Innovatori Europei

Significativamente Oltre

13 Aprile: Seminario di Consuelo Nava su Sustainable Energy Design a Reggio Calabria

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Nel corso del seminario la innovatrice Prof. Consuelo Nava presenterà il testo / progetto per il Campus dell’innovazione automotive in Val di Sangro.
Un’esperienza molto riconosciuta e significativa sui temi dell’innovazione, della sostenibilità e dell’energia che ha un valore pilota sui progetti di settore ed ha anticipato le strategie Horizon  2020.
Un’occasione per discutere come il territorio, il paesaggio, lo sviluppo industriale e dell’innovazione possono trovare scenari sostenibili in aree sensibili.

E’ prevista la presenza del Prof. M. Ricci e altri interventi programmati sui temi, oltre che lo spazio per il dibattito.

Venerdì a Potenza #ApriteilPDBas : la transizione energetica sia al centro di una rinnovata segreteria regionale

ApriamoPDBas

Sosteniamo l’iniziativa #ApriteIlPDBas indetta dal Segretario del PD della Provincia di Potenza, Antonello Molinari.

Perché speriamo che la prossima segreteria regionale del Partito Democratico lucano si apra alle tante e variegate intelligenze presenti sul territorio e con esse definisca un inclusivo programma politico incentrato sulle esigenze di una Basilicata moderna, istruita, innovatrice, che vuole giocare la partita della competizione tra Regioni di Europa2020 da protagonista.

Fondamentale in tal senso che il Partito Democratico della Basilicata si doti di competenze nuove e interdisciplinari e di radicamento nella società vasta per comprenderne i desideri e ambizioni profonde, e comprenda che è arrivato il tempo per la Lucania di farsi leader della transizione energetica, orientata alla sostenibilità ambientale, che ormai è davvero in arrivo, visto che, ad esempio, “nel 2040, il 35% delle nuove auto (contro l’1% di oggi) avrà una spina per ricaricare le batterie“.

Perché la Regione in cui “vive” Matera2019 deve e può diventare il motore dello sviluppo sostenibile di tutto il Paese, accompagnando, con un rinnovato sostegno del governo nazionale, la trasformazione della più grande area petrolifera di Italia verso il futuro, che risiede nella assoluta centralità delle risorse ambientali, appunto.

Potenza, Roma, 6/4/2016

Massimo Preziuso

Innovatori Europei

Il 17 aprile vota SI al Referendum

Innovatori Europei – membro del Comitato nazionale per il SI con Legambiente Onlus e tantissime associazioni e comitati – vota SI ‪#‎Referendum17aprile‬ . Perché occasione unica e irripetibile per dare un segnale forte, all’interno del Paese e a livello internazionale, sul fatto che l’Italia vuole finalmente tornare ad essere protagonista nel settore della Green Economy / Sostenibilità Ambientale, che è già oggi il baricentro del nuovo paradigma di sviluppo mondiale.

E perché crediamo il Referendum sia una occasione formidabile per le stesse compagnie petrolifere, a cominciare dalla nostra Eni, per accelerare su questo cammino, insieme ad un governo Matteo Renzi che faccia finalmente il “pioniere” dell’innovazione tecnologica e non solo il “later adopter”.

Chimica, ultima chiamata per l’Italia: senza “big player” non c’è futuro

di Leonardo Maugeri su la Repubblica – Affari & Finanza del 4 aprile 2016

L’Eni si avvia a vendere Versalis, ovvero quel che rimane della grande chimica italiana, sollevando interrogativi e preoccupazioni. Per molti dovrebbe rinunciare all’operazione e impegnarsi essa stessa nel rilancio della chimica, evitando di cederla a un soggetto finanziario straniero piccolo e senza una storia di grandi operazioni alle spalle; per altri, la vendita a un soggetto apparentemente interessato a occuparsi davvero di chimica è di per sé una buona cosa, indipendentemente dalla nazionalità e dalle dimensioni del soggetto stesso. Per altri ancora l’Eni dovrebbe impegnarsi nella ricerca di acquirenti con le spalle più larghe.

A rendere più teso il confronto c’è poi la storia di speranze e fallimenti, parabole politico-industriali, successi, follie e malversazioni proprie della chimica italiana – ma anche una domanda che aleggia come una Spada di Damocle: è ancora “strategico” per un paese avanzato avere un’industria chimica forte, incentrata su un grande soggetto nazionale e in grado di catalizzare lo sviluppo di tante piccole e medie imprese? Affrontare questi temi richiede di ripercorrere brevemente il passato, per poi guardare alla realtà presente e alle possibilità del futuro.

LA STORIA. Quello che oggi rimane della chimica Eni non è stato il frutto di un disegno industriale perseguito dall’Eni stessa. All’inizio, negli anni ’50, il suo sviluppo scaturì soprattutto dalla insensata competizione tra Enrico

Mattei e l’industria privata che lo avversava – a partire dalla Montecatini, che della chimica italiana rappresentava la vera eccellenza (dalla Montecatini vennero, tra l’altro, alcuni dei fertilizzanti chimici di Giacomo Fauser che rivoluzionarono l’agricoltura, e il Nobel per Giulio Natta per quello che commercialmente sarebbe passato alla storia come Moplen). Purtroppo, la guerra tra Eni, Montecatini, Edison e altre società portò alla moltiplicazione di impianti troppo piccoli, spesso costruiti in aree contigue, già deboli a livello internazionale ma capaci di canniba-lizzarsi l’un l’altro. A fare le prime spese di quella guerra fu la migliore, la Montecatini, risucchiata dalla Edison nell’operazione da cui nacque Montedison (1966). La competizione andò avanti, alimentata oltremodo dalle leggi che incentivarono l’industrializzazione delle aree depresse del Paese – soprattutto al sud e nelle isole: siti industriali che non avevano alcun senso economico e logistico sorsero come funghi, mentre gli operatori rimanevano comunque troppo piccoli. La crisi economica degli anni ’70 mandò tutto in frantumi. Società private che avevano beneficiato di copiosi finanziamenti pubblici – come la Sir di Nino Rovelli o la Liquigas di Raffaele Ursini – andarono a gambe all’aria, insieme a società più piccole. Per ovviare al disastro occupazionale, fu imposto all’Eni – allora ente di stato – di incorporare i siti petrolchimici delle società fallite (mentre i loro proprietari, finiti in guai giudiziari, fuggivano all’estero con un cospicuo bottino). Molti dei siti petrolchimici ancora in capo all’Eni sono l’eredità di quell’imposizione di stato, cui sono legati anche gli oneri di danno ambientale e risanamento che ancora oggi gravano sull’Eni stessa. Tra gli anni ’80 e i primi anni ’90, poi, si ebbero altre operazioni insensate – culminate nella disastrosa fusione tra Eni e Montedison da cui nacque Enimont, la “madre di tutte le tangenti” dell’era Tangentopoli. L’impatto economico di quelle operazioni fu devastante, tanto da rischiare di far deragliare l’intera Eni agli inizi degli anni ’90.

IL MOSTRO. Non si può prescindere da questa storia di lacrime e sangue per valutare il successivo atteggiamento dell’Eni post-Tangentopoli nei confronti della chimica. Per quanto vi fossero dei gioielli che meritavano attenzione, l’impulso immediato di chi aveva attraversato tutte quelle vicende fu di disfarsi dei tanti pezzi senza andar troppo per il sottile – anche perché la chimica rimaneva oggetto di continue interferenze politiche, rappresentando un bacino di voti e di affari sul territorio (cosa che, per esempio, non valeva per gas e petrolio). In breve, la chimica divenne una sorta di “mostro” da confinare in un angolo remoto come un malato da accompagnare a lungo in una lenta eutanasia. Negli stessi anni, d’altra parte, l’Eni cominciò a volare, macinando utili crescenti e perfino impressionanti fino alla prima metà degli anni 2000 – quando il greggio stava a livelli di poco superiori a quelli di oggi: nel 2005, con un prezzo medio del greggio di 54 dollari a barile l’utile netto dell’Eni fu di 8.8 miliardi di dollari – un record ineguagliato rispetto al valore del greggio. Nel frattempo, però, l’ordalia della chimica Eni continuò, con vendite continue di altri pezzi, perdite sanguinose, massicce ondate di tagli dei costi e razionalizzazioni. Parlare di grande chimica italiana in riferimento a quella dell’Eni, pertanto, è fuori luogo. Eppure, sebbene offuscata dai tanti problemi di siti petrolchimici critici (ritornerò su questo tema), essa ha mantenuto la co-leadership mondiale nelle tecnologie per gli elastomeri (gomme sintetiche) e gli stirenici (una delle maggiori categorie di plastiche), ricercatori e manager di eccellente livello, lavoratori tra i più competenti, dediti e appassionati che l’industria italiana conosca. Avendo ben presente la realtà con le sue tante ombre, è da queste luci che bisogna ripartire se si vuole pensare ancora a costruire una chimica italiana grande e di successo.

IL RUOLO DELLA CHIMICA. Al di là dell’information technology, tutti i più grandi cambiamenti nelle economie avanzate riguardano settori (dai nuovi materiali all’energia, dalle biotecnologie all’ambiente, e via dicendo) che hanno in comune l’incrocio tra chimica, fisica e ingegneria – un intreccio che è tipico della grande industria chimica. Da questo intreccio deriva una possibilità infinita di fertilizzazioni incrociate: sovente, studiando molecole per un certo uso, se ne scoprono altre per impieghi che non si erano nemmeno immaginati, e si aprono campi completamente nuovi di applicazione industriale. In teoria, questo è possibile anche per gruppi di ricerca indipendenti o piccole e medie imprese italiane, che nel tempo hanno dimostrato eccellenza nell’innovazione. Il loro problema è come finanziare e sviluppare le fasi successive all’invenzione uscita dal laboratorio.

PICCOLO NON È BELLO. Il primo ostacolo si presenta già al momento di coprire con brevetti internazionali l’invenzione che, per molti, presenta già costi insormontabili. Le difficoltà aumentano esponenzialmente nel momento in cui l’invenzione deve essere testata su un progetto pilota – un piccolo impianto il cui costo può raggiungere qualche decina di milioni di euro. Gran parte delle piccole imprese italiane è costretta a arrendersi. Infine, se il progetto pilota supera l’esame, è necessario passare alla prima applicazione su scala industriale, che può comportare investimenti anche dell’ordine di molte decine o di qualche centinaio di milioni. Questo percorso accidentato può spianarsi quando il “piccolo” può contare su un grande partner industriale, con cui abbia facilità di relazione e sintonia culturale: il primo diventa il volano del secondo, magari tramite un’alleanza in forma di joint venture. Per questo nel mondo anglosassone i grandi gruppi industriali vengono considerati uno dei “pilastri” dello sviluppo tecnologico di un sistema paese, sia che facciano ricerca in proprio o fertilizzino quella di terzi. Questo stesso modello fu sperimentato, con straordinario successo, negli anni gloriosi della Montecatini. Le tante invenzioni rivoluzionarie di Fauser furono sviluppate attraverso una joint venture tra la piccola società creata da Fauser stesso – che aveva pochi mezzi – e la Montecatini, guidata allora dal genio di Guido Donegani, che fornì a Fauser risorse finanziarie e quant’altro necessario per il successo finale. Per tutte queste ragioni, penso che una grande industria chimica italiana potrebbe fornire un contributo importantissimo allo sviluppo economico e industriale futuro del nostro Paese. Ma il percorso non è facile.

L’EUROPA AI MARGINI. La chimica sta vivendo una rivoluzione che lascia l’Europa ai margini. Da un lato, Stati Uniti e Golfo Persico, avvantaggiati dalla disponibilità di materia prima a basso costo, stanno costruendo impianti di grande scala che aumenteranno l’offerta di prodotti nei prossimi anni – col rischio di esportazioni a basso costo che potrebbero abbattersi anche sull’Europa. Lo stesso avviene in Asia, e soprattutto in Cina – in questo caso, per far fronte a una domanda interna che cresce in modo rigoglioso e necessita comunque di importazioni. La speranza dei produttori europei è che l’export americano e mediorientale si indirizzi verso l’Asia senza compromettere la già minor competitività di gran parte della petrolchimica europea – che non dispone di materia prima in loco né di una forte domanda interna. La situazione dell’Italia è ancora peggiore.

I SITI ITALIANI. Molti siti petrolchimici italiani – a partire da quelli dell’Eni – sono piccoli e non integrati con quelli di raffinazione; talvolta la logistica è pessima. Alcuni aspetti assurdi della nostra legislazione, in gran parte derivanti da inaccettabili oneri di sistema, rendono i costi dell’energia (una delle componenti più importanti dei costi di produzione) i più alti d’Europa. Le normative ambientali sono così severe e onerose (per chi intende rispettarle) da rendere impossibile un risanamento di aree inquinate simile a quello realizzato dalla Germania nel bacino della Ruhr – che Berlino vanta sempre come esempio da seguire. Lo stesso apparato normativo italiano rende arduo realizzare investimenti in tempi accettabili anche all’interno di siti industriali già esistenti: troppe autorità (nazionali, regionali, locali) si sovrappongono con poteri di autorizzazione o di veto. Cito sempre un esempio: nell’anno e poco più in cui fui a capo della petrolchimica Eni mi venne presentata una lista di ben 51 (!) autorizzazioni necessarie per sostituire una piccola centrale elettrica (delle dimensioni di due roulotte) in un sito di interesse nazionale; se tutto fosse andato bene, sarebbero occorsi tre anni e mezzo per averla in funzione.

COME RICOSTRUIRE. Per tutte queste ragioni, occorre grande realismo nel pensare al futuro della chimica italiana, evitando improvvisazioni e – soprattutto – pericolosi voli di Icaro. Eppure un futuro di successo è possibile, lavorando su tre pilastri. Il primo, naturalmente, è costituito dalla ricerca e dallo sviluppo tecnologico – che già a breve, ma soprattutto a medio-lungo termine, possono rivitalizzare completamente la chimica. Si tratta però di indirizzare bene la ricerca, di collegarla alle necessità del mondo che cambia rifuggendo dallo slogan sterile per cui la ricerca è sempre utile. Il secondo pilastro, che è parte del primo, è la chimica verde, potenzialmente capace di garantire all’Italia una leadership internazionale, essendo ancora un settore di nicchia con molti concorrenti ma senza protagonisti già definiti. Anche in questo caso, però, attenzione ai facili slogan e a entusiasmi ingiustificati: parliamo di un futuro a medio-lungo termine. E’ bene ricordare, infatti, che occorrono almeno 5 anni per passare da un’idea a una realizzazione industriale. Se tutto va bene, pertanto, una solida transizione verso la chimica verde richiede almeno un decennio, forse più: come tutte le nuove frontiere, infatti, la chimica verde sembra avere a portata di mano cose che non lo sono, e purtroppo vengono spesso sbandierate come possibili già oggi da chi poco comprende di processi chimici o di evoluzione dei mercati. Gettarsi a capofitto in queste vere e proprie trappole significherebbe bruciare risorse per la ricerca e per investimenti che meritino davvero d’essere effettuati.

IL FUTURO. La costruzione del futuro fondata sui due pilastri che ho appena sintetizzato, tuttavia, passa inevitabilmente dal puntellare e mettere in sicurezza un terzo pilastro – che sorregge anche i precedenti. È quello che presenta le maggiori difficoltà, essendo costituito dai siti petrolchimici esistenti, con i loro problemi e le loro opportunità: senza gestirli al meglio, senza fare tutto ciò che è necessario per renderli più competitivi nell’ambito del possibile – magari con sviluppi e riconversioni mirate in modo chirurgico, ove conveniente – tutto il sistema che ho prefigurato imploderebbe, perché le perdite della chimica tradizionale toglierebbero ogni possibilità di sviluppo alla ricerca, alla tecnologia e alla chimica verde. Pensare di ricostruire una chimica italiana di grande valore mondiale partendo da quello che rimane oggi nell’Eni è quindi difficile, ma possibile. Per farlo, però, occorrono conoscenza adeguata delle specificità spesso assai singolari del sistema italiano e visione strategica globale, fede nell’innovazione continua, grande conoscenza di processi e impianti industriali complessi. Occorrono, soprattutto, una passione e un’anima imprenditoriali già declinati in un record comprovato di salvataggi quasi impossibili di realtà industriali che sembravano prossime al capolinea. La porta è strettissima, ma credo (e ho sentore) che ci siano ancora soggetti nazionali in grado di gettarsi in questa missione. Viceversa, tendo a pensare che essa rappresenti una proposizione impossibile per un piccolo fondo semisconosciuto, con pochissime persone e mezzi finanziari, senza una tradizione di grandi e importanti operazioni industriali alle spalle. Qualunque sia la sua nazionalità.

Il Rebus: cosa succede se a banca A compra la banca B?

In Italia «c’è spazio per fusioni così da avere banche più profittevoli e modelli di business più sostenibili», ha detto il capo della vigilanza bancaria della Bce, Danièle Nouy. Ma come si risolve il Rebus?
Da www.idiavoli.com

Scivolando in guerra senza accorgersene

di Francesco Grillo su Reset

Stiamo scivolando verso la Guerra. E, purtroppo rischiano di aver ragione quelli che gridano ad un lupo immaginario, perché alla fine – come nei peggiori incubi – il lupo, tanto invocato, si materializza. E, di fatti, in Guerra non si “entra”. Ci si scivola. Progressivamente. Certo ci sarà sempre un primo settembre da consegnare alla Storia, un momento nel quale i panzer del sonno della ragione lanciati a tutta velocità contro qualche romantico esercito a cavallo segna un punto di non ritorno. Ma in Guerra si scivola. Un po’ alla volta. Si scivola per una serie impressionante di banali errori tecnici (come quelli della polizia e dei servizi che ieri nella capitale d’Europa presidiata da quattro mesi non hanno impedito che se ne colpissero i centri nevralgici paralizzandola). Scivoliamo in Guerra quando non abbiamo più risposte sul futuro e affidiamo tutte le crisi – che sono, appunto, momento di rottura tra routine e cambiamento – ad una gestione burocratica di esse che, per definizione, non potrà che far accumulare i problemi fino quando non esplodono. In Guerra si scivola, soprattutto, per pigrizia intellettuale. Per pigrizia degli intellettuali che dovrebbero scuotere le coscienze e che, invece, ieri, l’unica idea che si fanno venire è che quello che è successo ieri riguarda il Belgio (laddove gli attentati di Novembre la Francia, le bombe sulla metropolitana a Londra l’Inghilterra e quelle sui treni la Spagna e basterebbe fare la somma degli attentati per capire che la scala dei problemi è universale). Pigrizia di chi dovrebbe fare proposte e che invece riesce solo ad esalare, per l’ennesima volta, che questa è la fine della coabitazione tra mussulmani e città dell’occidente senza precisare quali sarebbero le conseguenze – PRATICHE – di tale geniale pensata. Di quelli che dalla scrivania ci incitano ad “entrarci” in Guerra senza mai precisare con chi dovremmo prendercela, visto che nemici e amici sono evidentemente mischiati. In Guerra si scivola. E, soprattutto, ci si scivola quando una generazione (buona parte della nostra ma io non sento di farne parte) non sente più di avere un futuro: vive di microconsulenze; di piccoli privilegi; di uno stipendio da impiegato (magari di lusso) e di stupide settimane bianche. Ci si scivola quando ai nostri figli non abbiamo più nulla da dare tranne un IPHONE. Ci si scivola per mancanza di coraggio. Per mancanza di memoria e di prospettiva. Per quello che mi riguarda continuerò a combattere. Anche perché non c’è alternativa.

Primarie (PD) senza Rete

di Michele Mezza

Dopo l’ondata di annunci e sollecitazioni on line, con email e sms che a Roma e Napoli si era sollevata con le primarie, ritorna il gelido silenzio fra elettori ed eletti.

E’ davvero singolare quest’uso frenetico delle rete da parte dei candidati politici. Si arroventa nei pressi del voto, si iberna subito dopo.

Qualcuno pensa anche di essere un candidato digitale, come capita a Napoli all’ex sindaco Bassolino bruciato sul filo di lana nella consultazione interna del PD napoletano, solo per aver organizzato meglio il megafono on line.

In altri casi siamo alle4 solite catene di S. Antonio diffuse oltre che con i me4zzi più tradizionali, telefono e richiami amicali, via social. Ma niente di più.

Non è un problema di dimestichezza con i nuovi linguaggi, che ormai nuovi non sono più da vari lustri.
E’ proprio un nodo politico, di più, un indicatore del modo con cui si intende la relazione fra governanti e governati .In altri tempi si sarebbe detto : è un fatto conseguente alla concezione del partito.

La campagna elettorale è un fenomeno in cui il consenso, lo si dimentica spesso, è la conseguenza e non la causa della relazione fra candidato ed elettori. Il contenuto che da forma al legame è il programma. Ossia l’impegno che il candidato prende rispetto a specifici temi e su cui chiede un mandato. Ecco proprio il mandato è la materia prima del legame che si vuole stringere.

Tanto è vero che in un movimento come i 5S di grillo il tema del mandato sta diventando dirompente.
Infatti se l’identità e la ragione, quella che si chiama nel marketing la value proposition, che caratterizza un’opzione politica , è solo uno stato d’animo, o, come accade prevalentemente nelle primarie, è solo una personalità, un nome, un gruppo che si raccoglie attorno ad un personaggio, allora le modalità di selezione dei voti che si realizza sulla rete diventa inevitabilmente una sollecitazione ad omologarsi, ad arruolarsi, in quella schiera. Dopo di che è evidente che ad ogni allentamento dello stato d’animo- sono a favore o contro una certa situazione o un certo leader- si sfilacciano i motivi di solidarietà e fedeltà. Così come accade, se tutto è puramente basato su plebisciti nominalistici allora all’insorgenza di altre personalità diviene naturale osservare cambi spettacolari di schieramento. Insoimma se è tutto solo un semplice proce4sso di adesione ad un’offerta politica debole, o emotiva, le identità e le solidarietà sono altrettanto deboli e mobili.

Il tutto diventa clamorosamente evidente nel riflesso delle relazioni che si costituiscono in rete.
Una campagna tutta basata semplicemente sulla discriminante emotiva – noi siamo buoni e gli altri cattivi- o nominalistica – stai con me o contro di me – ha come unico linguaggio lo stalking politico che quel genio di Totò sintetizzo con il tormentone : votantonio, votantonio, votantonio, gridato con il megafono nel cortile di un grande condominio, o scandito digitalmente in rete con email o sms.
Un modello unidirezionale, top down, che riproduce fedelmente il sistema più arcaico della propaganda politica, ereditato dai vecchi partiti di massa. Un sistema che quei partiti vivevano intensamente perché riferito a ceti sociali identitari e culturalmente estremamente definiti, come erano le basi sociali del PCI o della DC nei decenni scorsi. In quelle situazioni la campagna elettorale doveva consolidare e concludere un lungo proce4sso di convergenza e identificazione di larghe masse nel gruppo dirigente di partiti che ne rappresentavano interessi e richieste. Il manifesto elettorale era la ciliegina finale su una torta che si impastava e cuoceva ogni giorni negli anni precedenti nelle sezioni, nei circoli, nelle associazioni di categorie nei sindacati.
Oggi, si spara nel mucchio. Ci si rivolge ad un indefinito mosaico sociale, estremamente frantumato e parcellizzato, in cui il legame fra base e vertice si costituisce proprio nella stipula del micro contratto elettorale.

La campagna propagandistica oggi riassume e riflette anche la forma organizzativa e il radicamento sociale dell’organizzazione politica. Diventa essenziale dunque che l’atto, la meccanica, promozionale sia fortemente interattiva, sia, cioè, in grado di costituire e consolidare rapporti di delega diretta da singoli frammenti sociali al leader.
Il linguaggio di questa forma di comunicazione organizzativa è il social. Ossia un luogo dove si negoziano le forme di rappresentanza politica sulla base di una convergenza di contenuti e di stili di comportamento.
Le piattaforme social sono oggi , potremmo dire, la nuova forma partito. Sono luogo e linguaggio di quel processo in cui Manuel Castells nel suo saggio Reti di Indignazione e di speranza (Bocconi editore) spiega che “il potere è esercitato tramite la costituzione di significati nell’immaginario collettivo”.
Dunque non solo il mandato e la rappresentanza ma proprio la gestione della governance avviene mediante una capacità di imporre e concordare “significati” nell’immaginario sociale .

E’ proprio quanto riuscì a fare Barak Obama nella sua miracolosa compagna elettorale del 2008, quando scombussolò ogni previsione e ragionamento sociologico, cambiando completamente la base sociale di quel voto, grazie ad una potente azione di proposta e condivisione di “significati nell’immaginario collettivo.” Un’azione che non fu realizzata, e non poteva esserlo per gli interlocutori che erano stati scelti, top down mas proprio bottom up, tutta inevitabilmente e faticosamente dal basso.
Ancora Castells infatti precisa :”la comunicazione è il processo di condivisione dei significati tramite lo scambio di informazioni”.

Uno scambio che rende paritaria la posizione del singolo elettore e quella del singolo candidato. Anzi se una prevalenza vi deve essere sta proprio nella capacità del candidato di cedere all’insieme dei suoi elettori la scena per renderli soggetto comune e identitario, forzando la loro natura frammentata. Come infatti testimoniò David Axelrod, lo stratega di quella straordinaria campagna elettorale che sorprese l’America: Obama ha vinto non perchè ha usato la rete per parlare con i suoi elettori, ma perchè tramite la rete ha fatto parlare gli elettori fra di loro”. In questa scelta si coglie la coerenza e la magia della leadership digitale che coglie e valorizza la vera specificità del nuovo mezzo: l’ascolto e la condivisione sociale permanente.
Internet è infatti, come disse una volta uno dei suoi padri naturali, Tin Berner-Lee, una listening technology non una speaking technology.

Rispetto a questo quadro possiamo misurare la miseria della politica nazionale. Sia nella versione grillina, in cui la rete è solo un gigantesco schermo che moltiplica e facilità la diffusione di messaggi verticali. Anzi nelle ultime soluzioni la rete diviene anche il grande fratello che coglie la devianza e punisce il dissenso.
Sia nella versione petulantemente predicatoria dei questuanti dei voti che la utilizzano come una pervasiva mano che ci tira la giacca all’ultimo momento.

Se misuriamo e analizziamo la tipologia dei messaggi che ad esempio a Napoli ed a Roma hanno diffuso gli accounts dei candidati alle primarie troviamo solo annunci, solleciti e promemoria. Mai una vera conversazione.

L’unica parziale giustificazione per questa pacchiana malversazione comunicativa è che la rete non tollera tergiversazioni, distrazioni, esorcismi. Costringe tutti i candidati o i propagandisti a misurarsi con i temi che la rete stessa propone. Innanzitutto se stessa: che posizione ha un candidato sindaco sulle strategie di cablaggio della città? Si può parlare in rete senza avere un’idea di come diffondere l’accesso alla rete?

Secondo i conflitti che affiorano in rete: privacy, monopoli digitali, subalternità culturali, inibizioni e censure, prevaricazioni autoritarie. Infine il tema dello sviluppo e della competitività in rete. Oggi non possiamo pensare di rivolgerci ad interlocutori che agiscono in rete ignorando che l’unico tratto comune che questi mostrano è la propria ambizione, culturale, sociale, economica, o anche solo personale, ad affermare la propria identità, quello che Bauman chiama “ la nuova lotta di classe, la lotta per apparire”.
Obama negoziò punto per punto il suo programma sull’ambiente, la net neutrality, il copy right, la digitalizzazione del paese. E portò 39 milioni di americani digitali che non avrebbero votato alle urne.
Cosa propone invece in Italia il candidato di Roma o Napoli ad un cittadino, ad un quartiere, ad una community per il futuro: vinceremo insieme o no e come ?

Parlare in rete significa condividere e concordare strategie e non solo fedi. Il silenzio digitale che segue ogni frenesia propagandistica ci dice che siamo ancora lontani, troppo lontano per dare un’affidabile aspettativa al popolo digitale. E dunque non stupiamoci se il popolo digitale ignora le tirate di giacca.

17 Aprile 2016 – Referendum contro le Trivelle. Appello del Comitato Nazionale delle Associazioni “Vota Sì per Fermare le Trivelle”

17 APRILE 2016 – REFERENDUM CONTRO LE TRIVELLE
APPELLO DEL COMITATO NAZIONALE DELLE ASSOCIAZIONI
“VOTA SI’ PER FERMARE LE TRIVELLE”
Il 17 aprile 2016 il popolo italiano sarà chiamato a votare per il Referendum contro le
Trivelle in mare. L’invito è di votare SI’ per abrogare la norma introdotta dall’ultima
Legge di Stabilità che permette alle attuali concessioni di estrazione e di ricerca di petrolio e
gas che insistono nella zona di mare vicina alla costa di non avere più scadenza. Con la
Legge di Stabilità 2016, infatti, le licenze già in essere entro le 12 miglia dalla costa sono
diventate “sine die”.
Le trivelle sono il simbolo tecnologico del PETROLIO: vecchia energia fossile causa di
inquinamento, dipendenza economica, conflitti, protagonismo delle grandi lobby. La vera
posta in gioco di questo Referendum è quella di far esprimere gli italiani sulle scelte
energetiche strategiche che deve compiere il nostro Paese, in ogni settore economico e
sociale per un’economia più giusta, rinnovabile e decarbonizzata. Non dobbiamo continuare
a difendere le grandi lobby petrolifere e del fossile, ma affermare la volontà dei cittadini,
che vorrebbero meno inquinamento, e delle migliaia di imprese che stanno investendo sulla
sostenibilità ambientale e sociale. Per pochi barili di petrolio non vale certo la pena mettere
a rischio il nostro ambiente marino e terrestre ed economie importanti come la pesca e il
turismo, vere ricchezze del nostro Paese. Intanto, mancano strategia e scelte concrete per
realizzare gli obiettivi di riduzione delle emissioni fissati dalla COP21 nel vertice di Parigi
per combattere i cambiamenti climatici, in cui si è sancita la volontà di limitare l’aumento
del riscaldamento globale a 1,5°C.
Quindi il vero quesito è: Vuoi che l’Italia investa sull’efficienza energetica, sul 100%
fonti rinnovabili, sulla ricerca e l’innovazione?
Al Referendum del 17 Aprile inviteremo i cittadini a votare SI’, perché vogliamo che il
nostro Paese prenda con decisione la strada che ci porterà fuori dalle vecchie fonti fossili,
innovi il nostro sistema produttivo, combatta con coerenza l’inquinamento e la febbre del
Il Governo, rimanendo sordo agli appelli per l’Election Day che avrebbe permesso
l’accorpamento del Referendum con le elezioni amministrative, ha deciso di sprecare soldi
pubblici per 360 milioni di euro per anticipare al massimo la data del voto, puntando così
sul fallimento della partecipazione degli elettori al Referendum.
Il Governo sta scommettendo sul silenzio del popolo italiano! Noi scommettiamo su
tutti i cittadini che vorranno far sentire la loro voce e si mobiliteranno per il voto.
Per essere più efficaci, abbiamo costituito il Comitato nazionale “Vota SI’ per fermare le
trivelle” per unire le forze di tutte le organizzazioni sociali e produttive affinché la
Campagna referendaria diventi l’occasione per mettere al centro del dibattito pubblico le
scelte energetiche strategiche che dovrà fare il nostro Paese, per un’economia più giusta e
innovativa. Ci impegniamo ognuno nel proprio ambito e insieme per invitare gli italiani a
recarsi al voto e votare SI’.
Il Comitato nazionale promuoverà comitati territoriali per moltiplicare la mobilitazione e
diffondere capillarmente l’informazione in tutti i territori e metterà a disposizione strumenti
comuni di comunicazione, di approfondimento e di mobilitazione. Inoltre, si coordinerà con
i Comitati delle Regioni proponenti il Referendum.
Invitiamo tutti e tutte: organizzazioni sociali, istituzioni territoriali, imprese che
investono sulla sostenibilità, singoli cittadini/e, giovani e anziani a mobilitarsi con
entusiasmo e creatività per far vincere il SI’
Adusbef, Aiab, Alce Nero, Alleanza Cooperative della Pesca, Arci, Arci Caccia, Aref International,
ASud, Associazione Borghi Autentici d’Italia, Associazione Comuni Virtuosi, Associazione
nazionale Giuristi Democratici, Associazione della Decrescita nazionale, Club Amici dei Borghi
Autentici, Coalizione Mantovana per il clima, Coordinamento nazionale NO TRIV,
Confederazione Italiana Agricoltori, Cospe, Energoclub, Fairwatch, Fare Verde, Federazione
Italiana Media Ambientali, Fiom-Cgil, Focsiv – Volontari nel mondo, Fondazione Slow Food per la
Biodiversità, Fondazione UniVerde, Giornalisti Nell’Erba, Green Cross, GreenBiz.it, GreenMe.it,
Greenpeace, Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati, Kyoto Club, Innovatori Europei,
Italia Nostra, La Nuova Ecologia, Lav, Leaf, Legambiente, Libera, Liberacittadinanza, Link
Coordinamento Universitario, Lipu, Lunaria, Marevivo, MEPI–Movimento Civico, Movimento
Difesa del Cittadino, Movimento per la decrescita felice, Pro-Natura, QualEnergia, Rete degli
studenti medi, Rete della Conoscenza, RSU Almaviva, Salviamo il Paesaggio, Sapienza In
Movimento, Sì Rinnovabili No nucleare, Slow Food Italia, Soc. Coop. E’ Nostra, Soc. Coop.
Retenergie, TerrediLago, Touring Club Italiano, Unione degli Studenti, Unione degli Universitari,
Unione Produttori Biologici e Biodinamici, WWF, Zeroviolenza

Apple a Bagnoli. Opportunità da cogliere e rischi da evitare

di Gianmaria Frenna

La scelta dell’ex base Nato come centro formativo della Apple ci restituisce ottimismo e fiducia.
In pochi e, in tempi non sospetti e molto incerti, ci si credeva che quell’area potesse ospitare un centro di alta formazione professionale nei settori dell’altissima tecnologia.
Mario Raffa, Pasquale Popolizio e Massimo Preziuso certamente tra i precursori.

Può darsi sia prematuro entrare nel merito ed anticipare i possibili rischi, che pur pavento, di un’assenza di connettività e d’interazione tra il nuovo centro formativo Apple e quello che a Napoli già c’è e funziona.

Come è il caso dello spazio co-working al centro direzionale Corrado Sorge; il centro CSI – Centro Servizi Incubatore Napoli Est Chiara Burriello e il Polo scientifico di San Giovanni a Teduccio (Giorgio Ventre) e non dimentichiamoci dell’ incubatore d’impresa, bistrattato a più riprese ingiustamente, della Città della Scienza  (Vincenzo Lipardi Mariangela Contursi) ma penso anche al Consorzio At Coroglio e ad Antonio Chello.

Per evitarli occorre una seria opera di razionalizzazione che parta dal primo censimento delle start up in Campania, presupposto necessario e in grado di dare reali opportunità ai ragazzi di questa regione. Occorre altresì una cabina di regia – coordinata dall’assessore Valeria Fascione.

Ed è necessaria, infine, una scelta lungimirante ed efficace se il governo regionale del Presidente Vincenzo De Luca prevedesse aree regionali a fiscalità di vantaggio per poter ospitare imprese ad alta specializzazione manifatturiera e non solo in campo Hi-Tech. Perché le nostre Start Up si dimostrano promettenti anche in moltissimi altri campi e non solo in quello digitale.

Il tutto proiettato alla costruzione di quella “Stanford dell’Euro Mediterraneo” che gli Innovatori Europei proposero da Bagnoli alle istituzioni locali, nazionali ed europee, il giorno successivo all’incendio della Città della Scienza avvenuto a Marzo 2013.

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