Il Comitato Bersani presenta esposto al Collegio dei Garanti
“Abbiamo deciso di presentare al Collegio dei Garanti delle primarie un esposto sulle violazioni del Codice di comportamento dei candidati da parte di Matteo Renzi, codice liberamente sottoscritto contestualmente alla presentazione della propria candidatura.
Stamani sono apparse su grandi quotidiani nazionali inserzioni a pagamento, volte a creare una pressione impropria, contenenti informazioni errate e in contrasto con il regolamento sul ballottaggio di domenica prossima, che invitano a iscriversi tramite il sito “domenicavoto.it“. Il sito risulta registrato dalla Fondazione Big Bang di Matteo Renzi. È palese e evidente la violazione del regolamento e soprattutto delle norme che vietano la pubblicità a pagamento finanziate dai candidati e quelle che regolano il limite delle spese e la loro trasparenza.
Tradire il Codice di comportamento e il rispetto delle regole è un fatto gravissimo. Per questo chiediamo un intervento immediato dei Garanti.
Inoltre ci chiediamo dove può portare un simile atteggiamento, compreso il tentativo di forzare e stravolgere le regole del voto, da qui al ballottaggio di domenica. È sempre più evidente il rischio di sporcare un grande evento di partecipazione democratica consapevole, come sono le primarie e come sono state il 25 di novembre”.
Lo dichiara Paolo Fontanelli, rappresentante di Bersani nel coordinamento nazionale primarie.
Nonostante i media, Bersani è il (candidato) premier del centrosinistra
di Massimo Preziuso (su L’Unità)
Con il secondo dibattito televisivo di ieri sera, la partita per le primarie è definitivamente conclusa.
Bersani e Renzi, distanti nell’analisi dei problemi e soprattutto nelle ricette per affrontarli, si sono ritrovati nel rispetto individuale, dopo aver rischiato nei giorni scorsi di rompere definitivamente, a causa di un tifo, per nulla velato,proveniente da gran parte della stampa e delle trasmissioni televisive, per il giovane “rottamatore” e soprattutto per un “big bang” nel centrosinistra.
E’ questo infatti il dato che più di tutti emerge, soprattutto dalle ultime due settimane, in una campagna elettorale che francamente non ha detto nulla di nuovo.
Uno “strano” endorsement “renziano” da parte di molte trasmissioni televisive e di larga parte della stampa nazionale, in quello che sembra un ultimo tentativo di rafforzare la decantata ipotesi di prosecuzione del governo Monti, oltre la scadenza naturale del 2013.
Per verificare questa tesi, basta andare a leggere le prime pagine dei giornali di oggi e vedere che per tutti gli editori nazionali Renzi “avrebbe” battuto Bersani nel dibattito di ieri. Cosa che francamente è fuori dalla realtà.
Questo fa riflettere su chi fosse il “rinnovatore” del centrosinistra e soprattutto su quali siano i “portatori di interessi” dei due candidati premier del centro sinistra.
Attorno a Bersani si ritrova la gran parte della cittadinanza italiana di centrosinistra, che vede nel segretario l’affidabilità e la competenza necessarie per uscire da un incubo durato ormai cinque anni, che si chiama crisi, economica e sociale, ancora prima che politica. Vicino a Renzi si colloca invece quella serie di interessi (forti), oggi minacciati da un ritorno alla normalità “bersaniana”, che si manifestano da sempre, in Italia, tramite la stampa e la televisione nazionali, ed oggi attorno al governo dei tecnici.
Detto ciò, a marzo 2013 Pierluigi Bersani rappresenterà il centrosinistra, da tempo maggioranza nel Paese, contro le ipotesi masochiste di tipo tecnico o di grandi coalizioni, alle elezioni politiche nazionali.
Ci piacerebbe che Bersani parlasse di responsabilità oggettiva dei partiti
Se Bersani si rendesse promotore di una proposta di legge che introducesse la responsabilità oggettiva dei partiti per i latrocini e le ruberie dovute ai propri deputati ed iscritti, farebbe un passo che neanche i più avanguardisti hanno pensato di fare.
Se i segretari garantissero la gestione del denaro pubblico rendendo conto con la trasparenza più assoluta delle gestioni ma soprattutto garantendo per legge il risarcimento per i derubati con le loro casse o addirittura con le proprie tasche, darebbe un segnale fortissimo.
Se si ragionasse in questi termini si troverebbe la legittimazione allo stesso scopo vero del finanziamento pubblico pur sempre nei limiti di una revisione comprensibile dei quantum.
In questo modo, auto diffidandosi, dimostrerebbe una posizione responsabile assumendo il rischio pesantissimo del fardello di un pericolo sempre incombente.
Primarie e Matteo Renzi? Io, del PD, dico che deve essere rottamato il rottamatore
Io non sarò proprio un’aquila quanto ad intelligenza ma, di certo ho buona memoria. A questo riguardo vorrei ricordare appunto due-tre cose sulle quali non ci piove.
La prima. Cosa è andato a fare il rottamatore a Villa Arcore alcuni mesi fa, prima delle primarie. Forse è andato lì per congratularsi con l’arcoriano per il bene (si fa per dire) che quest’ultimo ha creato in Italia durante il suo governo, atteso che non credo proprio sia andato lì per incontrare qualche “olgetina”, cosa che forse gli avrebbe reso più risonanza popolare e quindi anche più propaganda elettorale.
La seconda. Mi risulta che Renzi abbia scritto a mio genero, ex Presidente del Consiglio Comunale di Venezia, allora Pdl ed ora Lista civica sempre di centro-destra, per dirgli che avrebbe gradito il suo voto (cose tutte che appaiono sulla stampa italiana di ieri a partire dal Corriere della sera).
Ometto di parlare delle visite ai paradisi fiscali sempre da parte di Renzi.
Alla luce di questi due-tre semplici fatti, il rottamatore può sperare nella mia fiducia ed in quella degli altri come me, oppure va bandito dalla scena politica perché gioca sporco ? Magari confidando sulla ingenuità politica del popolo italiano ?
Perché preferire Bersani
Non è la resa dei conti.
Ed è vero quanto lamenta Pier Luigi quando dice che Renzi parla di “noi” quando parla di sé e di “loro” quando parla di Bersani. E’ una gaffe non facilmente sopportabile.
Introduce e smaschera una posizione dissociante piuttosto che aggregante. La gaffe, se di gaffe si tratta, mette in rilievo il tallone d’Achille di Renzi non si sa bene dovuto a cosa, sta di fatto però che indispettisce e preoccupa.
Il figlio che prevarica il papà ed i papà non hanno sempre torto specie quando la ragionevolezza della esperienza pregressa infausta costringe il genitore a porre rimedio a beneficio di tutto il nucleo familiare.
Bastasse solo questo, in definitiva, è meglio preferire Bersani che, alla freschezza per certi versi irresponsabile del giovane Renzi, oppone la consapevolezza del fardello che sarà chiamato a portare sul groppone dopo le politiche prossime.
Oltre che di programmi che, fondamentalmente , stazionano tutti nella stessa area, quella di Bersani è la posizione giusta, lucida e per nulla esemplificativa di una situazione politica ed economica senza precedenti.
Rinnovamenti da domani con Bersani
di Massimo Preziuso (su L’Unità)
Questa campagna elettorale per le primarie è volata in un attimo. Francamente, non ha raccontato molto, parlo a titolo personale, di più di quello che già sapevo. E credo lo stesso effetto abbia fatto a molti simpatizzanti ed elettori del centrosinistra italiano.
Eravamo già a conoscenza del differente peso e solidità dei diversi candidati.
Cinque candidati che, messi insieme, rappresentano uno spettro enorme di istanze, tutte interessanti, molte volte complementari, ma in qualche caso troppo lontane dalla tradizione del centrosinistra.
Se infatti Vendola, Puppato e Tabacci hanno, nei fatti, proposte politiche vicine a quelle del segretario Bersani, quelle di Renzi dicono cose molto distanti da quell’idea di centrosinistra che in tanti in Italia abbiamo, e che finalmente possiamo ritrovare, con il voto di domani. Un’idea che io sento di tradurre in tre concetti: solidarietà, re-distribuzione per la crescita, meritocrazia nell’uguaglianza.
L’Italia ha vissuto quasi vent’anni di stordimento grave. Ora ha l’occasione di rialzarsi, anche se il cammino di risveglio a questo punto sarà lungo.
Per farlo, non credo nella vulgata della “rottamazione”, ancora di più se chi la propone è poi circondato di persone, metodi e riferimenti culturali troppo lontani da noi e nemmeno innovativi.
Non vedo, personalmente, un’alternativa ad una proposta politica di tipo progressista ed europeista, che voglia rinnovare con azioni pazienti la classe dirigente del Paese, senza distruggerla, ma accompagnandola naturalmente all’uscita.
E’ questa, in sintesi, l’idea che trasmette la leadership di Pierluigi Bersani nel Partito Democratico. Ed è per questo che l’ho considerata da sempre la proposta migliore possibile.
Non vi sono scorciatoie per cambiare un Paese così malridotto, ma nel contempo portatore di un enorme potenziale da decenni inespresso.
L’unica strada possibile è quella che conduce a rinnovamenti della società civile, attuati attraverso scelte politiche nette (il progressismo in Europa) guidate da una solidità che solo il Partito Democratico a guida Bersani oggi dimostra in Italia.
Siamo ad un giorno dal voto alle primarie. Mi aspetto una vittoria netta del segretario del PD, per le ragioni sopra espresse.
Gli italiani, che a volte sembrano essere attratti sadicamente dal “nuovismo”, domani voteranno in massa per una solida politica di rinnovamento, che merita sostegno.
Ed, in ogni caso, viva le Primarie, nei fatti, unico vero strumento di mobilitazione politica democratica e di massa oggi esistente in Italia e nel mondo
Le Primarie – un buon segno per la democrazia. Intervista ad On. Rosato (PD) nel circuito Radio-Tv REASAT
LE PRIMARIE
(un buon segno per la democrazia)
scarica l’intervista e mettila subito in onda
www.reasat.it/content/
Il buon vento politico lo si avverte dall’importanza che, stampa e radiotelevisione pubblica e privata, uniche cartine al tornasole del grado di libertà esistente in un Paese democratico, stanno dando alle Primarie in atto nel Partito Democratico e nel centrosinistra. Ciò altro non è che esemplare esercizio per un nuovo corso di rinnovamento delle rappresentanze nei due rami del Parlamento e nelle formazione del Governo.
Il problema del rinnovo della classe dirigente del Paese però rimane impantanato tra le maglie della polemica “rottamazione si” “rottamazione no”. Non credo che un rinnovo effettivo e, radicale, possa essere assunto con tali magiche formule.
La REA, raccogliendo gli intenti politici del movimento Innovatori Europei per una Europa Unita su basi innovatrici e politiche, credo che aiuti a dipanare la confusione che si è venuta a creare per via di tale dialettica “rottamatrice” che non fa bene né a coloro che la predicano né, in generale, alla causa di un “reale rinnovamento” del Paese e alla costruzione di una Europa dei popoli e non delle lobby politiche ed economiche-finanziarie.
Infatti per tale duro e complesso cammino non credo possano essere sufficienti gli entusiasmi dei giovani senza l’apporto determinante di coloro che la politica l’hanno saputa onestamente e responsabilmente fare e la sanno governare nei programmi e nei fatti concreti.
Pertanto nelle Primarie del Partito Democratico e del centro sinistra si affermino le nuove proposte, ma se non sono unite all’esperienza di Bersani il rischio dello stallo è altissimo.
Alla prossima tornata, nelle Primarie del Centro Destra, mi auguro si segua lo stesso stile e si dia nuovo impulso alla vita democratica del Paese.
Se condividi il pensiero scrivi CONDIVIDO e invia a antonio.diomede@tiscali.it
San Cesareo, 23 novembre 2012
Presidente REA – Radiotelevisioni Europee Associate
I paradossi della guerra sul budget UE
di Francesco Grillo (Il Mattino, 22 Sabato 2012)
Quello che si è consumato tra ieri e l’altro ieri a Bruxelles sul budget per i prossimi sette anni dell’Unione Europea, deve essere stato uno dei vertici più difficili per Mario Monti: da Presidente del Consiglio si trova a dover minacciare il veto per difendere interessi e, soprattutto, ad assumere un approccio al negoziato che, da ex commissario europeo ai mercati e da docente della Bocconi, sarebbe il primo a criticare. E sono i paradossi di dover navigare nelle due crisi – quella europea e quella italiana – che (nonostante i progressi degli ultimi mesi) continuano ad alimentarsi tra di loro creando una miscela esplosiva sempre pronta ad esplodere.
Da capo del governo italiano Mario Monti non può non essere preoccupato per l’erosione della capacità del nostro Paese di contare in Europa. È un deterioramento che è cominciato, ovviamente, molto tempo fa e che continua. Mentre l’Italia nel 2000 presentava nel suo rapporto con l’Unione un bilancio positivo tra i contributi pagati al bilancio comunitario e le somme che lo stesso bilancio allocava al nostro Paese (laddove la Germania pagava per l’esistenza dell’Unione quanto tutti gli altri contributori netti messi assieme), lo scorso anno, secondo i dati della Commissione Europea, siamo riusciti ad essere lo Stato al quale l’Unione Europea è costata di più – se al contributo pagato sottraiamo i finanziamenti allocati al nostro Paese: in proporzione al PIL l’adesione dell’Italia all’Unione è costata nel 2011 lo 0,31% del PIL contro lo 0,24% della Francia, e, comunque, qualche frazione di punto in più rispetto alla Germania che dà le carte e alla Gran Bretagna che ha da sempre il ruolo di chi è costantemente sul punto di far saltare il tavolo e di dover essere convinto a restare.
Le ragioni della perdita di capacità negoziale dell’Italia sono essenzialmente due.
Da una parte la distribuzione del bilancio che è tuttora allocato per il 77% alla politica agricola comune e alle politiche di coesione e i meccanismi attraverso i quali le risorse destinate a questi due programmi vengono distribuiti: in agricoltura l’Italia è penalizzata da un sistema che premia l’estensione dei terreni più che la produzione e, dunque, finisce con il premiare Paesi territorialmente più grandi come la Francia e la Spagna; dall’altra per i fondi strutturali la penalizzazione è arrivata con l’allargamento verso Est e lo spostamento di risorse Paesi più poveri (con la Polonia che è nel 2011 il maggiore beneficiario di finanziamenti comunitari).
Dall’altra, però, l’Italia risulta ancora più indebolita – sul piano finanziario e della credibilità – dalla capacità di usare queste risorse: proprio sui fondi strutturali, laddove ci giochiamo buona parte delle nostre possibilità, i dati della Direzione Generale per le Politiche di Coesione della Commissione Europea, dicono che con una percentuale di spesa inferiore al 30% dopo cinque dei sette anni del periodo di programmazione che sta per finire, siamo al penultimo posto in Europa; per non parlare delle frodi che tanto tengono impegnata la Guardia di Finanza sui finanziamenti agli agricoltori.
In questa situazione, il presidente del consiglio Monti si trova a difendere ciò che a volte appare indifendibile e che, probabilmente, trova egli stesso imbarazzante.
Ed, in effetti, la proposta presentata in un primo momento dal Presidente del Consiglio Europeo, Van Rompuy, conteneva alcune innovazioni che lo stesso Monti ha più volte incoraggiato: una riduzione assai significativa del peso delle politiche agricole; un aumento consistente della spesa per la competitività, una riallocazione importante dei fondi strutturali dalla spesa per infrastrutture a quella per la ricerca: il risultato però risultava essere per l’Italia – aggrappata, di fatto, alla sola paradossale speranza che le quattro Regioni del Sud continuino a risultare in “ritardo di sviluppo” – indigesto con una diminuzione del venti per cento di finanziamenti comunitari allocati al nostro Paese ed un ulteriore crescita del contributo netto che forniamo all’Unione.
Ed è per l’opposizione dell’Italia, – unita in questo a quella della Francia che ha inventato alcuni decenni fa che la priorità dell’Europa fosse la difesa dei suoi agricoltori, oltre che a quella dei Paesi che maggiormente beneficiano di fondi strutturali – che l’asticella si sta nuovamente muovendo verso un bilancio più simile a quelli del passato.
Potrebbe essere un riduzione dei danni per l’Italia. Ma una sconfitta per chi – in altre sedi – si augura un cambiamento sostanziale del ruolo dell’Europa rispetto alla crisi devastante che stiamo vivendo.
Del resto è una contraddizione che da una parte si invochi un’Unione addirittura fiscale e dall’altra si litighi sull’entità di un bilancio comunitario che pesa, comunque, l’uno per cento del PIL europeo e quaranta volte meno della somma della spesa pubblica degli Stati nazionali. Che si favoleggi di Stati Uniti d’Europa, e, poi, si accetti, sin dall’inizio, un budget fatto per ricavi e spese per Paese che, di fatto, prescinde da valutazioni sull’efficienza con la quale le risorse sono utilizzate dai singoli membri dell’Unione. Che si continui ad invocare crescita basata sulla conoscenza mentre, in queste ore, si stanno sottraendo – come avverte il rettore dell’Università per gli Stranieri di Perugia, Stefania Giannini – risorse destinate a finanziare un aumento nel numero di studenti europei che studiano all’estero, per difendere gli agricoltori francesi dalla competizione dei Paesi del Nord Africa e la possibilità – assolutamente virtuale – della Regione Campania di spendere soldi che probabilmente continuerà a non riuscire a spendere.
Ci sarebbe bisogno di una strategia. Che renda tutte le amministrazioni europee (inclusa la Commissione) responsabili dei risultati ottenuti con risorse che sono, comunque, scarse. Che stabilisca meccanismi attraverso i quali le risorse si trasferiscano – in maniera automatica e trasparente – tra amministrazioni che mostrano diverse capacità. Un budget più flessibile, meccanismi che incoraggino la crescita attraverso il confronto di chi gestisce spesa pubblica, potrebbe diventare la migliore legittimazione possibile per una integrazione che non cali dall’alto.
Ma per riuscirci occorrerebbe superare la logica del breve periodo e degli interessi nazionali. E diventare leader di un progetto che dia – aldilà della retorica e degli appelli smentiti dalle scelte concrete – sostanza all’idea di un’Europa più forte. Dovrebbe essere la priorità di chi provi a governare l’Italia per più di un anno e che capisca che la nostra crisi è solo la manifestazione più estrema della crisi di un intero continente. Utilizzando l’argomento che siamo in fondo noi, quelli ai quali l’Europa costa di più. Quelli che più hanno interesse ad una forte, profonda innovazione.
Il naturale sbocco istituzionale di Innovatori Europei con Bersani
di Salvatore Viglia (su Politicamentecorretto)
Sono stati anni di lavoro silente ma proficuo.
Innovatori Europei, costantemente impegnato nell’innovazione a tutto tondo dell’intero sistema politico italiano, ha rappresentato, per l’area PD, un grande serbatoio di portatori d’energie e talenti fin dal 2006.
La prova dei fatti, l’assente mira “carrieristica” unita alla professionalità ed onestà intellettuale dei suoi componenti, ha posto di fatto l’intero movimento alla attenzione della dirigenza Bersani.
Non solo e per ultimo la costituzione di numerosi comitati territoriali – di cui due anche all’estero – per le primarie pro Bersani leader, ma per storia ed apporto politico frutto delle menti più libere e qualificate che circolano nel paese.
Innovatori Europei si trova dunque a dover fare un salto di qualità. Gli è stato riconosciuto di essere meritevole di incidere e farsi interprete di una esigenza innovativa per linguaggio e per articolazione progettuale degli intenti che vedranno il paese al cospetto della fase politica dei prossimi difficili anni a venire.
Il processo di riconoscimento ufficiale da parte del PD di una dignità istituzionale di IE è maturato, almeno la sua prima fase, naturalmente senza accelerazioni né forzature.
Era quanto di più auspicabile potesse avvenire in un contesto meritocratico e partecipativo che ha mostrato e mostra chiaramente la sua propedeuticità alla presenza impegnativa da protagonisti.
Con Bersani che vincerà le primarie domenica al primo turno, si aprirà un capitolo decisamente nuovo nel quale IE vedrà riconoscersi altri meriti data la predisposizione favorevole del partito e considerato gli entusiasmi che al proprio interno animano l’intero movimento.
Investimenti esteri, quel gap da colmare
di Francesco Grillo (Il Mattino, 20 Novembre 2012)
Sono proprio i viaggi in Medio Oriente, insieme a quelli fatti qualche mese fa in Cina, a chiarire in maniera netta la strategia che il Presidente del Consiglio Mario Monti sta perseguendo: puntare quasi tutto sul proprio prestigio personale; ricostruire l’immagine del Paese con riforme parziali ma che rispondono nei titoli alle richieste delle istituzioni internazionali; investire le proprie capacità negoziali trattando direttamente con i pochissimi detentori di capitali per attrarre la liquidità di cui abbiamo assoluto bisogno. Tuttavia, per un’azione di marketing del Sistema Italia non può bastare Monti e non può essere sufficiente un anno: deve essere stata per questa ragione, per dimostrare quanto sia indispensabile una strategia molto più ampia e a lungo termine, che il presidente del consiglio ha provocatoriamente ricordato alla politica italiana quale potrebbe essere l’effetto dell’incertezza sulla continuazione del percorso appena cominciato.
Un’economia che vuole stare in piedi in un contesto globalizzato deve essere evidentemente capace di attrarre investimenti dall’estero. L’afflusso di capitali porta con sé non solo posti di lavoro, tecnologie, competenze. Ma anche aspettative, domande da soddisfare da parte di clienti esigenti. E competizione di cui le imprese nazionali hanno assoluto bisogno per percepire l’innovazione come necessità assoluta e avere concorrenti da imitare.
Certo attrarre investitori esteri non significa svendere le imprese dalle quali possono maggiormente dipendere la sicurezza nazionale e l’accesso a risorse materiali o a conoscenze indispensabili. E, tuttavia, il consenso degli economisti e il buon senso dicono che quanto più una società è aperta, tanto più essa è forte, abituata a convivere con i rischi che la globalizzazione comporta.
Non è un caso, allora, che l’Italia sia negli ultimi anni quasi scomparsa, soprattutto nei settori più dinamici, dalla mappa delle possibili localizzazioni che le multinazionali considerano quando devono decidere dove insediarsi. Secondo i dati dell’OECD lo stock di investimenti esteri presenti nel nostro Paese è di circa 400 miliardi di dollari: una cifra pari poco più di un terzo dei valori fatti registrare in un Paese come la Francia dove pure si continuano a fare politiche industriali e a difendere campioni nazionali; ma anche decisamente inferiore al volume di investimenti esteri attratti in Spagna che, nonostante una crisi delle finanze pubbliche non meno grave di quella italiana, conta su un’economia strutturalmente più integrata nei circuiti internazionali. Se poi passiamo dal numero sugli stock a quello sui flussi di nuovi insediamenti, il dato diventa ancora peggiore perché ormai la Turchia e l’Irlanda ci hanno stabilmente superato e la Polonia sta per farlo.
C’è poi una differenza – sottile ma sostanziale – tra le diagnosi sulle cause della malattia che facciamo noi stessi da quella che si fa dall’esterno. È molto probabile che gli imprenditori italiani risponderebbero quasi all’unisono che le due ragioni principali della scarsa attrazione sono: l’elevatissima pressione fiscale che ci rende fuori mercato rispetto a concorrenti che, spesso, usano proprio l’arma dell’esenzione per convincere, anzi, molte nostre imprese – soprattutto quelle medie e piccole – a andar via dall’Italia; e il costo del lavoro e, preciserebbe uno come l’amministratore delegato di una grande impresa come la FIAT, la sua rigidità.
Tuttavia, se analizziamo i dati delle organizzazioni internazionali che più autorevolmente misurano il problema, la ragione più profonda dell’uscita progressiva dell’Italia dall’economia globale è l’incertezza. Non tanto quella politica su chi governa il Paese e il suo pur enorme debito pubblico; ma quella assai più diffusa che rende opachi i rapporti tra Stato e imprese, tra Stato e cittadini; e instabili i rapporti tra i cittadini, le imprese stesse. Se è vero che complessivamente per le Nazioni Unite, in Italia è molto più difficile che negli altri Paesi europei “fare impresa”, i parametri di maggiore sofferenza sono in assoluto: la debolezza del sistema giudiziario – e, dunque, la possibilità di far rispettare i contratti – dove l’Italia si colloca al centosessantesimo posto su centoottanta nazioni; e la complessità del sistema fiscale – siamo al centotrentunesimo posto per il numero di giorni impiegati da un imprenditore per stabilire quante tasse pagare che è problema collegato ma distinto da quello altrettanto grave del livello assoluto dell’imposizione fiscale. Efficacia della giustizia e semplicità del fisco: sono, in fin dei conti, tra i misuratori più importanti della qualità di quello che qualcuno chiamerebbe “patto sociale” e che però qualsiasi imprenditore ritiene indispensabile per poter calcolare rischi e possibili ritorni di un qualsiasi investimento.
Conta, poi, tantissimo, la conoscenza, la ricerca ed il sistema educativo: mentre gli Europei continuavano a lamentarsi di concorrenza sleale, centinaia di milioni di asiatici hanno abbandonato la povertà e sono diventati classe media, passando da condizioni di analfabetismo di massa a tassi di scolarizzazione superiori a quelli di un Paese come l’Italia. Ed è questo che rende un Paese, una Regione in grado non solo di attrarre investimenti dall’estero ma di selezionare quelli di maggiore qualità e di estrarne conoscenza per radicarla sul proprio territorio.
Sono investitori un po’ particolari quelli che Monti sta provando a convincere. Certo hanno a disposizione ricchezze favolose e (quasi) completamente libere: basterebbe anche solo il fondo sovrano di Abu Dhabi per comprare – due volte – tutte le società italiane quotate in Borsa. E, tuttavia, stiamo parlando appunto di fondi sovrani, di soggetti che, almeno, sulla carta sono portatori di una sensibilità diversa da quella di imprenditori che decidessero di venire nel nostro Paese per investirvi il proprio lavoro. Di sicuro possono risolvere problemi di breve periodo come quello di Fincantieri ed essere utili anche nel lungo: tuttavia, come Monti sa benissimo, un fondo sovrano – lo stesso ragionamento si applica alla Cina – riflette, in quanto tale, anche strategie politiche dalle quali non possiamo dipendere.
Più in generale, però, se vogliamo che l’Italia rientri in circuiti che non sono solo finanziari, ma di flussi di tecnologie e competenze, il lavoro che Monti ha cominciato deve continuare e diventare più ampio e profondo. Con la consapevolezza che, paradossalmente, più di una lunga guerra di posizione sull’articolo diciotto, potrebbe valere un ridisegno dell’attività dei tribunali che accorci i tempi della giustizia, un ripensamento del fisco che renda il rapporto con lo Stato più certo, uno spostamento di risorse dalle pensioni all’università: cambiamenti che richiedono tempi molto più lunghi e un investimento politico molto maggiore di quello che era alla portata di un governo tecnico.