Innovatori Europei

Significativamente Oltre

R-innovamenti politici dalle associazioni

di Massimo Preziuso su L’Unità

La situazione politica è alquanto strana, come al solito, in Italia.

Basta leggere il botta e risposta di pochi minuti fa su Twitter tra la senatrice Finocchiaro (che dice “vogliamo che gli elettori scelgano gli eletti, ma non vogliamo le preferenze”) e il leader Casini (che risponde “ma senza preferenze, con l’uninominale, i cittadini non scelgono nulla”) – laddove la riforma elettorale è l’unico eventuale goal che gli italiani possono fare con questo Governo tecnico, fatto solo di austerità, tagli e nuove tasse – per capire che siamo messi male davvero.

E’ chiaro che i Partiti tutti sono immobilizzati nelle solite logiche di dibattito interno sulla direzione da prendere.

E in questo immobilismo stanno tralasciando completamente le esigenze di noi cittadini, nel nome dello “spread” (è sempre di pochi minuti fa la reazione fuori dai canoni del premier Monti alla critica, da me condivisa a pieno, del presidente confindustriale Squinzi sull’operato del primo, che dice “in questo modo, facciamo crescere lo spread”) e dei mercati finanziari.

Tra le necessità, le principali sono due: il lavoro e la riforma elettorale appunto.

Sul tema lavoro, mentre migliaia di lavoratori ogni settimana vengono “dismessi” da aziende che molte volte approfittano della crisi per dichiararsi “fallite” e chiedere l’intervento dello Stato, il governo e la politica non si rendono conto della necessità di interventi globali, possibilmente di natura europea, come i “sussidi alla disoccupazione” accompagnati ai “contratti di solidarietà” (di cui abbiamo discusso sin dal 2009 in Innovatori Europei), prima che il calo dei consumi e della produzione ci porti a breve in una spirale irreversibile di recessione economica e crisi sociale.

Sulla riforma elettorale, mentre il governo tecnico va avanti come un treno (solamente) nell’abbassare standard di vita raggiunti in Italia in almeno 50 anni, iniziando pure a mandare sul mercato i primi (ma non ultimi) importanti pezzi di patrimonio pubblico, con i partiti politici (in questo caso) ”distratti” dalla gestione di proprie complessità interne, i cittadini rischiano di dover votare di nuovo molti di quei politici che dovrebbero tornare a vita privata, non avendo raggiunto nemmeno minimamente i propri obiettivi di public servants.

Come ci siamo detti già nei mesi scorsi è proprio tempo di r-innovamenti politici, nei partiti e nelle associazioni.

Ma è soprattutto da queste ultime che deve arrivare nuova linfa verso le istituzioni e la società tutta.

E’ arrivato il momento che vari pezzi dell’associazionismo di settore – che in molti casi condividono radici, percorsi e finalità – la smettono di viaggiare in solitario e si uniscano per fare goal condivisi, per il bene del futuro prossimo del Bel Paese.

Non è più possibile stare a guardare la politica e le istituzioni auto riformarsi.

E’ un dovere per tutti partecipare, con i propri limitati mezzi e le proprie capacità, alle prossime elezioni politiche.

Con o senza (molto più probabile) il permesso dei partiti politici.

Questo il mio augurio per il nostro Paese.

La leggenda di Super Mario

di Francesco Grillo (su Il Mattino del 3 Luglio)

Negli ultimi fantastici giorni vissuti tra Varsavia e Brussels, tra gli italiani si deve essere diffusa una strana leggenda: quella di uno, anzi due, forse tre Fratelli Super Mario (Monti, Ballottelli e probabilmente Draghi) che proprio come nel famoso gioco della Nintendo avrebbero salvato, ancora una volta, il Paese che più di qualsiasi altro e’ specializzato a sfornare miracoli dell’ultima ora. Un paese vecchio, depresso, che da tempo perde la parte migliore delle sue generazioni piu’ giovani, da un anno sull’orlo di un vero e proprio fallimento e che da venti non riesce più a crescere. Una specie di bella addormentata che però trova sempre un eroe buono disposto a caricarsela sulle spalle e tirarla fuori dalla acque limacciose che rischiano costantemente di farla affogare.

E’ stato proprio Prandelli, uno dei personaggi più positivo degli Europei, a dire quanto la favola – perfettamente riuscita sei anni fa a Berlino – del trionfo costruito sula disperazione sarebbe stata controproducente:“la vittoria avrebbe fatto perdere l’equilibrio a tanti” – ha ricordato il nostro Commissario Tecnico – perché “per cambiare c’e’ bisogno di molto tempo” e solo quando “ci saremo riusciti, saremo pronti per rivincere subito dopo un risultato positivo, senza alternare picchi e periodi bui”.

Deve essere per questo motivo, per poter continuare il Progetto che Prandelli ha deciso di rimanere proprio dopo aver perso. E quello che dice l’allenatore italiano vale non solo per il calcio. Anche per l’economia e la società italiana la logica è la stessa: un paese fermo per vent’anni, avrà bisogno dei prossimi venti per fare i conti con un passato ingombrante e trovare una prospettiva di crescita duratura.

La Nazionale “ha, in effetti, provato a cambiare in un Paese vecchio”. E se e’ vero che l’età media dell’Italia era ancora più alta di quella fatta registrare in media dalle altre nazionali, è altrettanto vero che, rispetto al Mondiale del Sud Africa, la squadra è ringiovanita di quasi due anni e che  in termini di numero medio di presenze (ventotto) nella squadra nazionale prima del torneo, i giocatori azzurri erano quelli che erano cambiati di più subito dopo la Polonia e la Francia.

Tuttavia, è altrettanto vero che non basta rinnovare i vertici, i punti più visibili di un movimento o di un Paese per modificare quella società in profondità: e così come a Prandelli non possono bastare le buone intenzioni se le squadre di club non gli consentono di allenare con sufficiente continuita’ gli azzurri, a Mario Monti non può bastare la credibilità internazionale se, contemporaneamente, a casa, la montagna della revisione del rapporto complessivo tra lo Stato e i cittadini è costretta a partorire il topolino di cinque miliardi di Euro che neppure vedra’ mai la luce per l’opposizione pre giudiziale dei sindacati e della Camusso.

Non basta Mario Ballottelli che diventa insieme la bandiera dei giovani e degli immigrati che tanto possono dare ad un Paese che non ha più fame. Non basta se dalle pubbliche amministrazioni italiane continua ad essere escluso per legge (a differenza degli altri Paesi) chi non è cittadino italiano, laddove in alcune aree – ad esempio la stessa polizia di stato – ce ne sarebbe bisogno vitale per poter avere le competenze linguistiche e le conoscenze per affrontare fenomeni nuovi. E non basta che un ventunenne diventi simbolo di un’Italia vincente, se nel frattempo l’approccio puramente contabile alla trasformazione della macchina statale ha prodotto solo un lento e inesorabile invecchiamento che ha, di fatto, pietrificato universita’, ospedali, ministeri, magistrature, organi istituzionali di uno Stato che vive ormai solo per sopravvivere a se stesso. Non basta anche perche’ Mario e’ anche il simbolo involontario di tanti giovani talenti italiani che sono scappati dal nostro Paese e che non vedono le condizioni per poter tornare.

Non basta una vittoria del cuore anche se puo’ costituire la premessa per la riscossa. Non basta un accordo tra capi di governo – quello di Brussels della settimana scorsa e’ peraltro ancora quasi totalmente da riempire di contenuti – e non basta da solo neppure lo scudo anti spread, anche se puo’ essere utile per comprare tempo laddove un governo in difficolta’ dimostrasse alla Commissione Europea di fare veramente autocritica. E non esiste, infine, un bottone magico premendo il quale otteniamo la crescita anche perché la leva degli investimenti pubblici per far ripartire l’economia dovra’ essere usata in maniera molto limitata e selettiva.

Quello che dobbiamo davvero realizzare per ottenere una crescita sostenibile, intelligente, inclusiva come chiede il documento conclusivo del vertice della settimana scorsa, e’ un enorme trasferimento di risorse tra sprechi e rendite di posizione a generazioni e gruppi sociali che avrebbero i mezzi per creare ricchezza ma che sono stati assurdamente penalizzati per decenni. Dobbiamo avere meno avvocati, meno notai, meno amministratori di patrimoni che essi stessi senza cambiamenti sono destinati a ridursi progressivamente; meno lobbies che ferocemente litigano per conservare la propria fetta di una torta che sta scomparendo. E molti piu’ innovatori veri, disposti a rischiare per il proprio talento e che, prima di tutto, possano essere messi in grado di utilizzare la propria inventiva.

Un cambiamento di mentalita’ ed una riallocazione di priorità così massiccia richiede di più dello sforzo di un governo o di una squadra; qualcosa di diverso dei “sacrifici per uscire dalla crisi” che continuano ad essere centrali nella retorica del presidente del consiglio italiano. Esse richiedono una trasformazione che non può che coinvolgere una parte grande della opinione pubblica ed, in particolar modo, delle “classi” (giovani, donne, immigrati) che dal cambiamento sarebbero beneficiati; riforme che non possono vivere senza il supporto dei cittadini che decidano di spegnera la televisione e scendere in campo per difenderne le ragioni; richiede un’autocritica di milioni di italiani che dallo status quo sono stati beneficiati per molto tempo e che da quei privilegi rischiano essi stessi di essere travolti; e, anche, sacrifici che pero’ non possono essere uguali per tutti perche’, per definizione, se dobbiamo ripartire dovremo farlo con chi da questa crisi otterra’ il riconoscimento – atteso da tanto tempo – del proprio valore.

 

 

Seconda lettera al sindaco di Frosinone

Verso una democrazia partecipativa

La Rete Indipendente “ Nuove Idee nei territori” ritiene urgente ed auspicabile, all’interno della Amministrazione comunale di Frosinone, proporre l’istituzione a costo zero di un tavolo di lavoro per l’organizzazione di un modello di democrazia, quello del governo partecipato, responsabile e condiviso e di un Garante ai “Beni Comuni e alla Partecipazione”.

Si propone contemporaneamente una riflessione che, rispondendo ai principi di trasparenza e integrità, previsti dalla normativa vigente per tutte le pubbliche amministrazioni istituisca referendum abrogativi e propositivi senza quorum soprattutto per le opere di interesse pubblico e dai costi sociali particolarmente rilevanti quale risposta ad un percorso di consultazione nel pubblico dibattito.

Proponiamo altresì l’adozione dello schema operativo di Agenda 21 locale che può diventare un modo di operare strategico a medio e lungo termine essendo modello partecipativo, democratico, antidogmatico e consapevole responsabilizzante tutti i soggetti partecipanti al dibattito sulla cosa pubblica. Inoltre, attenendosi al principio di legalità nella gestione delle amministrazioni, appare determinante che nei contratti pubblici sia abolito il criterio del “massimo ribasso” e venga istituita una commissione comunale, sempre a costo zero, per l’attuazione di un sistema tale da controllare in automatico eventuali infiltrazioni malavitose mediante verifiche incrociate dei dati su appalti, licenze, redditi, anagrafe. Sarà fondamentale, per evitare sprechi, implementate sia la formazione che l’aggiornamento dei dipendenti comunali così da ridurre al minimo le consulenze esterne.

 

Certi di trovare adeguata risposta alla suddetta proposta la Rete si rende disponibile ad una collaborazione, su un concetto chiave di gratuità assoluta, perché il percorso individuato sia fattibile ed in linea con una idea di innovazione dei Governi locali.

Giuseppina Bonaviri

Rete Indipendente “Nuove Idee nei territori”

Pd/ Un intreccio complicato di tesoreria, affari, e di discutibile senso di responsabilità

di Pierluigi Sorti

Mentre scriviamo, come radio e televisioni informano, sono contemporaneamente in corso la deposizione formale ai magistrati inquirenti, dell’ ex senatore Luigi Lusi,  e le allocuzioni, in due differenti convegni, di due presumibili contendenti alle primarie del centro sinistra, se ci saranno, che dovranno determinare il candidato premier del centro sinistra : Pier Luigi Bersani, a Roma,  e Matteo Renzi, a Firenze.

Non risulta che i due esponenti del Pd abbiano ritenuto di far cenno al concomitante evento dell’ avvio formale di una azione giudiziaria che mette in discussione la legittimità di gran parte dei gruppi dirigenti del Pd di cui,  specificamente Bersani ( ex Ds ) , come segretario, e Rosi Bindi ( come presidente del partito ), dovrebbero essere, ma non sono,  in massimo grado consapevoli.

Eppure dovrebbe essere evidente il declino del loro credito politico serpeggiante nelle fila degli iscritti al Pd  e, ancor più,  degli elettori del centro sinistra, in rapporto ai loro comportamenti nel caso Lusi e di quello altrettanto non commendevole del consigliere regionale Penati.

Nel quadro della acclarata gravità del caso Lusi e del caso Penati, emerge  chiarissima la profonda insensibilità politica che sta alla base della legge istitutiva degli oltremodo cospicui rimborsi, solidalmente con  tutti i partiti, e la violenza ( non solo lessicale, on. Rosi Bindi ) con cui è stato fatto strame del referendum abrogativo di ogni forma di finanziamento pubblico, approvato da quasi trenta milioni  di elettori.

E’ doveroso dare eticamente credito alla parola di Bersani , non dichiaratosi informato delle super disinvolte operazioni amministrative del capo della sua segreteria politica, Penati, nella sua veste di presidente della Provincia di Milano,

Ma è altresì doveroso sottolineare che, proprio sotto tale rispetto, egli abbia evidenziato, una profonda incapacità di conoscenza psicologica e di sagacia selettiva degli uomini di cui aveva scelto di avvalersi.

Vi è una responsabilità “in vigilando” che, per un uomo politico, deve ritenersi altrettanto importante della su stessa onestà personale.

Chi non ricorda le dimissioni immediate del presidente tedesco Willy Brandt appena reso edotto che uno degli uomini della sua segreteria era indagato come sospettabile di spionaggio ?

La lunga estate del 63

di Michele Mezza (su Mediasenzamediatori.org)

Nel 1963 l’Italia vince a mani basse tutti i principali festival del cinema in Europa: a Cannes con il Gattopardo di Luchino Visconti, a Venezia con Le mani sulla città di Francesco Rosi, e a Mosca con 81/2 di Federico Fellino, che l’anno dopo sbancherà a Los Angeles la notte degli oscar.

Qualche mese dopo un’altra raffica di capolavori: Deserto Rosso di Antonioni,Prima della Rivoluzione di Bernardo Bertolucci,I Pugni in Tasca di Bellocchio, Giulietta degli Spiriti ancora di Fellini.
La Tv di Bernabei si trovava a dover trasmettere pezzi di inedita letteratura televisiva , dopo i Giacobini, Il Mulino del Po di Sandro Bolchi, Delitto e Castigo di Anton Giulio Majano, Mastro don Gesualdo di Vaccari,I Miserabili ancora di Bolchi. Mentre Jannacci e De Andrè anticipano il 68 con la poetica in musica dei giovani metropolitani.

Che Italia era quella che stava dietro a quel Rinascimento culturale? l’Italia della lambretta, dei cappottoni con i revert lunghi, l’Italia delle ondate migratorie, dei terroni che invadevano il nord, dove ancora un terzo delle case non aveva contemporaneamente acqua, luce, telefono e servizi .
L’Italia della DC, con il pallido centro sinistra senza riforme e un PCI che si interrogava su come stare in occidente. Eppure quell’Italia fece sognare , perchè sognava essa stessa.
Sognava lo sviluppo, sognava l’abbondanza, sognava la felicità. E sognava la fabbrica. Era l’Italia che prendeva confidenza con la fabbrica, la viveva, la possedeva, la combatteva, ma la amava.

A Milano, Torino, Genova migliaia di ragazzotti di campagna, con le magliette a strisce,si immergevano nei reparti meccanizzati, si spalmavano lungo le catene di montaggio. E trovavano straordinari maestri di vita, quadri sindacali o di partito, che li aiutavano a stare con la schiena dritta: o si cambia la fabbrica, o si cambia la fabbrica.
E la fabbrica cambiò: dalle pause fisiologiche, prima vietate, al diritto ad andare al gabinetto, a riposarsi ogni due ore;da una settimana di ferie degli operai fino ad un mese, dalle gabbie salariali all’eguaglianza, dalla differenza fra uomo e donna alla giustizia. Il tutto in pochi anni. E poi ancora avanti: cosa c’è scritto nei bilanci? come si organizza la produzione? come si cambiano gli orari? come si ridisegna la catena? Borletti, Brada, Italcantieri, Fiat, Olivetti.La sinistra si fermò a pensare il nuovo. I socialisti giocarono la partita del governo, da soli. I comunisti, in un leggendario convegno dell’Istituto Gramsci del 1962,cominciarono, per la prima ed ultima volta, a riflettere sul dopo fabbrica, guardando ad ovest e non ad est.

.C’era anche il sogno del futuro: i primi computer italiani, primi nel mondo per dimensione e potenza, proprio all’Olivetti; la prima strategia di condivisione del Petrolio, con l’ENI di Mattei; l’assalto civile all’atomo, con il CNEL di Ippolito. Il paese si trovava, quasi inconsapevolmente al vertice di settori decisivi. E poi la grande scena : il Concilio vaticano secondo, il Papa Buono, tutti gli occhi del mondo l’11 ottobre del 1962 su quella magica Piazza S. Pietro, in quella notte romana con la Luna più grande del mondo e Giovanni XXIII che dice: anche la Luna si è fermata ad ascoltare il Papa: quando tornerete a casa, vedrete i vostri bambini, date loro una carezza e ditegli è la carezza del Papa”.

Ci trovammo in testa. Troppo in testa. Qualcuno non volle e da allora stiamo rotolando in coda. Via l’Olivetti, via Mattei, via il CNEL, via le imprese, la morte del papa Buono, e quella di Kennedy a Dallas. La congiuntura internazionale ci voltava le spalle.
Ma non solo.

L’Italia smise di sognare, perchè smise di progettare. La fabbrica non fu più un laboratorio ma un ghetto: non si poteva superarla ma solo conquistarla. Le nuove forme di vita- i nuovi consumi, l’individualizzazione, le prime tecniche computerizzate,l’ambizione alla competitività,uno stato ordinatore e non pasticcione- furono esorcizzate dietro ideologismi come la centralità operaia e la spesa pubblica.

Oggi , dopo 50 anni da quella stagione ci voltiamo e sappiamo solo nutrire una bolsa nostalgia o asserragliarci dietro la più qualunquistica delle considerazioni: non ci sono più quegli italiani.

Quegli Italiani non erano granchè. Avevano alle spalle solo un paese che , come dice Bourdieu guardava al futuro con i piedi ben saldi nel presente: controllava il modo di produrre e interferiva sulle forme dell’innovazione. Era questo il mulino che macinava la nuova cultura: dal conflitto alla Borletti, o alla Breda, dalle nuove figure metropolitane, dalle ambizioni dei giovani universitari, nascevano Fellini, Visconti, Antonioni. oggi abbiamo le primarie, o l’articolo 18, mentre il mondo si gioca sui nuovi algoritmi e la gestione delle forme di memoria condivisa.

Il governo tecnico è un patetico velo che copre il vuoto di conflitto reale che c’è nel paese. La strada sarà lunga, ma di lì dovremmo passare: o si riprende a sognare nella fabbrica del nostro tempo o non si va più a cinema, e fra poco nemmeno si vedrà la TV.

 

I cambiamenti non avvengono da soli, si provocano

di Giuseppina Bonaviri

L’informazione e la libertà di pensiero

Da un punto di vista sociale non bastano le semplici elezioni amministrative o politiche per pensare che cambiamento e trasformazione culturale avvengano di conseguenza: il futuro lo si crea risvegliando l’identità di cittadino in ciascuno di noi, ogni giorno nell’azione, e prendendo in considerazione il risultato dell’agire individuale nell’interesse collettivo. Questo significa operare moralmente. In questa direzione è prioritario da subito parlare di informazione che fonte di stimolo, se liberamente esercitata, può pianificare innovazione.

Si è creato, nell’ attuale, un meccanismo – che riguarda una intera generazione di operatori dell’informazione- il cui obiettivo non è quello di far circolare una merce di buona ed alta qualità tra i lettori ma di fornire un buon servizio alla parte politica che pilota il finanziamento. Servendo il padre-padrone della pubblicità subito dopo quello politico l’informazione scade di contenuto e “degenera in rappresentazione acritica e compiaciuta del vizio”. Il concetto di libertà di parola viene garantito dalle stesse leggi che proteggono la libertà di stampa e non dall’indulgenza verso se stessi. Gli operatori della informazione  non appaiono interessati se non che a difendere se stesso e a demolire colui che è ritenuto avversario. Così facendo la circolarità della informazione viene imbavagliata e degenera apparendo come l’altra faccia di quel potere forte ed occulto privo di deontologia.

A chi interessa la cultura, la libertà, i principi, il destino della buona prassi e da dove passerà l’informazione dei movimenti indipendenti, sociali, civici, di democrazia partecipativa che attualmente lottano per la propria autodeterminazione, protagonisti di battaglie e mobilitazioni significative, ignorati persino da quei media che si dicono progressisti? Tutto rimane rigidamente controllato. Complici di operare lo smantellamento della libera informazione sono, allora, anche i media.

Un’opera di “desertificazione”, quella che viviamo, del panorama informativo locale e nazionale assai più pericolosa e limitante se inserita nell’attuale contesto sociale in pieno regresso culturale e ideologico dove, nonostante tutto, dobbiamo continuare ad operare.

Invece mettere coraggiosamente al centro la valorizzazione e la circolarità di quanto si muove nella società per accorgersi di quale sia la varietà e la forza di un panorama sempre più ampio di soggetti ed azioni  in campo questo appare l’obiettivo prioritario del cambiamento di una epoca.

Rete indipendente “Nuove idee nei territori”

Grecia, Germania e le ragioni della Merkel

di Francesco Grillo

L’immagine è quella  della “donna sola al comando”: il politico più potente appare circondato da tutti i lati e sul punto di cedere alle argomentazioni degli assedianti, alle pressioni di tutte le più importanti famiglie politiche europee e di quasi tutti gli opinionisti. E la sua immagine appare speculare a quella della Germania, forte e antipatica, in economia come nel calcio, anche se sono convinto che sono proprio i Greci e i Tedeschi a vedere la partita di stasera solo come una grande partita di calcio.
Tuttavia in questa Europa – mai come adesso caratterizzata dalla mancanza di leader – la Merkel è l’unica che mostra di avere dei precisi punti di riferimento nella tempesta perfetta che stiamo attraversando. E seè vero che su alcune questioni il governo tedesco sembra troppo rigido, su altre fa bene a mantenere la sua inflessibilità.
Angela ha fatto, in realtà, e continua a fare almeno tre gravi errori, anche se nel commetterli si ritrova in compagnia di quasi tutti i suoi detrattori. Il primo è quello di continuare ad invocare l’Unione Fiscale come l’unica possibile soluzione strutturale al problema. È vero che una moneta unica alla quale non corrisponde una unione politica non è sostenibile,  ed era questo il calcolo che – sin dall’inizio – Jaques Delors con grande intelligenza e passione fece per creare il presupposto che prima o poi avrebbe fatto fare all’Unione il salto di qualità. Tuttavia a sua volta l’Unione politica richiede la creazione di opinioni pubbliche europee e su questo fronte vent’anni sono stati letteralmente buttati via. Come si fa ad immaginare che sulle nostre tasse e su quanto si possa spendere in servizi pubblici possa, da domani, decidere qualcuno di cui non conosciamo neppure il nome? Il secondo errore che fa la Merkel è quello di pensare che i comportamenti sbagliati degli Stati possano essere corretti attraverso sanzioni a carico di tutti i cittadini. Questa è la previsione esplicita del Fiscal Compact, già presente nei regolamenti del Patto di Stabilità. Ed è quello che è stato fatto con la Grecia. Alcune delle misure imposte – in cambio di soldi – sono apparse francamente punitive ed inutili, perché voler curare un raffreddore mettendo il malato fuori al balcone rischia solo di farlo morire. Per ultimo, l’errore di considerare l’Euro un dogma assoluto. I matrimoni – per essere sostenibili – devono prevedere meccanismi di divorzio che siano meno traumatici possibili. Ed invece l’Euro continua ad essere concepito come un vincolo rigido, uno di quelli che – lo insegna la fisica degli oggetti – sono destinati a rompersi rovinosamente, uno di quei sogni destinati a trasformarsi in incubi.
Ha ragione, però, la Merkel su altri tre aspetti e hanno torto i suoi ridicoli “assedianti”. Ha ragione quando rifiuta la soluzione finanziaria a problemi che sono strutturali: far prendere a tutti un antibiotico quando dovremmo riflettere e correggere comportamenti che continuano a debilitarci. In un contesto di inflazione relativamente bassa e di cambi relativamente favorevoli, basterebbe ordinare alla Banca Centrale Europea di battere moneta in quantità sufficiente per ricomprarsi tutto il debito pubblico sottraendolo al fastidioso giudizio dei mercati.  Questo significherebbe perdere, però, la possibilità straordinaria che questa crisi offre per cambiare. Cambiare profondamente. Affrontare i privilegi immotivati, le corporazioni che già tempo prima della crisi avevano tolto al Paese Italia qualsiasi possibilità di crescere e innovare. Hanno torto, poi, tutti gli altri a invocare – fuori dal fortino di Berlino – la crescita come se fosse un pulsante che qualcuno può, ad un certo punto, decidere di premere per far ripartire un’economia. Hanno torto a immaginare grandi programmi di spesa pubblica keynesiana, come se – e sono sicuro che Keynes stesso ce lo farebbe notare se fosse in vita – fossimo ancora in un contesto di spesa pubblica sul PIL del 20% e di economie relativamente chiuse (come per la crisi di cento anni fa). E Ed è altrettanto sbagliato ridurre la maggiore capacità di crescere della Germania alla possibilità di doversi confrontare con concorrenti che, da quando l’Euro è stato introdotto, non hanno più l’arma della svalutazione per proteggere la propria competitività. In realtà le opportunità si devono saper cogliere: la Germania vi è riuscita straordinariamente bene visto che è la prima potenza economica mondiale per volume di esportazioni, davanti agli Stati Uniti e la Cina, ed esporta di più dell’Italia, della Francia e della Spagna messi insieme; altri paesi che, come il nostro, pure dall’Euro hanno avuto lo straordinario vantaggio di tassi d’interesse bassi che avrebbero potuto favorire gli investimenti necessari per poter modernizzare la propria economia, le hanno completamente sprecate. Ha ragione, infine, Angela   a ritenere irricevibile la proposta di un’unificazione dei debiti pubblici, non solo perché non è giusto che il debito accumulato dall’Italia (anche per pagare i prepensionamenti ai pilotidell’Alitalia) debba essere pagato dai contribuenti tedeschi, ma soprattutto perché da una soluzione “tarallucci e vino” di questo tipo verrebbero penalizzati i giovani, le donne, gli immigrati italiani: chiunque ha continuato caparbiamente ad investire su se stesso e sulla propria squadra, in un paese che aveva e continua ad avere attenzione solo per gruppi di potere sempre più ripiegati su se stessi e fuori dalla storia.
Alcuni dei dogmi dei tedeschi sono certamente da mettere in discussione, usando un po’ di pragmatismo e la volontà di salvare quel grande sogno che è l’Europa. E tuttavia la “ragazza” nata nella Germania dell’Est ha ragione soprattutto a porre una questione morale. Una questione  che è forse quella che le deriva dal suo far parte integrante di una cultura protestante, che sul significato specifico della parola perdono ha costruito la separazione rispetto alla cultura cattolica: non si può uccidere il malato; ma non si può permettere al furbo di comprarsi una facile assoluzione. La crisi è certamente una grande opportunità di cambiamento profondo di comportamenti, di modelli economici, di modalità di stare insieme, di spostamento di risorse tra ceti improduttivi e chi – giovani, immigrati, donne – ha gli strumenti per poter generare valore per tutti. Forse la Merkel non è un leader grande come il suo maestro Kohl, però di lei e della sua inflessibilità hanno bisogno tutti quelli che vogliono liberare l’Europa dalla giungla di privilegi e protezioni che stanno compromettendo quel patto tra cittadini e Stato che era stato costruito attraversando  guerre mondiali e rivoluzioni.

Rio 20 anni dopo

di Giuseppe Ciarlero (pubblicato su Gli Euros)

Dal 1972 a oggi i governi di tutto il mondo hanno organizzato eventi al fine di migliorare le condizioni dell’ambiente in cui viviamo aumentando la consapevolezza che il pianeta sul quale viviamo è l’unico che abbiamo e che le risorse a nostra disposizione sono limitate.

I leader mondiali hanno sottoscritto nel corso delle precedenti conferenze delle Nazioni Unite alcune importanti dichiarazioni sullo sviluppo sostenibile : la Dichiarazione di Stoccolma (1972), la Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo (1992), la Dichiarazione di Johannesburg (2002), e hanno adottato alcuni importanti documenti programmatici : l’Agenda 21 di Rio de Janeiro (1992) e Il Piano d’azione di Johannesburg (2002).

Sviluppo sostenibile : questo sconosciuto

Per definire lo sviluppo sostenibile ci sono utili le parole di Gro Harlem Bundtland, contenute nell’omonimo rapporto elaborato nel 1987 dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo sostenibile, che definisce lo stesso come “processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli attuali”Nel documento vengono enfatizzati gli obiettivi di miglioramento non solo ambientale, ma anche economico e sociale. Questi aspetti vanno implementati sia a livello locale che globale, nel rispetto di tutti gli individui e cercando di assicurare loro migliori condizioni di vita.  Il fine di Bruntland e della Commssione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo sostenibile era quello di avviare al discussione e creare i presupposti per la tutela e la valorizzazione delle risorse naturali soddisfacendo i bisogni delle attuali generazione ma non compromettendo le capacità di quelle future. Nascevano in questo modo i diritti umani di terza generazione che vogliono tutelare anche coloro che oggi data la loro assenza non possono partecipare al processo decisionale garantendo l’eguaglianza intergenerazionale e la sostenibilità ambientale. Rio+20.

Rio+20

Con la Risoluzione RES/64/236 del 23 dicembre 2009, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha stabilito di organizzare nel 2012 la conferenza sullo sviluppo sostenibile (UNCSD), denominata anche Rio+20, in quanto cade a 20 anni di distanza dal Vertice della Terra di Rio de Janeiro UNCED del 1992.

 

La conferenza, che si svolge in questi giorni (20 al 22 giugno) a Rio de Janeiro, ha l’obiettivo di promuovere nuovi traguardi, considerare i progressi raggiunti e valutare le lacune per poter poi affrontare le nuove sfide in linea con le raccomandazioni emerse in passato dai vertici sullo sviluppo sostenibile.  La Conferenza si concentra su due temi principali. Il primo tema cardine ripropone una definitiva conciliazione tra crescita e rispetto dell’ambiente, sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo. Questi ultimi potrebbero essere i maggiori beneficiari di un definitivo spostamento verso una “economia verde”. Durante la discussione del secondo tema verrà invece discussa una razionalizzazione e una maggiore organizzazione delle organizzazione ambientali e delle regolamentazioni a livello globale e locale.

Un’economia verde nel contesto dello sviluppo sostenibile e riduzione della povertà.

A livello macroeconomico questa transizione comporta l’attuazione di riforme e la creazione di incentivi per la tutela delle risorse naturali, il potenziamento delle infrastrutture per l’ambiente, l’introduzione di eco-tecnologie, la creazione di investimenti e l’eliminazione di sussidi dannosi per l’ambiente. Grazie a questa politica economica il settore privato riuscirebbe ad incrementare gli investimenti per l’innovazione per sfruttare le opportunità derivanti da un’economia verde. Oggi, più che ieri, si è consapevoli che il rispetto dell’ambiente non inibisce la creazione di ricchezza né deprime l’opportunità di occupazione. Al contrario, i settori più fiorenti sono molto spesso i settori “verdi” che quindi offrono crescita e occupazione.  Affinché avvenga tutto ciò la transizione deve investire la totalità degli gli attori di governo e dei soggetti operanti sul territorio (imprese, parti sociali, cittadini). Bisogna proporre nuove misure economiche, legislative, tecnologiche e di educazione che abbiano come obiettivo il rispetto dell’ambiente.  Il dibattito teorico sta lasciando progressivamente spazio alla sperimentazione e all’attuazione di specifiche misure che possano facilitare e velocizzare l’azione dei governi.  In tal senso alla conferenza Rio+20 saranno presentati un Global Green New Deal (GGND) e la Green Economy Initiative.  I maggiori beneficiare di queste misure e dell’applicazione di questi nuovi paradigmi dovrebbero essere proprio coloro che oggi non vivono nelle condizioni di vita più fortunate ma che non avendo mai distrutto il loro legame con l’ambiente possono oggi essere i primi a trarre i benefici di questa rivoluzione culturale e tecnologica.

Un quadro istituzionale per lo sviluppo sostenibile

Il sedondo tema principlae della conferenza sarà la riorganizzazione del quadro istituzionale dello sviluppo sostenibile. Una reale e concreta implementazione delle politiche di sviluppo ha un disperato bisogno di approccio istituzionale che sia unitario e organizzato.  Per questo motivo ai tre pilastri principali dello sviluppo sostenibile (ambiente, economia e società) a Rio sarà chiesto di rivedere e rafforzare le strutture esistenti e di considerare il settore istituzionale come il quarto pilastro dello sviluppo sostenibile. Da queste premesse nasce il concetto di Governance dello sviluppo sostenibile che comprende l’analisi e la riorganizzazione sia delle strutture istituzionali che si occupano di ambiente sia di quelle operanti nelle aree economiche e sociali. Uno dei punti centrali del dibattito avviato a livello internazionale riguarda la possibilità di riformare l’attuale architettura istituzionale delle Nazioni Unite i cui organismi, programmi e risorse non sembrano più adeguati alle sfide contemporanee. Molto probabilmente sarà avanzata l’ipotesi di trasformazione dell’UNEP (United Nations Environment Programme) in un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite che lo collochi sullo stesso livello di organismi quali la FAO, l’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’Organizzazione Mondiale del Commercio. Il nuovo organismo avrà il compito di ridurre la frammentarietà che caratterizza il sistema internazionale di tutela dell’ambiente, suddiviso in più di 500 accordi internazionali e regionali.  L’Italia e l’Unione Europea sostengono in tal senso già dal 2005, la creazione di un’Organizzazione Mondiale sull’Ambiente (UNEO).

“Non siete qui per curare la vostra immagine, ma per fare un mondo migliore”

La conferenza rappresenta una sfida importante che mira, attraverso uno sforzo congiunto da parte dei governi e della società civile, a raggiungere obiettivi comuni e tutelare gli equilibri del pianeta, verso un nuovo assetto per lo sviluppo sostenibile globale e per l’umanità. Una nutrita parte della comunità internazionale e soprattutto le associazioni e la società civile da anni impegnati nella lotta per l’ambiente chiedono che si faccia di più, più in fretta e in modo più esplicito.  Il futuro del nostro pianeta non è retoricamente in pericolo e come ha detto Britney Trifford (17/enne della Nuova Zelanda) ai leader presenti all’apertura vertice in Brasile “l’orologio è scattato “e loro non sono lì “per curare la loro immagine, ma per fare un mondo migliore”.

It is democracy, stupid!

di Francesco Grillo

È una bella boccata d’ossigeno quella che ieri l’Europa è riuscita ad inspirare ieri ad Atene. All’ultimo secondo di una maratona disperata corsa tutta in apnea.
La novità – anche se pochi l’hanno notata – è che per la prima volta la crisi e la democrazia si toccano. Per la prima volta il popolo, il demos (fatto di persone e di sofferenze, di aspirazioni e di I-phone) e le ragioni del cambiamento convergono: non sembrano più irrimediabilmente andare ognuna per la sua strada, sempre più lontane e sempre più laceranti per quelle società che avevano fatto della democrazia il proprio aspetto distintivo e vincente; quelle società europee il cui declino è cominciato il momento stesso che le èlites (soprattutto quelle impegnate a Brusxelles nel seguire un sogno sempre più svuotato dei suoi ideali) avevano, da tempo, deciso che era una perdita di tempo cercare di parlare con le persone.
Per la prima volta, nella storia di una crisi dell’Europa che dura da vent’anni, di fronte ad una scelta radicale – stare nell’Euro e accettare ancora sacrifici o uscirne ed andare in caduta libera all’indietro nella storia – il popolo, quella “cosa maleodorante” di cui parlano tanti tromboni ignorando che ciascuno di noi ne fa parte integrale, ha dimostrato senso di responsabilità. Forse superiore a quello di tanti politici e banchieri ai quali nessuno può chiedere sacrifici personali.
E non è un caso che sia ad Atene, quell’Atene in difficoltà ma in un certo senso gioiosa delle biciclette che stanno sostituendo le automobili, che la democrazia riscuote questa rivincita. Le persone, se messe di fronte a scelte radicali, sanno esercitare la responsabilità. Anche se i piani di austerity sono effettivamente in gran parte sbagliati, non adatti alle specificità di quella società, apparentemente dettati da un frettoloso ricorso a luoghi comuni e, persino, a qualche tentazione di punire. E non c’è dubbio che allora il primo governo politicamente legittimato – sarebbe bello che alla coalizione aderisse anche Syriza, che non rappresenta l’estrema sinistra come vogliono farci credere alcuni commentatori pigri in cerca di stereotipi – che la Grecia può vantare da quando è scoppiata la crisi, possa finalmente anche pretendere di negoziare condizioni più ragionevoli.
Da Atene viene allora effettivamente anche un’indicazione forte per l’Europa. E parafrasando al contrario quello che tempo fa disse un presidente degli Stati Uniti, dico: It is democracy, stupid!
Alla fine l’Europa – nonostante lo scetticismo di Giuliano Amato o di Emma Bonino giusto per nominare due icone di un europeismo che appare sempre più stanco – non può più fare a meno di democrazia.
È assurdo – come sa forse l’unico leader politico che è rimasto, quella ragazza nata nella Germania dell’Est e che è diventato l’ “uomo” politico più potente d’Europa – pensare ad un’Unione politica (e persino a quella fiscale) senza uno straccio di demos europeo. Senza opinioni pubbliche europee. Senza dibattito politico europeo.
La grande intuizione che Jaques Delors ebbe vent’anni fa, fu che creare un’unica moneta (sottraendo agli Stati una delle prerogative che li definiva in quanto tali) avrebbe creato una pressione tale da andare verso un’unione politica piena, senza la quale l’Euro non si regge. Non si regge tecnicamente. E tuttavia per vent’anni piccolissimi leader – che hanno preso il posto dell’ultimo grande visionario – non hanno fatto assolutamente nulla per preparare quell’unione politica che adesso tutti invocano come unica salvezza.
Potevamo introdurre – come ha proposto Vision insieme ad altre think tank europee – un semestre di studio obbligatorio in un altro paese Europeo per gli studenti della scuola superiore e delle università per incoraggiare l’integrazione – non meno importante – delle generazioni. Potevamo fare finalmente eleggere il Presidente della Commissione direttamente dai cittadini, o perlomeno avere un Presidente del Consiglio Europeo come Tony Blair meno invisibile di Van Rompuy (per non parlare dell’ancora più sconosciuta baronessa Ashton, in teoria ministro degli esteri dell’UE). Avremmo potuto sottoporre ad un vero e proprio referendum europeo il trattato di Lisbona e rischiare la democrazia senza la quale le istituzioni appassiscono.
Ed invece abbiamo – vent’anni dopo Delors – una generazione di ventenni che secondo i sondaggi dell’Eurobarometro sono molto meno europeisti di chi era ventenne vent’anni fa; ad ogni elezione del parlamento europeo si riduce di ulteriori cinque punti la percentuale – già bassa – di chi partecipa alle elezioni; e non sono più del cinque per cento i cittadini europei che sanno il nome del capo della Commissione Europea.
Quelli della generazione di Amato insistono che è così perché altrimenti l’Europa sarebbe bocciata. Io dico che invece questo è un rischio che dobbiamo prenderci. Perché altrimenti l’Unione politica senza opinioni pubbliche a cui rispondere aprirebbe contraddizioni ancora più rischiose di quella di un’Unione monetaria senza Unione politica.
Le persone, il popolo, la democrazia non sono una fastidiosa perdita di tempo che rischia solo di disturbare un manovratore troppo intelligente per farsi capire dalle persone. La democrazia è il motivo per il quale l’Europa ha vinto le sue battaglie più difficili contro i totalitarismi. Ne è valore fondante. Abbiamo con tutta evidenza bisogno di una nuova generazione di leader per andare verso il futuro, recuperando alcuni dei valori più importanti del nostro passato.
Sarà Germania-Grecia il quarto di finale più bello di questi Europei: ho la sensazione che finalmente saranno molti sia a Berlino che ad Atene ad essere contenti di applaudire anche le giocate più belle degli avversari. In fin dei conti i sogni per poter sopravvivere a se stessi hanno bisogno solo di essere rinnovati.

R-innovamenti BRICS: intervista a Sandro Gozi

R-innovamenti BRICS: intervista a Sandro Gozi

 di Massimo Preziuso (su L’Unità)

Intervista a Sandro Gozi, responsabile politiche europee del Partito Democratico e del comitato parlamentare Italia – India

Ciao Sandro.

All’interno del progetto Innovatori Europei BRICS, abbiamo voluto intervistarti perchè sei la persona più adatta con cui parlare di politiche innovative per lo sviluppo delle relazioni del nostro Paese con questi luoghi dotati di straordinaria rapidità di cambiamento e opportunità.

1)      Partiamo dalla fine: Non credi che il nostro Paese debba rovesciare il (falso) problema della delocalizzazione delle nostre fabbriche e lo spostamento di investimenti verso i paese emergenti e soprattutto BRICS, aiutando – soprattutto i giovani – a comprendere le enormi opportunità che risiedono in tali luoghi? Non è il momento di una ondata di “emigrazione” di cervelli italiani in Paesi come l’India, che possano poi diventare i nostri ponti per la creazione di relazioni di ogni tipo (come avviene in Germania o Inghilterra tramite le istituzioni universitarie)?

Quello della delocalizzazione delle nostre imprese all’estero è solo in parte un falso problema. Se infatti si considera che il nostro paese continua a perdere posizioni nella classifica degli “attrattori” di investimenti diretti esteri, la delocalizzazione delle imprese italiane all’estero si traduce in un perdita di capitali, di occupazione e di prelievo fiscale, in molti casi. In secondo luogo se è vero che i BRICS sono ormai paesi non più emergenti ma “emersi” pur tuttavia non sono l’eldorado. Grandi possibilità, certo, ma anche grandi difficoltà sia per i lacci e laccioli della burocrazia (India), sia per le difficoltà della crisi economica (Cina) e delle sue conseguenza, il ritorno del protezionismo in particolare. Non dimentichiamo che se è vero che siamo ancora in una fase di piena globalizzazione, nondimeno il fenomeno della deglobalizzazione, cioè il ritorno delle imprese nei paesi di origine, si sta facendo consistente.

Sulla questione dell’emigrazione guidata, non sono d’accordo. Per una serie di ragioni. Innanzitutto la parola “emigrazione” sa di fame e povertà. In secondo luogo mi ricorda due fasi della storia italiana – quella post unitaria e quella del dopoguerra – quando per risolvere l’instabilità del sud e la disoccupazione si favorì l’emigrazione. Per assurdo, è chiaro che facendo emigrare tutti i disoccupati, si risolverebbe il problema in un lampo, ma questa scorciatoia non può essere l’obiettivo di una politica seria e responsabili per il bene del Paese. Questo non significa certo chiudere i confini del paese, ma fare in modo che la decisione dei giovani di andare all’estero, o nei BRICS, nasca da una libera scelta più che da una stringente necessità. Per questo sarei favorevole a sprovincializzare il Paese, ad avviare campagna di informazione su questo grande fenomeno che è l’emersione dalle nuove potenze e ad aprire canali che possono facilitare coloro che hanno deciso di cogliere le nuove opportunità presenti in questi mercati. Ma non mi spingerei oltre.

2)      Andando all’India, quali i settori di maggiore cooperazione? Secondo noi si dovrebbe cominciare dallo sfruttare sull’ enorme apertura del loro settore retail e puntare poi su Cultura, Moda, Tecnologie, Energia, Ingegneria e Meccanica – Manifattura, dove l’Italia detiene un enorme vantaggio competitivo. Che ne pensi?

I paesi europei, nel complesso, hanno rappresentato il 19%  delle importazioni indiane; fra questi il 3,6% proveniva dalla Germania e il 2,1% dal Belgio; Francia e  Italia detenevano una quota pari a 1,5% e 1,3%, rispettivamente (Anno fiscale 2009-2010). Nello stesso arco temporale le esportazioni indiane verso l’italiana rappresentano il 1,9% delle esportazioni complessive del paese (Olanda, 3,6; Regno Unito, 3,5; Germania 3%; Francia, 2,1)

“Sulla base dei dati Istat, nel primo semestre del 2010 le importazioni dall’India sono ammontate a 1,8 miliardi di euro, salendo del 19,4% rispetto al medesimo periodo del 2009, a fronte di una crescita del 18% registrata da quelle complessive; cfr. Tavola 5; la quota di mercato delle merci indiane nel nostro paese è pertanto salita leggermente all’1,03 per cento a quelle cinesi era invece riconducibile il 6,8%. Le importazioni dall’India si compongono in primo luogo di prodotti dell’industria tessile e dell’abbigliamento, con un’incidenza del 29%, seguiti dai mezzi di trasporto 13% e dai prodotti di base e metallo e quelli chimici rispettivamente 10,7% e 10,3%. Sempre sotto il profilo merceologico, i mezzi di trasporto sono fra i prodotti per cui si registra il più sensibile aumento nell’incidenza complessiva sulle nostre importazioni dall’India” (Fonte Ice MAE)

“La maggiore dinamicità delle economie emergenti si è riflessa nell’evoluzione ancora sostenuta delle esportazioni italiane verso questi paesi. Quelle verso l’India, pari a 1,51 miliardi di euro, hanno segnato un aumento del 23,3%, quasi doppio di quello registrato dalle nostre esportazioni complessive 12,6%, e in linea con la dinamica segnata nei confronti della Cina 23%. Fra i prodotti italiani più esportati in India, figurano in primo luogo i macchinari e gli apparecchi elettrici e meccanici con una quota del 43,1%, seguiti dai prodotti di base in metallo 12,1%, le sostanze e i prodotti chimici 9,3% e i mezzi di trasporto 6,7%” (Fonte Ice Mae).

C’è però una riflessione da fare sul caso indiano. La struttura dell’economia indiana è infatti assolutamente sui generis: se infatti un parte del paese è ormai proiettata nella fase post-industriale (servizi e prodotti ad alta intensità di capitali e di conoscenza), un’altra parte del paese (senza una precisa demarcazione territoriale) è ancora in una fare pre-industriale. L’India oggi per risolvere una parte dei problemi che l’affliggono ha pertanto bisogno di una fase industriale, fatta di attività labour-intensive. Io credo che qui, in un’ottica di cooperazione mutualmente vantaggiosa per l’Italia e per l’India, le nostre imprese possono giocare un ruolo significativo.

3)      Quali i primi passi compiuti e quali i passi da compiere in Italia per creare concrete collaborazioni con l’India?

Credo sia unanimemente riconosciuto che il viaggio di Romano Prodi abbia rappresentato un punto di svolta nelle relazioni tra i due paesi. Sulla scia di quell’esperienza si è inserito il rilancio dell’Associazione Italia-India che ha organizzato varie iniziative a riguardo.

4)      Facilitare i Visti di professionals e studenti BRICS aiutandoli all’inserimento professionale ex – ante e all’inserimento sociale in itinere in Italia. Una idea realizzabile?

5)      Non è limitante l’approccio usato dall’inziativa targata Partito Democratico denominata “Controesodo” che facilita il rientro degli Italiani residenti all’estero attraverso una Tax facility? Non dovrebbe semmai essere applicata al contrario, per i talenti BRICS che vengono in Italia?

Rispondo a queste due domande congiuntamente. A proposito di un percorso preferenziale per i visti professionals e per gli studenti, lo ritengo non solo un’ottima idea, ma anche un fronte sul quale l’Associazione sta già lavorando. L’approdo di nuove intelligenze e di nuovi talenti non può che far bene alla cultura e all’economica dell’Italia, il che poi significa anche creare quell’intreccio di legami umani che sono la vera forza nelle relazioni bilaterali tra i paesi. Per questo sono assolutamente favorevole all’ipotesi di una Tax facility per i talenti dei BRICS. Tuttavia credo che non basti, insieme alle misure di facilitazione fiscale, servono anche delle politiche “umane”: politiche di accoglienza, politiche abitative, iniziative che favoriscano l’inserimento scolastico, per i figli di coloro che hanno deciso di venire a lavorare in Italia ed infine affrontare la questione della cittadinanza per le seconde generazioni. A tale proposito mi sia permesso citare Max Frish, l’intellettuale elvetico, che riflettendo sugli errori della politica migratoria svizzera così si espresse “Volevamo braccia, sono arrivati uomini”. La scelta di lasciare il proprio paese è, per il migrante, una scelta di vita, che tocca ogni aspetto della propria esistenza. E’ per questo che se si vogliono attuare delle politiche migratorie che favoriscano l’approdo in Italia di alcuni gruppi o categorie, bisogna pensare ad interventi che coprano la globalità dell’esperienza umana, per non commettere ancora una volta l’errore di voler “parcellizzare” l’immigrato, “prendendo” solo ciò che ci pare più utile e dimenticando che dietro ogni talento, dietro ogni professionista, c’è un uomo che ha in testa un proprio progetto di vita, per sé, per la sua famiglia e per i suoi figli.

Grazie per la disponibilità.

Massimo Preziuso

www.innovatorieuropei.com

 

News da Twitter

News da Facebook