a Deutsche – Italian (and later European) network? I am certain it would be a great way for our countries to learn each other from different but strong experiences.
Super-national networks are very, very important. As I have already stated the pirate movement was intentionally founded as a super-national network of parties. Many of our current problems are in fact not national but super-national – so the only way to handle them is on this level!
Sondaggi non veritieri
Nella confusione crescente dell’ attuale momento politico, l’incertezza è regina nella profluvie di sondaggi che ci vengono propinati a ritmo settimanale.
Pur nella inevitabile opinabilità intrinseca ad ogni forma di previsione, un elemento comune sembra distinguersi dalla volatilità dei dati relativi alle propensioni di voto inerenti alle singole formazioni politiche.
Esso concerne l’ ampiezza crescente della parte di elettorato che dichiara la sua profonda indecisione o addirittura la sua volontà di astenersi dalla partecipazione al suffragio elettorale prossimo venturo.
La pericolosità di tale atteggiamento trova tuttavia una sua attenuazione nelle modalità con cui tali sondaggi vengono offerti alla sensibilità della pubblica opinione.
Infatti pur dando variamente conto della percentuale di astensionismo e di “non so “ che caratterizza lo specifico sondaggio, tale percentuale subisce una successiva amputazione : essa risulta infatti esclusa nella rappresentazione dei dati relativi alle singole formazioni politiche che vengono – erroneamente – calcolate come se esse rappresentassero l’ universo elettorale tutto.
E’ evidente il vantaggio che, illusoriamente, favorisce tutte le forze politiche in campo, sia che registrino incrementi o decrementi nelle intenzioni di voto espresse dagli elettori facenti parte del campione prescelto dal singolo sondaggio.
E’ evidente infatti che quando si rappresenta un partito con intenzioni di voto del 30% in un universo che (come attualmente avviene) registra una astensione del 40 % , si evidenzia una realtà virtuale molto lontana dalla realtà effettiva .
Più precisamente tale modalità cerca di ottundere la sensibilità dell’ opinione pubblica rispetto al crescente divorzio dell’ elettorato dalla sua classe politica : riuscendo forse ad allontanarlo nel tempo ma ad accrescerne la gravità .
Riprendendo infatti l’ esempio numerico appena riportato, potrebbe verificarsi infatti che quell’ ipotetica formazione politica del 30% , in vigenza della legge elettorale attuale, potrebbe acquisire il 55% per cento dei seggi parlamentari, pur rappresentando di fatto solo il 18% del corpo elettorale : con quale sovvertimento democratico è superfluo rilevare.
Quella legge elettorale che tutti i partiti, presenti e passati , hanno variamente disapprovato ( i suoi stessi estensori “in primis “ ) ma che di fatto nessuno di essi ha tentato veramente di sostituire.
La Pubblica Amministrazione sia noi
di Aldo Perotti
C’è una corrente di pensiero, negli ultimi anni assolutamente maggioritaria credo in gran parte del’occidente,che ritiene la Pubblica Amministrazione uno dei fattori limitativi dello sviluppo a causa dei suoi malfunzionamenti, della sua storica “rigidità” ed inefficienza. Questa posizione è all’origine di tutto quelle iniziative che puntano a ridurre la dimensione, l’importanza e specialmente i costi della “mano pubblica” per sostituirla con soluzioni alternative ispirate all’economia di mercato, alla libera concorrenza, all’iniziativa privata.
Sarebbe utile ricordare ai promotori di questa visione che la Pubblica Amministrazione non è una malattia, un ostacolo naturale od una credenza tribale destinata a scomparire con il progredire della scienza e della tecnologia, ma è un’invenzione dell’uomo, una necessità, la soluzione di un problema.
La Pubblica Amministrazione compare nella storia in tempi relativamente recenti, prima – fino al medioevo – potremmo dire che non esisteva. La Pubblica Amministrazione nasce e cresce di importanza essenzialmente in riferimento allo sviluppo di modelli partecipativi, è collegata alla democrazia. L’amministrazione è pubblica perché è di tutti, altrimenti diventa amministrazione della cosa pubblica da parte di pochi o forse di uno solo, che è la monarchia o la dittatura.
Se in ossequio alle idee liberiste trasferissimo la gestione di tutti i servizi pubblici a dei privati potremmo arrivare al paradosso che pochi singoli – e teoricamente addirittura uno solo (un monopolista)– divenga amministratore di tutto, raccolga le tasse, assuma e comandi gli eserciti, costruisca ospedali e scuole, assegni gli alloggi e perché no amministri la giustizia. Diverrebbe lui stesso lo Stato. Quando la Pubblica Amministrazione cede il passo all’impresa ed all’iniziativa capitalistica in certi settori inevitabilmente il sistema perde punti in termini di democrazia, tutti perdiamo un po’ di importanza e di libertà.
La dimensione e i costi della Pubblica Amministrazione potrebbero anzi essere considerati forse un indicatore di democrazia; li proprio dove la pressione fiscale è più elevata, si pensi ai paesi del Nord Europa, assistiamo a forme di democrazia più “compiuta” e senza che questo costituisca alcun limite allo sviluppo.
Se è vero che i malfunzionamenti e le inefficienze possono costituire un problema e un vincolo per l’avvio di certe iniziative, ovvero limitare un certo sviluppo economico, di contro la Pubblica Amministrazione costituisce l’unico ed il fondamentale custode e tutore degli interessi collettivi, da sempre e sempre più spesso in contrasto con gli interessi dei singoli o delle lobby.
La Pubblica Amministrazione è l’esecutore della volontà collettiva che viene “definita” attraverso gli strumenti della democrazia mediata di cui disponiamo (il Parlamento, il Governo). Molte disfunzioni sono anche da ricondurre a questa “mediazione” spesso causa di indicazioni contraddittorie e non sempre trasparenti; chissà se modelli e forme di democrazia diretta non siano in grado risolvere molti dei problemi della Pubblica Amministrazione.
Se più Pubblica Amministrazione vuol dire più democrazia, allora una Pubblica Amministrazione migliore è allo stesso tempo presupposto e sintomo di un democrazia moderna e funzionale, promotrice di forme di sviluppo equilibrato ed egualitario, sotteso a dinamiche redistributive della ricchezza, e non mirato al solo incremento del PIL, incremento costato quella crescita delle disparità economiche sociali che stanno conoscendo molti paesi in quest’ultimo ventennio definibile post-comunista.
La ri-attribuzione di questo fondamentale ruolo di “specchio della democrazia” alla Pubblica Amministrazione è forse la prima e fondamentale innovazione della quale la politica dovrebbe farsi promotrice. Come uno specchio può deformare le immagini, la collettività spesso non si riconosce nella Pubblica Amministrazione e quello che vede non è se stessa, come dovrebbe essere, ma spesso solo la sua parte peggiore.
E’ vero, l’innovazione tecnologica è importante, come anche possono esserlo nuovi modelli organizzativi, ma fondamentale innovazione potrebbe essere – anche proprio attraverso la tecnologia – l’avvicinamento della cittadinanza alla Pubblica Amministrazione in un sistema di interrelazioni forti, qualcosa di non dissimile dal rapporto che ognuno di noi ha con l’amministratore del condominio dove abita. Si deve in qualche modo ridurre la distanza tra lo specchio e la collettività per ridurre le deformazioni.
Ovviamente questo sistema è tutto da definire, da regolamentare, ma lo scopo è quello di dare confidenza del fatto che la volontà e gli interessi collettivi siano effettivamente “nelle corde” della Pubblica Amministrazione.
Nell’ambito dei procedimenti amministrativi, pure trasformati in maniera radicale negli anni attraverso la trasparenza amministrativa, non si riesce ancora a trasformare il rapporto singolo-P.A. ma anche il rapporto cittadinanza-P.A. in qualcosa di utile e collaborativo e diverso da quella terribile “caccia all’errore” che contrappone la PA e i suoi interlocutori, e riempie di lavoro i tribunali amministrativi con conseguenti ritardi e sprechi di risorse.
Deve tornare ad essere ben chiaro il concetto che “la Pubblica Amministrazione siamo noi “ e non un soggetto terzo e lontano, un variabile indipendente ed imprevedibile, ma piuttosto un circolo, se vogliamo esclusivo, a cui tutti siamo iscritti come soci (cittadini) attivi.
Il 15 Settembre IE a Venezia: “Innovazione per la P.A. uguale crescita”
Invitiamo tutti a partecipare ad una giornata ricca di discussioni, in cui il PD torna a progettare l’innovazione nella Pubblica Amministrazione.
See you in Venice!
In Russia, cresce il movimento ambientalista
di Massimo Preziuso
Torno oggi da una intensa settimana passata in Russia, dove sono stato invitato a parlare di politiche energetiche sulle rinnovabili in Italia e in Europa.
Ne torno molto contento. Ho conosciuto una Russia cambiata e cresciuta da un punto di vista di “social awareness” e questo mi ha fatto molto piacere.
Ho parlato ad una platea di giovani studenti universitari e professionisti, impegnati nel mondo dell’ecologia e dell’ambiente con il movimento green ECA Planet (il cui motto è “Ambientalista – Bello – Alternativo”), di Innovatori Europei e di quello che accade in Italia, facendone un caso di studio europeo, per concludere con alcuni suggerimenti alla Russia su quello che “non deve fare” per sviluppare, all’interno di un contesto molto diverso rispetto al nostro, una industria verde.
Ho voluto soprattutto comunicare il fatto che le politiche su settori in fase di crescita e carichi di innovazione – come quello energetico – vanno fatte con la piena approvazione della politica e della cittadinanza e che non possono permettersi “stop and go”.
Ovvero che è importante prima di tutto avere una cultura ambientalista, e che questa non nasce se non attraverso una formazione ambientalista. E’ questo che ho suggerito nella media conference internazionale ai giornalisti che ci chiedevano “come sviluppare l’industria green russa”. Ho detto che, “laddove un Paese fa degli utili provenienti dall’Oil & Gas una principale voce di bilancio, si puo’ diventare certamente green, ma nel lungo periodo, e partendo proprio dall’education e da movimenti come ECA”.
Nonostante il mio approccio critico, sono stato contento di ricevere diversi feedback e commenti, oltre a diverse richieste di collaborazione con l’Italia (ho parlato anche di un interessante Master, che si chiama Emerges, che Luiss Business School sta avviando, invitando giovani professionisti russi a parteciparvi).
Molti piccoli imprenditori green mi hanno detto di voler collaborare e crescere con le nostre aziende del settore. Alcuni producono ottima frutta organica, altri accumulatori di energia prodotta da solare termico residenziale o progetti immobiliari 100% ecologici.
Sono poi andato a visitare gli importanti progetti immobiliari che si stanno realizzando vicino Sochi – che sarà sede delle Olimpiadi invernali nel 2014 – e ho visto un’area che si sta trasformando e diventando rapidamente una bellissima località turistica di tipo europeo.
Differentemente da quello che molti europei possono immaginare, sembra proprio che la Russia guardi l’Europa quale modello di riferimento e migliore partner possibile per innovare il proprio Paese.
Non solo perché il nostro continente è patria di innovazione di frontiera su diverse tematiche (come quella ambientale) ma anche perché, nei fatti, ha moltissime similitudini con la Russia (basta girare per la regione del Caucaso per riconoscerne panorami, climi e cultura mediterranei).
Sarebbe allora bello vedere il nostro Paese accelerare nella collaborazione con le avanguardie culturali russe, come quello di ECA Planet.
Anche con iniziative politiche, oltre che di business. E anche perché da queste collaborazioni si potrebbe trarre anche lezioni interessanti.
Ad esempio, come si realizzano (in Russia) summer camps con centinaia di giovanissimi appassionati di ambiente e come si portano a termine in pochi mesi campagne per piantare 1 milione di alberi in tutto il paese grazie al lavoro di migliaia di scuole in tutto il Paese.
E allora, confrontiamoci con Paesi che sembrano diversi da noi – ma non lo sono – e cresciamo insieme a loro.
Berlusconi è un lusso che non ci possiamo più permettere
Di Massimo Preziuso (pubblicato su Lo Spazio della Politica)
Partiamo da un fatto molto negativo. L’Italia è entrata rapidamente e a pieno titolo nel gruppo dei cosiddetti PIIGS – Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna, nonostante il Governo e le istituzioni internazionali ci avessero detto in varie occasioni che tale enorme rischio fosse scongiurato, fondamentalmente grazie alle politiche di contenimento del deficit del ministro Tremonti.
Questo perché, dopo tre anni di crisi, l’Italia ha contemporaneamente perso l’occasione storica di ristrutturare il proprio sistema economico e dare slancio ad una economia che nella crisi ha perso un 6% di PIL e si trova oggi ai livelli di ricchezza degli anni’90, con livelli di produttività industriale bassissimi e livelli di consumi in serio affanno, in un Paese che oggi è nei fatti più povero.
Per anni in Italia si parlava della Spagna come un Paese “economicamente inferiore”, a tratti trainato da bolle di crescita speculativa. Ed in effetti, in teoria l’Italia aveva ed ha una struttura economica e finanziaria più robusta di quella spagnola. Eppure, in pochi mesi, queste due economie si trovano mano nella mano nel buio della crisi. E in tutto questo, mentre il premier Zapatero pochi giorni fa si è dimesso per provare ad attenuare le tensioni del mercato spagnolo, ieri il nostro premier Berlusconi ha continuato a sostenere (come più volte durante questi ultimi anni) che il Paese è stabile e forte, che il sistema bancario è a riparo da rischio, che esiste una congiura dei mercati e della politica contro il Sistema Italia e il suo governo. E oggi, mentre i mercati vivevano una giornata pesantissima, ha addirittura invitato chi avesse soldi a comprare le azioni delle sue aziende.
Detto questo, la situazione che viviamo è delicatissima ed è racchiusa bene in alcuni fatti di Borsa.
Dopo il discorso “rassicurante” di ieri del Premier alle Camere, oggi i titoli azionari di tre gruppi fondamentali per l’economia italiana come Fiat, Unicredit e Intesa San Paolo lasciano sul campo intorno al 10%.
L’indice azionario FTSE MIB, dopo essere andato in tilt verso la chiusura per un “problema tecnico”, ha lasciato sul campo circa il 5%.
Negli ultimi sei mesi, un gigante dell’impiantistica come Maire Engineering ha perso il 70% della propria capitalizzazione, mentre nei soli ultimi due il colosso di stato della difesa, Finmeccanica, ne ha perso il 50%.
Il valore totale della Borsa italiana è oggi di circa 442 miliardi di Euro ovvero poco più del valore delle sole Apple e Google messe insieme (che valgono circa 400 miliardi di Euro).
In parallelo a questo, continua la corsa dei rendimenti dei BTP (i titoli pubblici italiani) che oggi raggiungono un differenziale massimo (dall’introduzione dell’euro) indicando quanto difficile e oneroso sia diventato collocarli sul mercato.
Tutto questo fa venire in mente una cosa importante, ovvero che non solo le singole aziende ma il Paese tutto è scalabile.
E quando un intero Paese è scalabile si rischia di perdere indipendenza e sovranità, dopo aver perso credibilità internazionale.
Ed alla fine dei conti, questa brutta situazione ha fondamentalmente a che fare con una questione molto semplice: la assoluta perdita di credibilità del nostro Paese a livello internazionale, che è fortemente data da chi lo governa.
Ma in tutto questo il nostro Premier ha chiaramente detto che il suo Governo va avanti fino al 2013, perché così gli italiani hanno deciso.
Mi chiedo: ce lo possiamo permettere? O è il caso che tutti insieme – politica, parti sociali e società civile – si uniscano per proporre rapidamente una soluzione nuova e sostenibile, che eviti un possibile disastro economico e sociale in Italia?
NORVEGIA, SOMALIA: L’era della vulnerabilità
di Francesco Grillo
È difficile capire il senso di un massacro come quello di Venerdì scorso se non consideriamo, per un momento, il luogo dove esso si è consumato. La Norvegia, storicamente e sotto molti punti di vista, è un vero e proprio angolo di paradiso, anzi l’unico che è rimasto mentre il resto del mondo rischia di affogare tra contraddizioni sempre più estreme.
Il paese rimase neutrale sia nella prima che nella seconda guerra mondiale – anche se fu invaso senza dichiarazione di guerra dai nazisti che costrinsero il governo in esilio a Londra – ed è stato talmente attivo nel fare da mediatore di accordi – anche se come fondatore della NATO è impegnato sia in Afghanistan che in Libia – che il comitato del premio Nobel da sempre consegna a Oslo e non a Stoccolma – come succede per tutti gli altri premi Nobel – il massimo riconoscimento per la pace.
Un paradiso anche dal punto di vista economico: mentre tutti gli altri paesi del mondo sviluppato cercano di salvarsi da deficit dello stato che arrivano oltre il dieci per cento per Stati Uniti, Inghilterra, Grecia, la Norvegia è l’unico paese europeo ad avere un surplus: del dieci per cento. E mentre il debito pubblico supera in media i 40,000 euro per ciascun cittadino europeo o americano – includendo nel calcolo anche i bambini, ciascun neonato norvegese può contare alla nascita su 60,000 euro di credito!
Un miracolo: pensate che la Norvegia riesce ad essere, contemporaneamente, il secondo paese più ricco (dopo il Lussemburgo e prima della Svizzera) e il quarto più equo (quanto si misura l’uguaglianza utilizzando un indicatore – GINI – che misura appunto le differenze) del mondo. Come dire una vera e propria combinazione di capitalismo e socialismo entrambi al massimo livello.
La Norvegia è anche uno dei paesi con la più alta percentuali di parlamentari donna – il 40% – ed uno delle più basse percentuali di persone che dichiarano che la religione occupa una parte importante della propria vita – meno del quattro per cento.
Un miracolo, dunque. Un miracolo se usassimo il linguaggio che normalmente si usa per definire ciò che è moderno, funzionante, probabilmente felice. Un paese che neppure è toccato dalle crisi devastanti che hanno portato il resto del mondo sull’orlo di un precipizio. E, tuttavia, oggi quel paese ritrova la propria forza non nel petrolio e nella propria modernità ma sotto le volte di una chiesa modesta dove un re con grande dignità abbracciava genitori sconvolti e composti. E allora?
E allora forse questa è davvero l’era della vulnerabilità. Dalla quale nessuno è escluso. Un’era nella quale potrebbe, persino, paradossalmente succedere che il male scelga come propri obiettivi proprio quelli che meno t’aspetti: il “centro del commercio mondiale”, il simbolo stesso di un impero rimasto senza rivali dieci anni fa e che proprio da quel momento ha cominciato il suo – relativo – declino; l’ultimo angolo di paradiso dieci anni dopo, per dimostrare che nessuno può essere al sicuro.
Ed è questo forse il messaggio che arriva da Oslo e che dieci anni fa fummo incapaci di comprendere. Prima ancora di perdere montagne di tempo, di miliardi e di vite rincorrendo improbabili “scontri tra civiltà” – islam contro occidente o tutti contro gli americani – dovremmo, invece, fermarci (come mi disse saggiamente Chiara un po’ di anni fa) e capire che siamo noi contro noi stessi. Che la guerra nuova contraddice proprio le categorie del materialismo storico che hanno dominato la cultura per due secoli: non divide più blocchi, nazioni, e neppure classi, ma famiglie, case, persino individui che vivono dissociazioni laceranti tra sé e anti sé, tra voglia di futuro e paura di futuro.
È l’era della vulnerabilità.
Perché se è vero che mai abbiamo vissuto tanto e così bene e anche vero che mai nella storia poteva essere anche solo concepita l’idea che un solo uomo potesse mettersi a fare la guerra contro un paese per mezza giornata o che cinquanta miliziani potessero tenere sotto scacco la super potenza del mondo per un giorno intero.
L’era della vulnerabilità perché all’epoca dell’impero romano o di quello inglese anche solo immaginare di invadere il centro dell’impero avrebbe comportato una preparazione ed una campagna lunga anni ed invece oggi mentre il mondo è al mare rischia di ritrovarsi con la storia cambiata per sempre.
Un’epoca che, a mio avviso, prescinde, persino, dall’idea – assolutamente retorica – di dover annullare le ingiustizie e le sofferenze per poter prevenire il terrore perché esse non sono annullabili – anche se è nostro dovere etico continuare a ridurle sempre di più – e chiunque faccia questi discorsi in queste occasioni sta solo operando una strumentalizzazione vergognosa della morte.
La vulnerabilità – a differenza di quanto fanno i cantori della complessità – non va , però, solo osservata ma affrontata e gestita e, secondo me, invece, quattro sono le cose che dovrebbero con urgenza e maggiore forza – diventare la risposta- pragmatica e visionaria – alla vulnerabilità.
Primo: dobbiamo dire a questi estremisti che hanno torto e che ci muoviamo nella direzione contraria a quella folle verso la quale ci vorrebbero spingere. Le nostre società devono diventare ancora più aperte. Siamo tutti fratelli e sorelle ospiti della stessa navicella e chiunque immagina di chiuderci in una lega è all’inizio del percorso di follia che ha portato il ragazzo norvegese a immaginare l’apocalisse.
Secondo: certi episodi succedono, con tutta evidenza, perché ci sono i media che li raccontano ed il premio per i pazzi interi (in questo mondo di mezzi pazzi, come avrebbe detto Dylan Dog) è il fatto di catturare il centro dei giornali per una settimana. Non è evidentemente possibile e non sarebbe giusto porre il silenziatore su una strage di queste proporzioni. È tuttavia fondamentale che se ne parli con sobrietà, dando spazio (porca miseria!) anche alla storia non meno tragica di tredici milioni di esseri umani – per la metà bambini- che stanno morendo di fame nel corno d’Africa in questi giorni.
Terzo: bisognerà rafforzare l’intelligence per prevenire il terrore utilizzando gli stessi strumenti (la rete) di cui si serve il male e, tuttavia, creando meccanismi di totale trasparenza e responsabilità nei confronti dei cittadini per le azioni di monitoraggio che la polizia decidesse di intraprendere. Non ha senso che sulle telecamere nelle città debba decidere, in un paese come l’Italia, l’authority sulla privacy perché una società può tranquillamente decidere di sacrificare un pezzo di riservatezza in cambio di minore vulnerabilità; ma non ha altresì senso che i segreti di stato durino decenni e che i magistrati che hanno abusato di certe possibilità non rispondano a nessuno!
Quarto: È necessario che l’attività di anti terrorismo avvenga su basi internazionali, con una integrazione degli apparati, almeno di quelli di paesi che si riconoscono reciprocamente democratici aprendo la strada anche ad una democrazia, ad una cittadinanza che superi i limiti dello stato nazione.
Siamo in viaggio tra un mondo antico che si sta dissolvendo ed uno nuovo che ancora non abbiamo inventato. Ma è un viaggio che coinvolge tutti. Il ragazzo che arriva nei campi delle nazioni unite in Kenya dopo un viaggio di settimane nei quali si è cibato solo di qualche patata. E i ragazzi che nella piccola isola norvegese hanno scoperto all’improvviso di doversi far scudo gli uni con gli altri. Forse è il caso di abbandonare in massa il nulla e ricominciare a pensare come se fossimo tutti parte dello stesso destino.
Clicca qui per leggere articolo integrale (http://www.visionblog.eu/francescogrillo/blog/articolo.asp?articolo=108)
© Riproduzione riservata
Leggi anche :
An attack on the world – di Francesco Grillo http://www.opendemocracy.net/conflict-terrorism/symbol_2668.jsp
From catastrophe to global governance?– di Francesco Grillo (http://www.opendemocracy.net/faith-globaljustice/article_140.jsp