E se l’uscita di Londra scuotesse l’Europa?
di Francesco Grillo
E se convenisse proprio a chi crede – davvero – nell’Europa che dal Regno Unito arrivi quella scossa di cui l’Europa ha bisogno? Per scuoterci dall’inerzia e non dare più per scontate certezze che si stanno sgretolando proprio per la nostra incapacità di concepire che il processo che ha portato all’Unione, possa cambiare direzione e portarci verso la sua disintegrazione?
La lettura dell’accordo strappato dal Premier inglese Cameron ai propri colleghi europei, lascia, in effetti, abbastanza allibiti. Romano Prodi che ha colto, da Presidente della Commissione, le ultime grandi vittorie del progetto federale (l’introduzione della moneta unica e l’allargamento ai Paesi dell’Est), confessava – ieri, da queste colonne – che non si capisce cosa, in quell’accordo, provoca la soddisfazione che tutti i ventisette leader, senza eccezione, hanno espresso tornando a casa (anche se, a dire il vero, mai è successo il contrario e, sempre, il sollievo inziale di aver finito una maratona negoziale si è trasformato, dopo qualche giorno, nel dubbio di aver fatto un ulteriore sbaglio).
Aggiungo, però, che, probabilmente, il non accordo riesce a fare del male a tutti. E che neanche Cameron abbia molto da festeggiare. Tra tanti furibondi scontri ideologici tra gli alleati della perfida Albione e gli europeisti tutti di un pezzo, sembrano essere, infatti, sfuggiti a quasi tutti i commentatori un paio di semplici numeri.
La maggiore concessione strappata dal Regno è stata, alla fine, la possibilità che uno Stato Membro congeli i sussidi di disoccupazione ai migranti venuti dagli altri Paesi dell’Unione per sette anni (nonché di commisurare eventuali assegni di assistenza destinati ai figli dei migranti al costo della vita prevalente nel Paese d’origine). Il punto è, però che i cittadini europei che chiedono benefici sociali nel Regno Unito sono stati – per il Department for Work and Pensions – circa 114 mila: il 3% dei 3 milioni e ottocentomila individui che ogni anno in Inghilterra fruiscono del sussidio. Peraltro, i migranti provenienti dall’Unione che vivono nel Regno sono quasi due milioni; tra di loro ci sono quasi la metà dei dirigenti che guidano le banche della City e dei docenti delle università più prestigiose, e meno del 6% di loro chiede assistenza, mentre la percentuale è quasi doppia per la popolazione locale. È su questa epocale battaglia che Cameron ha investito il suo futuro politico e i leader europei hanno concesso un doloroso accomodamento.
Per il resto nel testo c’è (quasi) nulla dopo tanto rumore. Il riconoscimento che l’idea costitutiva che l’Europa sia destinata ad una sempre maggiore integrazione non vale per il Regno Unito; come se questa fosse una novità, laddove per onestà intellettuale dovremmo cominciare a riconoscere che questa ineluttabilità non vale neppure per gli altri 27 Paesi che non riescono più a difendere neppure la libera circolazione. La concessione di un improbabile “freno a mano” che può essere tirato da un Paese che dell’area euro non fa parte, su decisioni che riguardano solo le nazioni dell’area EURO che pure dovrebbero aver diritto a decidere di un’unione monetaria già instabile, senza doversi preoccupare di chi non ne fa parte.
Due rassicurazioni assolutamente simboliche e una vittoria su un aspetto marginale hanno l’effetto controproducente di far perdere di vista una questione molto più grande perché l’Inghilterra (che, peraltro, probabilmente si troverebbe senza la Scozia se decidesse di abbandonare l’Europa) decide – attraverso il referendum – anche il ruolo che vuole avere nel mondo. Del resto, il sindaco di Londra Boris Johnson ci ha messo un solo giorno – dopo essersi conto che le decisioni del Consiglio Europeo assomigliano proprio a quei pasticci che rendono tanto indigesta l’Europa agli elettori britannici – per sciogliere le riserve e schierarsi con chi fa la campagna per l’uscita: una scelta che rischia di spezzare l’equilibrio finora assoluto tra i due schieramenti.
Non è, dunque, impossibile che a Giugno che l’Europa perda, per la prima volta, un pezzo. Peraltro assai importante, visto che si tratta dell’economia più dinamica del Continente e sede della maggiore piazza finanziaria del mondo. E non è neanche detto – lo dico da europeista convinto che all’Europa non ci sia alternativa, da persona che appartiene ad una generazione che sul sogno europeo è cresciuta – che un trauma simile non sia, a questo punto, salutare. Per tenere il Regno Unito nell’Unione, il premier britannico si era impegnato ad ottenerne una riforma: quello che lui e gli altri leader portano a casa sono solo eccezioni marginali pensate per rassicurare elettori spaventati.
Il punto è che, però, di riforme radicali hanno bisogno anche gli altri 450 milioni di cittadini europei. Procediamo per aggiustamenti come quello di venerdì scorso: di questo passo rischiamo di avere non più un’Europa a due (tre se contiamo anche Schengen) velocità, ma a velocità che tra di loro interferiscono portando l’intera macchina a fermarsi progressivamente.
Abbiamo bisogno di ministro unico che tassi e decida della spesa pubblica, come cominciano a riconoscere i tedeschi e i francesi. Ma anche – se non vogliamo continuare a girare attorno al problema – di una vera e propria democrazia europea senza la quale tradiremo quel principio elementare – non può esserci tassazione, se chi tassa non ci rappresenta – che furono proprio gli inglesi ad inventare; e che hanno intenzione di difendere anche a costo del “salto nel buio” che Cameron vuole evitare. Per riuscirci abbiamo, però, assoluto bisogno di uscire dall’inerzia di chi è convinto che tutto alla fine si aggiusta. Agli inglesi piace rendere chiari i termini dei problemi; è ora che anche noi europei riscopriamo questa virtù.
«Ma l’Europa non può perdere l’Italia», intervista a Gianni Pittella
«Ma l’Europa non può perdere l’Italia», la mia intervista con il Corriere della Sera
Da mesi Gianni Pittella, europarlamentare e presidente dei socialisti europei, ha il ruolo di mediatore tra Italia e Unione Europea e non ha mai smesso di credere che alla fine lo scontro potesse trovare soluzione.
Onorevole Pittella, dopo quanto accaduto ieri crede ancora che si troverà un accordo?
«Bisogna essere chiari: l’Europa non può permettersi di perdere l’Italia. Di fronte alla situazione esistente con la Gran Bretagna che rischia di andare via, la Spagna e il Portogallo in cerca di nuove strade, i Paesi dell’Est arroccati su posizioni di chiusura, noi diventiamo imprescindibili».
Visto come ci attaccano funzionari e politici è un po’ difficile da credere.
«Quando due grandi personalità come Matteo Renzi e Angela Merkel decidono di lavorare insieme, anche l’Europa comprende che di fronte a un asse così forte bisogna adeguarsi».
È davvero convinto che abbiano deciso di muoversi insieme?
«Non ho alcun dubbio. Dopo l’incontro di qualche giorno fa hanno dato un messaggio forte».
E allora come mai anche ieri l’Italia è diventata bersaglio della Commissione, con dichiarazioni accusatorie affidate a una funzionaria?
«Se parliamo di toni e dell’opportunità di affidare ai funzionari messaggi così forti, posso anche essere d’accordo: se fossi il presidente della Commissione eviterei certe esternazioni. Ma a me interessa stare sulla sostanza politica. E su questo sono più che tranquillo».
Ha parlato con Juncker?
«Lo faccio continuamente e posso assicurare che sia lui, sia gli altri leader europei hanno la consapevolezza che senza di noi l’Europa non va da nessuna parte. E questo li convince sulla necessità di dare presto risposte positive».
Vuol dire che accetteranno le nostre richieste sulla flessibilità?
«Non c’è un negoziato tra noi e l’Unione. Le regole generali dicono che la flessibilità va concessa quando ci sono le condizioni, non è una cortesia o un regalo».
E lei ritiene che per l’Italia ci siano le condizioni per ottenerla?
«Ne sono convinto e per questo dico che con l’Italia non ci sono trattative da fare. Soprattutto deve essere chiaro che non è scritto da nessuna parte il divieto a cumulare la flessibilità relativa a migranti, investimenti e riforme».
E Schengen? Il Trattato è ormai pronto per l’archivio?
«Assolutamente no, Schengen non si tocca».
Veramente numerosi Paesi hanno già deciso di sospenderlo.
«Non nego che ci sia molto da fare, ma ripristinare i controlli interni è una follia. L’unica strada è rafforzare quelli sui confini esterni. Italia e Grecia devono far funzionare gli hotspot, bisogna convincere gli Stati membri più riottosi ad accettare la redistribuzione. Ma la libera circolazione non è un tema sul quale si può tornare indietro».
Roberto Speranza a #Corrierelive: «Con Verdini non c’è più il Pd»
Tavola Rotonda: “L’Ambiente, le polveri sottili e la Provincia di Frosinone”, 15 gennaio 2016
Tavola Rotonda
“L’Ambiente, le polveri sottili e la Provincia di Frosinone”
Dalle polveri sottili all’indifferenza può nascere il confronto
15 Gennaio 2016- Ore 17.00
Coordina: Giuseppina Bonaviri, Rete La Fenice con Bonaviri
“Le attività di tutela dell’ambiente: lo stato dell’arte”.
Giuseppe Ricciardi- Ingegnere: “Densità di un corpo particellare costituito da elementi di diversa densità”
Fulvio Bongiorno, Matematico – Prof. Senior Università Roma Tre: “Fisica nell’atmosfera”
Mario Catullo – Fisico e Geologo, Direttore Scientifico Campagna di informazione ”Day-to-Day”, Campus sperimentale partecipativo Together: “Queste misteriose polveri”
Riziero Concetti- Chimico: “La Mal’aria che tira in provincia di Frosinone”
Francesco Raffa- Architetto, Coordinatore: “Dati record a Colleferro. Cosa fare in futuro per superare le criticità”
Ina Camilli – Rappresentante Comitato residenti Colleferro
Si ringrazia l’Artista Flora Rucco per l’esposizione pittorica a tema “Madrilegio”
Frosinone, Vicolo del Portone. Contatti : retelafenice@libero.it- Cell. 329 743 7557
Intervista ad Alessandra Clemente, assessore alle Politiche Giovanili, alla Creatività e all’Innovazione del Comune di Napoli
di Massimo Preziuso
– Ciao Alessandra. Partiamo dalla tua esperienza politica. Come sta andando?
Quando il nostro Sindaco, la notte del primo gennaio 2013, mi disse che aveva in animo la volontà di istituire un assessorato con esclusiva delega ai giovani, alla creatività e all’innovazione, per dare a noi ragazzi napoletani un peso e una cura più profonda nella “grammatica” della Giunta Comunale, e che pensava a me come guida, come se già il fatto di istituire un Assessorato di questa importanza non fosse straordinariamente innovativo, ricordo che oltre che quasi svenire sul divanetto sul quale colloquiavamo e ad avere paura, pensai al gran coraggio e alla libertà che erano sottintesi alla scelta di affidare questa responsabilità così grande, non con le parole, ma con i fatti, a una ragazza di 25 anni.
Quando abbiamo iniziato questa esperienza, Luigi ed io ci siamo dati tre obiettivi: non far perdere nessuna occasione di finanziamento ai giovani; costruire delle opportunità; far sì che gli interventi nel settore fossero realmente organizzati dai giovani per i giovani, purché competenti ed entusiasti.
Il 100% delle risorse è stato impegnato a favore di soggetti composti da under 35. Tutti selezionati sul merito attraverso procedure a evidenza pubblica. Abbiamo dato grande importanza a progetti in grado di produrre occupazione duratura e quindi sviluppo, puntando alla creazione di nuovi luoghi di aggregazione giovanile come la Casa della Cultura e dei Giovani a Pianura, il centro giovanile nel Polifunzionale di Soccavo, la valorizzazione della Galleria Principe di Napoli.
Oltre all’arricchimento culturale prodotto dai tanti eventi realizzati insieme, la cosa che più ci da soddisfazione è camminare per la città e riconoscere in ciascuna delle dieci Municipalità un’attività d’impresa giovane nata grazie al nostro piano di finanziamenti “Sviluppo Napoli” o andare in un centro per i giovani che prima non c’era e adesso c’è. Sono soddisfatta, sta andando bene. Le cose da fare sono ancora tante e in futuro l’impegno deve sempre essere massimo affinché le cose vadano andare ancora meglio.
– Napoli è oggi la città a più alto potenziale per l’avvio di quel rinascimento italiano, che leghi Sud, Centro e Nord Italia, proprio attraverso le sue rinnovate e dinamiche città intelligenti. Che ne pensi?
Certamente Napoli è la città a più alto potenziale per un “rinascimento” che riguardi tutta la Penisola. Le ragioni a questa mia risposta sono diverse, cercherò di elencare le più rilevanti in modo obiettivo.
Napoli, tra le metropoli italiane, è la più giovane. Sembrerà scontato ma i rinascimenti partono da questa parte di società. Se gli anziani, infatti, sono le nostre radici, capisaldi della nostra cultura, valori e tradizioni, i giovani sono la forza propulsiva che fa saltare schemi consolidati e fanno “ripartire” società sopite, ferme, statiche.
In secondo luogo, potrei apparire di parte, ma nessuna metropoli ha le nostre potenzialità in città e nei dintorni. Nessun area al mondo ha in pochi km milioni di abitanti che vivono tra bellezze artistiche, storiche e soprattutto naturali di Napoli, Pompei, Capri, Ischia, la Costiera Amalfitana, Sorrento ed il Vesuvio. Qui c’è tantissimo ancora da fare, ma è un dato di fatto che Partenope stia attraversando una fase di rilancio: Napoli è più visitata, più connessa con il resto d’Italia e con l’estero, più pulita, più socialmente e più culturalmente attiva nell’ultimo triennio, in poche parole Napoli è più viva!
Ancora, nonostante i mille ritardi di cui questo territorio soffre non per propri soli demeriti, Napoli rimane il capoluogo della sesta regione italiana per startup. Inoltre permangono leader mondiali realtà produttive e commerciali straordinarie penso al tessile Made in Naples, penso ai nostri artigiani, penso ad aziende di alta ingegneria poco note al grande pubblico come la K4A che da Ponticelli vende elicotteri in tutto il mondo ed ancora aziende leader nel web come il gruppo Ciaopeople di cui noi conosciamo soprattutto i rami d’azienda Fanpage o gli straordinari TheJackal e vi sono migliaia di esempi del genere.
Infine, Napoli è sede di realtà di ricerca straordinaria con CNR, Istituto Telethon, CEINGE, Città della Scienza, le nostre Università (Federico II, SUN, Parthenope, Suor Orsola Benincasa, l’Orientale) in cui si formano brillanti menti che partono alla conquista del mondo.
Il rilancio dell’Italia non può che partire da qui.
– Andando alla politica e alle prossime amministrative, non trovi che sia strano davvero che De Magistris e il PD non facciano un percorso comune nel segno della innovazione amministrativa che Luigi ha avviato e nella forte cultura del cambiamento che il PD di oggi ha ben radicata nel proprio DNA?
L’innovazione amministrativa e la forte cultura del cambiamento hanno fatto si che la città in piena emergenza rifiuti del 2011 oggi sia solo un cattivo ricordo. Finalmente le testate nazionali e da un po’ anche le testate internazionali raccontano un incredibile rilancio napoletano. Le presenze alberghiere, aereoportuali o gli arrivi via mare e via terra sono dati di fatto, così come lo sono anche i dati di Confcommercio. Napoli catalizza milioni di visitatori, fa partire la raccolta porta a porta, ha un’amministrazione vicina al cittadino. La Giunta è concentrata sulla città, nessuno si risparmia ed è straordinario ciò che questa amministrazione sta facendo grazie fortemente a Napoletani e non che qualificano il nostro lavoro. Tanto c’è da fare e tanto abbiamo da fare, imparando dagli errori e nutrendoci di motivazione.
Con il Partito Democratico c’è una distanza che purtroppo si è andata rafforzando nel corso dei 5 anni. Di anno in anno il Pd ha confermato di essere opposizione in Consiglio Comunale e il dibattito mi è parso più attento a personalismi e leadership che al lavoro che l’Amministrazione porta avanti.
Quella parte politica ha governato Napoli per 20 anni. Non mi piace avere preclusioni e penso davvero che se il Partito Democratico saprà dare un segnale di reale interesse verso i cittadini napoletani si potrà aprire un dialogo, ma al momento ci si muove su posizioni troppo diverse, accentuate anche dal doppio livello, nazionale e regionale del partito che appare interpretare in modo diverso i temi dell’innovazione e della cultura del cambiamento. La vera rivoluzione che questa amministrazione ha messo in campo è stata quella di diventare nei fatti un ente di prossimità, abolendo le distanze tra strada e “palazzo” e coinvolgendo nel governo energie giovani ed esperienze della società civile.
– Cosa ti piacerebbe vedere a Napoli nel 2020 e come ti ci vedi in quella città?
Nel 2020 Napoli dovrà essere una città tornata capitale culturale, commerciale e sociale del paese.
Una metropoli con un trend turistico impressionante, una città capace di riconvertire interi quartieri all’accoglienza di milioni di visitatori facendo invidia ad altre città italiane ed europee con migliaia di giovani e non attivi in questa “industria” che deve diventare la n.1 della città.
Napoli sarà una metropoli con decine di voli dalle città europee e treni superveloci verso Roma, Milano e speriamo anche verso la nostra terra sorella Puglia con l’alta velocità Napoli-Bari che avvicini il Tirreno all’Adriatico.
Il nostro porto merci ed il porto turistico devono ripuntare a posizioni di leadership mondiali.
Le nostre Università dovranno raddoppiare i propri studenti erasmus tutt’ora presenti puntando – grazie alle collaborazioni con i centri ricerca del territorio, nazionali ed internazionali – ad un incremento della qualità della formazione e della propria ricerca.
Napoli infliggerà colpi mortali alla camorra e le uniche “paranze” di bambini che conosceremo saranno quelli che giocano a pallone nella Villa Comunale.
Napoli dovrà aver completato la Linea1 della metropolitana e starà progettando una nuova metropolitana che la connetta ancora di più alle sue sterminate periferie. Secondigliano, Pianura, Barra, Bagnoli, Scampia o Soccavo saranno collegati quanto il Vomero o Montesanto al resto della metropoli.
Napoli dovrà essere una realtà da cui non si “parte” ma si “ritorna” o si “arriva” da tutto il Sud, Nord ed anche dall’estero per ragioni di lavoro: quelli che oggi sono bambini, saranno i nostri lavoratori.
Napoli sarà un punto di riferimento commerciale ed industriale per tutta l’Italia, la porta dell’Europa sul Mediterraneo e viceversa: il Made in Naples sarà sinonimo di qualità, bontà del cibo e simbolo di eleganza.
Napoli deve tornare ad essere capitale dell’accoglienza, dell’ospitalità e dell’inclusione sociale: nel DNA di Napoli c’è scritto “amore” aiutateci a mostrarlo al mondo!
Legge Stabilità 2016 – Le novità sulla #cultura
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Intervento di Mario Draghi a Prometeia40
#COP21 Video: Comprendre le réchauffement climatique en 4 minutes
ISIS: i conti in tasca della multinazionale del terrore e gli errori dell’Occidente
di Francesco Grillo
Chi finanzia la campagna globale del terrore che sembra aver paralizzato l’Occidente? Possono essere
sufficienti all’ISIS il milione e mezzo di dollari che, secondo il Financial Times, ogni giorno ricava dalla
vendita del petrolio estratto dai giacimenti siriani e da quelli di Mosul, per fronteggiare Paesi capaci di
spendere cento milioni di dollari su un singolo caccia di ultima generazione? Da dove arrivano le armi che
sono indispensabili non solo per difendere i confini e colpire i civili in territorio nemico, ma anche per
difendere i pozzi dai quali dipende la sopravvivenza del non Stato islamico? E, soprattutto, com’è possibile
che – dopo quasi due anni di un conflitto che qualcuno avvicina alla terza guerra mondiale – nessuno abbia,
più modestamente, pensato di sigillare il califfato nei suoi “confini”, utilizzando una frazione piccola del
potenziale distruttivo degli aerei che sorvolano la Siria per distruggere qualche centinaio di camion che
trasportano greggio ai nemici dell’ISIS rimasti senza carburante?
È, forse, sbagliato chiamare guerra (o addirittura guerra mondiale) questo conflitto asimmetrico che
oppone il non Stato Islamico dell’Iraq e del Levante contro il resto del mondo. E, tuttavia, se cadessimo
nell’errore attribuirgli i caratteri dei conflitti che spaccarono i continenti facendo centinaia di milioni di
morti facendo un grosso favore ai terroristi, l’Occidente la starebbe probabilmente perdendo questa
“guerra”. Per un motivo assai semplice: non conosciamo il nostro nemico, forse non conosciamo neppure
noi stessi e ciò – dice il famoso libro sull’ “arte della guerra” che da duemila e cinquecento anni ispira i
generali di tutto il mondo – aumenta di molto la possibilità di essere sconfitti.
In realtà – dopo aver sprecato torrenti di parole – noi, ancora, non conosciamo cosa davvero è l’ISIS. Non
abbiamo, ancora, capito – né nelle agenzie di intelligence e tantomeno come opinioni pubbliche – come è
possibile che un non Stato che secondo le stime della CIA conta circa trentuno mila combattenti – un
esercito più piccolo di quello che può schierare la pacifica Estonia – possa essere diventato il nostro
peggiore incubo.
I conti del conflitto, quelli senza i quali non si cantano messe e neppure si fanno guerre sante, in effetti, non
tornano. O, forse, come mi suggeriva un professore di economia dell’Università del Cairo, abituato alle
contabilità dei Suk mediorientali dove si commercia dai Kalashnikov al petrolio, non possono tornare.
I rapporti più completi sui bilanci dell’ISIS (incluso quello dell’americana RAND) dicono che, di gran lunga,
l’entrata più importante sono quelle che vengono dai pozzi che i terroristi neri hanno considerato obiettivo
immediato sin dall’inizio. È considerato un miracolo logistico che riescono ad estrarre e a trasportare il
greggio oltre il fronte sotto le bombe; ed è un paradosso – uno dei tanti che caratterizzando le guerre
moderne – che lo vendono ai loro stessi nemici che ne hanno bisogno per mettere benzina ai tank che il
giorno dopo vengono lanciati contro il califfato. Trentamila barili sembrano però davvero pochi (meno di
quello che produce la Basilicata) per poter controllare un territorio che ospita sei milioni di abitanti e
provare ad espanderlo. Marginali rispetto ai bisogni dell’apocalisse appaiono, inoltre, gli introiti delle opere
d’arte (che i fanatici preferiscono distruggere) e dei ricatti degli ostaggi (che i terroristi spesso decapitano).
Per quanto riguarda le armi, poi, è fantasiosa l’idea di predatori che, come in un medioevo romantico,
provvedono al proprio fabbisogno militare rubando kalashnikov e elicotteri lasciati dal nemico che si
arrende. Una campagna come quella lanciata dall’ISIS ha bisogno di campi di addestramento, di
manutenzione, di batterie anti aeree sofisticate che non sembrano, assolutamente, alla portata di alcune
decine o anche centinaia di migliaia di tagliagole lanciati alla conquista del mondo.
Ha ragione Hillary Clinton quando afferma che l’ISIS è, in parte, la conseguenza di scelte sbagliate dello
stesso Occidente e una parte del mistero dell’ISIS non può che essere nei comportamenti non lineari di
alcuni degli alleati storici di Europa e Stati Uniti.
Se nessuno ha mai dimostrato che Arabia Saudita e Qatar abbiano finanziato direttamente il nemico che i
propri jet stanno bombardando, è quasi certo che le charities dei Paesi del Golfo abbiano contribuito allo
start up dell’ISIS. Del resto, il Paese nel quale milioni di peregrini si recano ogni anno per rendere omaggio
alla Mecca è, ancora, quello che più di qualsiasi altro si avvicina alla realizzazione terrena dell’ideale degli
integralisti: una monarchia assoluta dove i ladri sono puniti con l’amputazione della mano come nei
territori conquistati in Siria e la decapitazione è punizione contemplata dallo Stato.
Meno plausibile è far quadrare i conti del terrore, provando a introdurre, come vorrebbe Putin,
nell’equazione l’aiuto che verrebbe dalla Turchia. Sul piano antropologico, Erdogan assomiglia di più ai
satrapi come Assad o Hussein che non a questi giovani con la barba e pochi dubbi.
Seguendo, poi, la scia che lasciano inesorabilmente i soldi, rimane l’ipotesi più banale e scandalosa: quella
che a finanziare questa e mille altre tensioni, sia – mai in maniera trasparente – l’unico settore produttivo
che ne trae un diretto vantaggio: ai margini della cronaca di queste settimane c’è il rilancio dei programma
di acquisto di F35 e di protezione dei sommergibili nucleari che vale alcune decine di miliardi di sterline e
che è anche in risposta agli eventi di Parigi. Anche se è evidente che voler rispondere ai terroristi con i
caccia di ultima generazione equivale a voler sterminare una zanzara con un bazooka.
Infine c’è un ultimo paradosso: i numeri dicono che stiamo ingigantendo l’ISIS e i suoi alleati proprio mentre
essi stanno perdendo l’aria che li ha gonfiati. Un anno e mezzo fa, quando la Jihad conquistava Mosul, un
barile di greggio veniva scambiato alla borsa di Londra a circa 105 dollari; oggi siamo poco al di sopra dei
40. Ciò dovrebbe segnare l’inizio della fine non solo dei terroristi, ma anche di molti dei protagonisti che –
nel Medio Oriente – oscillano tra alleanze opposte solo per fare soldi.
In questo contesto, un blocco che impedisse preventivamente l’arrivo anche solo di un bullone agli Stati (e
ai non Stati) “canaglia” costerebbe molto di meno di una Guerra postuma. Ma all’Occidente, aldilà delle
dichiarazioni retoriche, manca una strategia e, soprattutto, una vera coalizione delle volontà per uscire
dalla paralisi e voltare pagina. La sfida è che per riuscirci dovrebbe, innanzitutto, fare i conti con un modello
di sviluppo che è superato dalle tecnologie e dalla storia, ma protetto da interessi e da un’inerzia che fa
parte dell’Occidente stesso.