Innovatori Europei

Significativamente Oltre

It’s the Democracy, Stupid!!! (from Turkey)

Written by Zeynep Gulsah Capan (PhD student in Politics)

The #occupygezi movement has sparked a wave of protests that started in Istanbul but now has spread all over Turkey. It might seem puzzling at first why an essentially environmental issue was the spark when Turkey has been experiencing a series of crisis such as Reyhanli and the alcohol ban. Uncovering why #occupygezi was the spark will also reveal some of the important dynamics at play in the protests.

There has been a process of (dis)locating Turkey, Turkish foreign policy and its place in the international system. As these redefinitions of society, the state and its foreign policy has been undergoing, the attitude of the government has not been to include the citizens in a dialogue about the future of Turkey. The JDP party has proceeded with its scripting of Turkish identity through a monologue. Although this has been a visible attitude with the JDP government for some time, it has become more acute in the last couple of months. Then why was #occupygezi the moment that finally brought the citizens forward.

The reason I think can be found in the polarization of Turkish society. The polarization is not the reason the protests are happening today but rather the construction of polarization discourse was the reason the protests did not happen until today. As opposed to Reyhanli and the alcohol ban, the gentrification of Gezi Park was not and could not be so easily framed within the polarization discourse of ‘supporters of Esad’ vs ‘supporters of Islamic fundamentalism’ and ‘secular lifestyle vs religious imposition’. The #occupygezi movement was about the city of Istanbul, it was about how the people of Istanbul were left out of the deliberation process of deciding the future of its green areas, it was and could be about democracy. This is not to claim that in the cases of Reyhanli and the alcohol ban the democratic process functioned (it did not) but both issues from the start were constructed in such a way that situated them within the binary oppositions of ‘secular’ vs ‘islamist’. Even though there have been op-ed columnists and JDP and RPP officials trying to frame #occupygezi in such a similar manner, it had not been such an issue from its start and thus the attempts to frame it as such failed and is failing. The non-framing issue is related to #occupygezi movement being an environmental issue and not having been contextualized as part of an ongoing ‘identity’ issue like Reyhanli was with respect to Turkish foreign policy and the alcohol ban was with respect to Turkish identity and lifestyle discussions.

#Occupygezi became the spark because it was not part of the 52% vs 48% discourse that has been constantly reproduced by the JDP, RPP and popular media. The binary oppositions of ‘secular’ vs ‘islamists’ and the discourse of polarisation has been instrumental in silencing and marginalizing democracy concerns. The public sphere in the last couple of years had been replete with ‘naming and shaming’. Either you have a side within these binaries or are assigned into one. It had become impossible to criticize the state of democracy in Turkey without being ‘accused’ of supporting the RPP and military interventionism. Likewise it became impossible to criticize the RPP or the legacy of the military without being ‘accused’ of being a JDP sympathizer. The two ‘sides’ were reproduced in every issue and debate whether it be Reyhanli or the alcohol ban effectively silencing discussions on democratisation and limiting the discursive sphere to verbal battles between Kilicdaroglu and Erdogan.

The #occupygezi movement was the spark of the protests because it was not framed within these binary oppositions. The protests undergoing in Istanbul are a way to finally express discontent about the state of Turkish democracy that had been obscured within the constantly constructed discourse of polarization and binary oppositions in the public sphere. It is a way to reclaim a space within this sphere where discussion is possible without it being reduced to 52% vs 48%. It is finally about democracy!!!!

Grillo: enunciazioni sagge, ma atteggiamenti villani

 

(Manuale che vale non solo per Grillo)

di Arnaldo De Porti 

Premetto di non essere un cultore del “grillismo”,  ma un semplice osservatore dei suoi movimenti attraverso i quali egli si propone i suoi obiettivi che, almeno a mio avviso, soprattutto per quanto riguarda la necessità di un forte “repulisti” dell’attuale classe politica essi mi trovano perfettamente d’accordo, io giudico Grillo come uno dei più efficaci e strategici personaggi della recente politica italiana.: il successo macroscopico ottenuto alle politiche che altro è se non il frutto di una strategia che ha coinvolto un po’ tutti e…stravolto l’attuale sistema ?

Penso anche che, a parte gli “addetti” al mantenimento-conservazione di posizioni già acquisite con stratagemmi più meno onesti che vedono l’Italia come il Paese che in seno al parlamento certifica un…guinness della delinquenza che, non ci sia stato un solo elettore, alle politiche, che non abbia fatto un pensierino mirato a mettere una crocetta sul simbolo del M5S ….io, per esempio,  sono uno di quelli che, prima del voto alle politiche,  ha fatto il seguente ragionamento: “ voto il Pd come una volta  solo perché l’incertezza di un movimento appena nato come il M5S potrebbe determinarmi qualche sorpresa dovuta all’inesperienza, all’incapacità da parte di neofiti della politica ecc.ecc..”   Ho sbagliato, ho fatto giusto, non lo so ed ancora non ho elementi per dire di aver optato davvero per il male minore…”   Di una cosa sono certo e cioè che, se per paradosso le….amministrative recenti fossero state politiche come quelle del febbraio scorso, Beppe Grillo forse avrebbe raddoppiato i consensi.

Molti hanno confuso la strategia  di Grillo and co. con mancanza di democrazia interna: nulla di più sbagliato ! Egli infatti, aprioristicamente conscio che la sua base  non fosse all’altezza, ha preferito fare tutto da se, facendo apparire alla pubblica opinione di essere come…Berlusconi che impartiva il menù politico da Arcore.  In questo però c’è una differenza sostanziale: Grillo voleva e vorrebbe ancora fare gli interessi del popolo italiano, mentre Berlusconi aveva ed ha gli occhi puntati verso i suoi interessi personali e dei suoi accoliti con i quali ha costruito una vera e propria oligarchia, di cui l’Italia ne sta patendo le conseguenze di fame, di suicidi, di fallimenti e di immoralità civile e giudiziaria.

Dove sbaglia Grillo ? In primis, giudicando la classe politica attuale composta solo da …cani e porci e, contestualmente, offendendo in maniera nauseante e ribrezzante anche le persone per bene (caso Rodotà docet !)

A questo punto il futuro per Grillo,  almeno a mio avviso, si presenta molto e molto discutibile.

Atteso che, risalire dal deludente risultato delle amministrative per avvicinarsi quanto meno al risultato delle politiche: un’impresa ciclopica (con le amministrative infatti si è mangiato tutto l’ottimo risultato di febbraio 2013), a Grillo non  resta  altro se non :

 

1)  dialogare con coloro che egli ritiene meno  “colpevoli” di aver portato l’Italia alla rovina, magari spiegando apertamente ed umilmente  alla pubblica opinione questa sua necessità di un dialogo che non avrebbe mai voluto; 

2) cambiare subito strategia della comunicazione optando soprattutto per le varie emittenze televisive che, in questo momento,  andrebbero a ruba pur di averlo dopo i suoi perentori ed assoluti dinieghi, ed anche in questo caso, spiegando agli Italiani che la sua è stata una strategia che ha dato i suoi buoni frutti;

3)  usare un po’ di educazione, almeno verso le persone per bene in quanto non si può fare di ogni erba un fascio;

4)  confessare apertamente perché sin qui egli non ha voluto usare i canali mass-mediatici tradizionali, circostanza che, stante il risultato ottenuto alle politiche, forse oggi verrebbe capita in toto.

 

Di certo, per Grillo, altra via da percorrere non esiste. A meno che egli non voglia buttare a mare tutto il suo lavoro pregresso, senza prendere atto che – come mi piace spesso dire – che un bilancio, nelle sue varie poste,  presenta l’attivo, ma anche il passivo..  Passivo che, in questo caso, per Grillo, si identificherebbe con il pregresso “marpionismo” della politica che, giustamente va buttata a mare.

Convegno 11 Giugno: Associazionismo e Italiani nel mondo – rapporti e prospettive

L’on. Angela Fucsia Nissoli Fitzgerald è lieta di invitarvi al Convegno   

Associazionismo e Italiani nel mondo:  rapporti e prospettive  (Bozza) 
Camera dei Deputati Sala delle Colonne  Via Poli 19 Martedì 11 giugno 2013 – ore 10.30 – 14:00  
Introduce Angela Fucsia Nissoli Fitzgerald   Deputata al Parlamento italiano 

Salutano 

Mario Monti                                                 Senatore  

David Thorne                                                Ambasciatore USA  in Italia

John Viola                                                     Presidente e COO  NIAF

Richard Hodges                                           Presidente  “The American University of Rome”  

Intervengono

Emma Bonino                                              Ministro Affari esteri

Mons. Giancarlo Perego                              Direttore Generale Fondazione Migrantes

Giovanni Castellaneta                                  Ambasciatore

Gianni De Michelis                                      Presidente IPALMO

Vincenza Lomonaco                                    Direttore Centrale per la promozione della cultura e della lingua italiana                 

Franco Narducci                                           Presidente UNAIE

Joseph Del Raso                                           Chairman NIAF

Gianni Bottalico                                           Presidente ACLI – Presidente FAI

Rino Giuliani                                                Presidente CNE

Ornella Flore                                                 Istituto Italiano di Cultura – New York

Mario Marazziti                                            Deputato della Repubblica italiana

Luigi Bobba                                                  Deputato della Repubblica italiana  

 
Tavola rotonda tra gli eletti all’estero nel Parlamento italiano e i rappresentanti dell’associazionismo  
Modera Gianni Lattanzio – Associazione Dialoghi    
                                              
RSVP: fucsiausa1@gmail.com  entro il 7 giugno 2013 Per accedere alla Sala delle colonne è obbligatorio l’uso della giacca

Piazze vuote, urne vuote, grandi speranze

di Michele Mezza

Ma davvero è andata così bene? davvero  dobbiamo sfregarci le mani per il voto? A 36 ore dalla chiusura delle urne, il chiacchiericcio monta e la psicanalisi prevale sulla politica.

Lo spettro pare svanito, i cattivi perdono, il prepotente sembra nell’angolo e i buoni si rasserenano. Ma il tutto accade senza voti. O meglio con i voti delle piazze, solamente. 

Infatti il dato che a me pare più rilevante di queste votazioni di primavera sotto la pioggia è la sintonia fra le piazze e le urne.

Si era già intravista alle ultime politiche, ma  alle amministrative è diventata una regola fissa: piazze vuote, urne vuote.

Negli anni precedenti era invalsa una relazione inversamente proporzionale: piazze piene urne vuote e vice versa.

Cosa ci dice questo nuovo  fenomeno:  si è squagliata la militanza, si è rarefatto l’apparato, e persino i movimenti di opinione si dissolvono.

Non solo  le vecchie identità, o narrazioni, come dicono i colti, sono ormai  mute, ma anche la partecipazione a identità collettive  non reggono granchè. Non si milita per  dispetto a qualcuno.

Non ci si muove solo per adesione. Ci si muove, quando ci si muove, per comune sentire, per compatimento, in senso latino: cum patio. Bisogna condividere una percezione, un sogno o un incubo.

La disgregazione dei ceti sociali  forti -lavoro e proprietà- ha lasciato  posto a sentiment politics, come dicono i sociologi americani: a stati d’animo, ad emozioni comunitarie. La giustizia, la morale, il rigore, il nord, l’anti elitarismo, il populismo, la partecipazione, la rottamazione. Queste sono state le  tappe di avvicinamento a questo nuovo fenomeno che oggi  accomuna l’Italia alle dinamiche anglo sassoni, dove, come spiega Bauman, le lotte di classe sono sostituite alle lotte per apparire.

Ma non è un fenomeno fatuo, frivolo, banale. Apparire significa essere, affermarsi, interferire, non subire. E’ qualcosa di molto profondo, è l’inizio di un percorso che  ci porterà ad una nuova forma di politica dell’immaterialità. Il punto nodale consiste non tanto nella condivisione di un sentimento.

Non sarebbe una novità.

La lotta sociale, la battaglia per la democrazia, l’emancipazione delle donne, i conflitti razziali, le contrapposizioni generazionali, erano tutti scontri di emozioni, prima ancora che di interessi.

Quello che sta cambiando è che oggi ognuno di noi vota, si esprime, parteggia, aderisce, milita solo quando è parte costituente del sentimento, solo se è elemento promotore, o almeno di condivisione attiva, dello stato d’animo.

Grillo aveva creato questa magia. Prima di Lui la Lega era riuscita in alcune aree a costruire la comunità di sentimenti.

E ancora prima è stato  Berlusconi  , forse inconsapevolmente, ad allestire uno straordinario cantiere degli stati d’animo,grazie alla sua egemonia televisiva: la libertà, il successo, il machismo, la ricchezza, l’anti politica. E cosa altro aveva fatto la sinistra quando innestò quel processo che Gramsci chiamò mirabilmente egemonia culturale: l’emancipazione, il progresso, la lotta di classe, il futuro, i giovani, la rivolta, il potere.

Ma tutto questo era basato su un modello top-down, su un unico centro trasmittente e tanti  riceventi.

Ora invece cambia questa dinamica. Il modello non è più il broadcasting, la TV, da uno a tanti, ma  si impone il modello a rete, il social networking: da uno a uno, fino alla vittoria. Obama insegna.

La campagna elettorale si fa chiacchiera per chiacchiera, cena per cena, porta a porta, sito per sito, forum per forum chat per chat: non per diffondere ma per condividere.

L’astensionismo è una conseguenza: io non voto perchè non li incontro mai dove sono io, non li vedo mai dove parlo io, non li ascolto mai dove discuto io. Qui inizia la contaminazione: io a quelli non glielo dò il mio voto. Si figuri , signora mia.

Il popolo si ritira, si rintana nei propri ambiti di opinione: l’ufficio, la famiglia, il condominio, il circolo, l’azienda, il bar,il web.Il resto è nemico.

Rimangono sulla scena politica, nelle piazze e nelle urne  i  clienti, gli staff, gli aspiranti, i sedotti, qualche seduttore.Il 50 % del paese.

La gente normale chiacchiera, brontola, protesta, si consola nel linciaggio dei vertici.

Lungo questo crinale troviamo  una perfetta convergenza fra  la piazza e le urne: si partecipa se si è protagonisti, altrimenti si sta a casa e non si vota.

Non serve più un partito che organizzi, serve un partito che ascolti. Mai come ora servirebbe un intellettuale collettivo che  orchestri, non che insegni. Non servono alfabetizzatori gramsciani, ma moderatori digitali. Serve una rete di relazioni, di messaggi, di discussioni, di proposte di progetti, di delibere, di obbiettivi. Serve un senso comune non una bandiera.

Serve  un calendario per farci capire quanto tempo è passato dalle elezioni militanti. E farci ricordare quello che si dicevano all’inizio degli anni ’60 gli intellettuali cattolici, senza chiesa, e i comunisti senza partito: il consumo riclassifica la società, la fabbrica militarizza i bisogni, la politica deve dare aria alla società, bisogna essere più bravi del capitale.

Poi finì la ricreazione, e tutti tornarono nelle caserme ideologiche e si iniziò a giocare al 68.

Ora si ripropone un’occasione: niente ideologie forti, grande protagonismo sociale, leaders disoccupati, e centri di comando screditati.

E se davvero ci credessimo alla democrazia  come benefica confusione e creativo disordine?

La generazione dannata: la disoccupazione giovanile come questione morale

Di Francesco Grillo su Il Messaggero

Fa bene Enrico Letta a fare della lotta alla disoccupazione giovanile una questione morale di primo ordine. Nel 2012 sono stati un milione e trecentomila i giovani che in Italia erano fuori da qualsiasi impegno di studio o di lavoro: è un dato che la crisi economica ha reso ancora più drammatico, raccontando di milioni di esistenze che rischiano di perdere senso. In realtà però, anche nel 2007, prima della grande crisi, l’Italia era il Paese che faceva registrare quella che era, di gran lunga, la più alta  percentuale di persone tra i 15 e 24 anni completamente inattivi. Per reagire non è sufficiente aspettare la crescita, e, neppure, appaiono risolutivi gli interventi sulle regole che disciplinano il mercato del lavoro. La priorità, che certamente Enrico Giovannini ha ben presente, è costruire meccanismi in grado di avvicinare in maniera sistematica ed efficiente le competenze degli individui (non solo quelli giovani) alle richieste delle imprese.

In effetti, il fatto che, dovunque, in Europa e nel mondo, la disoccupazione giovanile è significativamente più alta di quella relativa alla popolazione nel suo complesso costituisce un paradosso doloroso che gli economisti non riescono ancora a spiegare: in teoria le persone giovani dovrebbero avere una flessibilità maggiore ed un bagaglio di conoscenze maggiormente adatto per inserirsi in un mondo del lavoro dominato dalle tecnologie. Così non è, e, forse, il dato sulla disoccupazione giovanile suona anche come atto di accusa ad un apparato produttivo che, nel suo complesso, appare privilegiare la continuità sull’innovazione, nonostante la richiesta continua di flessibilità che viene dal mondo delle imprese. Ma il numero ancora più drammatico è, come si accennava, quello dei giovani che non lavorano e neppure studiano (not in employment, education or training): in Italia un giovane su cinque si trova in questa situazione, una percentuale superiore a quella della Spagna che è la pecora nera della zona Euro per ciò che concerne la disoccupazione; nel nostro Paese si trovano, peraltro, più di un quarto dei cinque milioni di giovani inattivi che si contano nell’intera zona Euro. Un primato triste che è, come abbiamo detto, solo in parte conseguenza della crisi e che, anzi, rischia di compromettere per generazioni la capacità del Paese intero di ricominciare a crescere: studi condotti in Paesi diversi quanto lo possono essere Stati Uniti o Brasile, confermano che persone restate fuori dal mercato del lavoro e dello studio negli anni più critici della propria formazione, hanno minori probabilità di trovare lavoro, tendono a perdere fiducia nei propri mezzi e a sentirsi meno inseriti nella propria comunità.

Ma cosa mettere in cima alle priorità di un Ministro che provi con pochissime risorse ad affrontare il problema in un momento così grave? Di sicuro la qualità della regolamentazione può aiutare. Tuttavia, tale nozione non corrisponde sempre al concetto di flessibilità e i dati dimostrano che non sempre un intervento sui contratti è sufficiente: anche se l’Inghilterra e gli Stati Uniti hanno, secondo il World Economic Forum, un vantaggio competitivo su questo aspetto, ciò non toglie che la percentuale di giovani completamente inattivi era superiore in questi due Paesi (attorno al 14% secondo l’OECD) rispetto alla Francia (12) e, ancora di più, rispetto alla Germania (9). Ed, in effetti, ciò che conta – e conta soprattutto per un giovane – non è solo di entrare in azienda, ma anche di avere un periodo di addestramento sufficientemente lungo che gli consenta di acquisire competenze trasferibili al prossimo lavoro.

In effetti, più della crescita e della rigidità dei contratti, i giovani europei ed, in particolar modo, quelli italiani, appaiono fortemente penalizzati da un altro fattore: il forte disallineamento tra le richieste delle imprese e le competenze individuali che i giovani europei maturano a scuola e nel proprio ambiente formativo. Per cinque milioni di giovani che – nella sola zona Euro – non hanno assolutamente nulla da fare, ci sono  – come dimostrano studi di McKinsey –  centinaia di migliaia di posizioni di ingresso nelle aziende europee che non sono occupate.

Ciò, secondo alcuni,  sembra mettere in discussione la capacità che i giovani europei veramente hanno di adattarsi ad un mondo che è molto cambiato rispetto a quello dei propri genitori e che continua a farlo. Ma soprattutto esige un investimento da parte dello Stato – e della Commissione Europea che dovrà farlo per aumentare l’efficienza dei finanziamenti comunitari da spendere nei prossimi sette anni – nel rafforzamento e riqualificazione dei meccanismi di formazione professionale e degli altri servizi che dovrebbero far incontrare domanda e offerta di lavoro.

Qui però c’è un buco nero disegnato dall’esperienza degli ultimi anni: perché se è vero che bisogna investire di più in questi strumenti e altrettanto vero che – come ebbe modo di dire il Governatore della Campania, Bassolino, qualche tempo fa – la formazione spesso serve solo a pagare lo stipendio dei formatori.

La ricetta è, in teoria, semplice: pagare chi forma sulla base del numero e della qualità dei posti di lavoro generati; privilegiare fortemente i progetti al cui costo contribuiscano le imprese presso le quali la formazione si svolge; dare agli stessi beneficiari degli interventi la possibilità di spendere il proprio capitale formativo (voucher) presso l’agenzia che garantisce i risultati migliori.

Anche in questo caso ci sono interessi (economici) che producono resistenza al cambiamento; la crisi, il suo contenuto drammatico che la disoccupazione giovanile rappresenta così efficacemente, rende, tuttavia, il compito del Ministro Giovannini meno arduo e il cambiamento inevitabile.

Verso Anno Uno 2014 in Italia?

 

 

di Innovatori Europei

Lo si sentiva nell’aria da qualche tempo. Che l’Italia 2013 è Italia Anno Zero.

Zero nel senso dell’azzeramento, che è economico, sociale e politico.

Ma è chiaro che quando si arriva allo zero ci sono solo due possibilità davanti: rimanere fermi, a zero appunto, o tornare a crescere, ed andare verso uno.

Ci sono sempre più motivi, a voler essere anche un po’ ottimisti, per pensare che per l’Italia valga la seconda opzione.

Fino ad oggi tali ragioni erano di ordine macro – economico e di natura internazionale.

La drastica cura finanziaria montiana di “austerity depressiva”, se da un lato ha portato il Paese vicino ad un nuovo precipizio (non finanziario questa volta), tramite un miscuglio micidiale di instabilità di finanza pubblica e crollo nell’economia reale (industria e famiglie), dall’altro ha portato ad un rinnovato rispetto delle istituzioni europee verso una Italia che fatto bene – troppo, secondo molti italiani – i compiti di risanamento a casa.

Ed ecco allora che il nuovo governo Letta si è potuto da subito dedicare ad aprire dei capitoli fondamentali per il rilancio del sistema Paese. Discutendo di selettività dei tagli della spesa pubblica improduttiva, di revisione del finanziamento pubblico ai partiti, delle modalità di pagamento dei crediti insoluti della pubblica amministrazione alle imprese.  Rivedendo in ottica di progressività il contributo della patrimoniale sugli immobili (IMU) e provando ad eliminare il previsto aumento dell’IVA. E portando in Europa le esigenze di un Paese stracolmo di disoccupazione e di una industria morente.

Ed è di ieri la notizia che l’Italia uscirà a breve dalla procedura europea per deficit eccessivo, potendo rapidamente liberare risorse per la lotta contro la disoccupazione giovanile (e non solo).

Ma è di oggi la notizia che certifica le altre. Alle elezioni amministrative, al netto di un serio astensionismo avvenuto principalmente nella capitale, il voto premia i due grandi partiti di governo, Partito Democratico per primo.

Il governo delle larghe intese sembra ricevere supporto da parte dell’elettorato e da domani avrà più forza per condurre il Paese verso una crescita che potrebbe partire lenta ma divenire di lungo periodo.

Il Movimento Cinque Stelle, mentre riduce (quasi dimezzando) il proprio elettorato, come da molti previsto (dopo il rifiuto al dialogo di governo con il PD), si avvia verso una fase politica matura, che sarà probabilmente denotata da maggiore qualità di proposta (e il candidato romano De Vito ne è l’immagine).

Nel Terzo Polo emerge una nuova potenziale leadership, che potrebbe caratterizzare una nuova coalizione di Centro – Sinistra: quella dell’ingegnere Marchini, vero outsider della società civile di queste elezioni amministrative romane.

La sua performance – da civico – dà ragione ad esperienze come quella di Innovatori Europei, oggi in grado di rappresentare significative fette di elettorato che non si collocano nel tradizionalismo politico, ma che hanno voglia di esprimere le proprie idee, scendendo in campo.

Ci aspetta dunque un secondo semestre 2013 in cui ci saranno tutte le premesse positive – economiche e politiche – per riportare il Bel Paese alla crescita nell’Anno Uno 2014.

Un anno che sarà per forza di cose partecipato.

Sbagliare anche questa volta sarebbe imperdonabile davvero.

 

Avanti!, più Luci che Ombre

di Giuseppe Mazzella

 

Ugo Intini è oggi un uomo di  72 anni che  ha dedicato oltre mezzo secolo della sua vita  all’ Idea del Socialismo Riformista  facendone una “ religione laica” tentando di coniugare la teoria con la pratica. Si iscrisse al Partito Socialista Italiano a Milano, dove è nato e dove vive,  a 18 anni quando frequentava il liceo classico e si presentò a 19 anni nella redazione milanese dell’ “ Avanti!”, al centralinista ,con la più  banale delle  richieste: “ Sono un compagno e vorrei fare il giornalista, forse può servire una mano”. Ha dato una mano all’ “ Avanti!” per 43 anni  fino a diventare direttore e lo è stato per 9 anni dal 1978 al 1987, il periodo di massima espansione del PSI.

Nel PSI è  sempre stato un “ autonomista”, cioè nel partito della “ Prima Repubblica”   più aperto  di tutti gli altri alla democrazia interna con  una vastità di correnti che si chiamavano “ Riscossa”, “ Presenza”, “ Impegno”, “ Rinnovamento”, “  Unità”, e che si dividevano sull’ eterna questione del rapporto con i comunisti  nell’ eterna questione  di ben rappresentare il movimento operaio, Intini per tutta una vita ha sostenuto che una “ cosa” era il “ socialismo” ed un’ altra “ cosa” era il “ comunismo” e che le due “ cose” non erano coniugabili. Sostenere questo negli anni ‘ 60 e ‘ 70 del ‘ 900, quello che  il grande storico  marxista inglese, Eric Hobsbawm, chiama il “ secolo breve” e che è invece il “ secolo lunghissimo”, non era facile. Trovare uno spazio “ autonomo” per il PSI schiacciato  tra la DC ed il PCI era impresa titanica.

Ugo Intini non si è  mosso di un millimetro da quelle convinzioni giovanili nella buona e nella

cattiva sorte. Dopo la dissoluzione del PSI nel 1993 non è salito sul carro dei  nuovi vincitori della destra berlusconiana ma è rimasto nella sinistra riformista tentando una ricostruzione socialista prima con lo SDI e  poi con il PS di Boselli. E’ stato deputato nella Prima e nella Seconda Repubblica e vice ministro degli esteri nell’ ultimo Governo Prodi.

Dopo questo lungo percorso di vita pubblica  ha deciso di  lasciare una testimonianza e da buon giornalista ha voluto raccogliere i “ documenti” per inserire le sue “ riflessioni”.

Così ha scritto  un libro sulla storia dell’ “ Avanti!” ( si scrive sempre con il punto esclamativo) dove ci ha messo anche la sua storia personale,  le sue esperienze, i suoi ricordi, le sue verità e lo ha scritto in prima persona. Il libro si chiama: “ Avanti!, un giornale, un’ epoca – 1896-1993. Le sue pagine, i suoi giornalisti e direttori raccontano un secolo. Da Bissolati a Mussolini, Gramsci, Nenni, Pertini, Craxi” ed è edito da un piccolo editore romano “ Ponte Sisto”. Ne è venuta fuori un’ opera monumentale di 758 pagine che attraverso le cronache ed i commenti dell’ “ Avanti!” raccontano tutto il Novecento proprio alla maniera “ temporale” di Hobsbawn perché il Novecento dei Grandi Fatti comincia proprio alla fine dell’ Ottocento e finisce non nel 1999 ma almeno 10 anni prima, ma forse continua perché se è  finita la Guerra Fredda  questa seconda globalizzazione aggrava il divario tra ricchi e poveri e fa aumentare e non diminuire la disoccupazione in tutto il mondo dall’ unico sistema economico capitalistico.

Raccontando la nascita, l’ espansione e la morte dell’ “ Avanti!” Ugo Intini racconta veramente un’ epoca, racconta tutta la storia del Partito Socialista Italiano e dei socialisti “ stretti” nello spazio angusto tra i comunisti ed i democristiani. Ma chi erano questi socialisti? Cosa volevano? Volevano stare con Mosca o con Washington? ma cos’ era questo loro “ riformismo” ? chi era Nenni, questo romagnolo che prima era “ massimalista” eppoi divenne quasi socialdemocratico senza mai lasciare la sua “ casa”? Cosa significava questa rissosa costellazioni di correnti all’ interno del PSI? Perché una, due, tre “ scissioni”  a destra ed a sinistra e poi una “ unificazione”? ma  da dove arrivavano i soldi per il finanziamento dei socialisti?

Intini fa parlare soprattutto l’ “ Avanti!” questo giornale  nato nel giorno di Natale del 1896 , come un “ Gesù laico”  per  istruire ed informare la classe operaia, per formare una classe dirigente, per realizzare una democrazia politica autentica. I successi dell’ “ Avanti!” sono il successo del riformismo così come le sue sconfitte.

Bisogna leggere e studiare questo” librone” che è stato presentato venerdì 17 maggio 2013 nel corso di  una piccola riunione svoltasi all’ Hotel Carlo Magno di Forio per iniziativa dell’ editore e moderata dal giornalista Raffaele Indolfi che fu corrispondente dell’ Avanti! Da Napoli negli anni ‘ 70 e ‘ 80 prima di diventare redattore de “ Il Mattino”. Vi hanno preso parte oltre a Ugo Intini, l’ ex senatore socialista Luigi Covatta, che oggi tiene in vita  come direttore “ Mondo Operaio” il mensile di riflessione dei socialisti per  mezzo secolo, e l’ ex deputato comunista Berardo Impegno mentre Vito Iacono ha tenuto l’ introduzione. C’erano poche persone. Qualche giovane candidato nella lista civica “ Il Volo” al Comune di Forio ed alcuni vecchi socialisti come chi scrive questa nota, l’ ex eurodeputato Franco Iacono, l’ ex consigliere regionale Antonio Simeone e qualche altro. Ma non è stata una riunione di “ amarcord” o di “ combattenti e reduci” come ce ne sono state molte in questi ultimi vent’anni perché il PSI è morto nel 1992 , proprio nell’ anno del suo centenario, distrutto da quella che si chiamò “ tangentopoli”. L’ incontro meritava un uditorio molto più vasto.

Intini dedica  un intero capitolo al biennio 1992-1993 che intitola “ il crollo” e non nasconde nulla.

Covatta ha sottolineato che “ al tempo della prima Repubblica c’ erano i giornali di partito che contribuivano ad elaborare la linea politica, come l’ “ Avanti!”, mentre oggi ci sono i giornali-partiti che pretendono di essere loro stessi partito”.

Berardo Impegno, 68 anni, professore di filosofia,ha sviluppato un intervento profondo portando la sua esperienza personale. E’ nato socialista.  Giovanissimo  si iscrisse al PSI che lasciò nel 1964  con la scissione di sinistra del PSIUP poi nel 1972 dopo lo scioglimento del PSIUP la sua “ confluenza” nel PCI  fino a diventare deputato e segretario della Federazione di Napoli.

“ Questo libro si legge come un romanzo storico – ha detto Impegno –  ed apre interrogativi forti come: qual è il senso della Politica? Quali insegnamenti si possono trarre dal passato di rotture, scissioni, unificazioni, della sinistra  del PSI e del PCI per proporre oggi una “ nuova sinistra”?

Impegno si è definito un “ socialista eretico” che è “ confluito” nel PCI ma che ritiene oggi necessario costituire un “ socialismo liberale” di cui i socialisti sono stati  gli anticipatori.

Ed infine Impegno ha espresso “ stima ed ammirazione” per Ugo Intini per  il suo “ coerente impegno politico” e per la sua incessante apertura al “ dialogo nella sinistra”.

A questa riunione dopo molti anni, anni di liberismo sfrenato con la distruzione dello “ stato sociale”, della “ spettacolarizzazione della ricchezza”  e della crescente povertà, della distruzione della Politica con la P in maiuscolo, ci siamo chiamati “ compagni” come si chiamavano i socialisti, i comunisti e gli aderenti al piccolo Partito d’ Azione.

E’ una parola di “ conforto e di gioia” ricorda Ugo Intini che fu  inventata da Edmondo De Amicis, quello del libro “ Cuore”, socialista, in un fondo sull’ “ Avanti!” del 1 maggio 1897.

“ All’ “ Avanti!”  e tra i socialisti per un secolo si  respirerà sempre questo  spirito, si avvertirà sempre l’ appartenenza ad una comunità di “ compagni” scrive Intini.

L’ osservazione di Intini è stata così toccante che ho ritenuto di intervenire ricordando quella poesia di  Paul Elaurd dedicata ad un martire della Resistenza francese, Gabriel Péri, dove il poeta dice che “ ci sono parole che fanno vivere e sono parole semplici. Amore, Giustizia, Libertà. Certi nomi di fiori e certi nomi di frutti. La parola coraggio, la parola scoprire, la parola fratello e la parola compagno. Péri è morto per quel che ci fa vivere. E diamogli del tu gli hanno spezzato il petto. Ma grazie a lui ci conosciamo meglio. E diamoci del tu la sua speranza è viva”.

Ecco: a me pare che la lunga storia dell’ “ Avanti”, del Partito Socialista e dei suoi uomini e donne, grandi e piccoli, della sua tragedia finale,   come ogni “ storia vivente” è fatta di Luci ed Ombre ma le Luci sono ampiamente superiori alle Ombre tanto che richiedono di essere riaccese per il Mondo che  ne ha bisogno, per le nuove generazioni che debbono riconquistare la Speranza per una società civile più giusta e più umana che si può realizzare solo con un “ socialismo dal volto umano”.

Intini chiude il suo libro con la rilevazione dolorosa che l’ “ Avanti!” chiude nel 1993  senza un saluto di commiato” come un vecchio che muore di inedia dopo aver molto vissuto. Dopo una storia che, credo, valeva la pena di raccontare”.

 

 

 

Ripensando il Partito Democratico

 

di Giuseppina Bonaviri
La scorsa primavera, dopo anni di militanza civile e politica con alle spalle la costituente del Pd che avevamo fortemente voluto e che ci aveva visti in prima linea con il gruppo di donne e giovani IE, una soddisfacente candidatura alle regionali nel 2010 decisi di candidarmi alle amministrative del capoluogo ciociaro in qualità di Sindaco Indipendente con due liste civiche pure.
Volevamo lanciare un segnale forte al partito, meglio ai partiti. Il mio stato d’animo era chiarissimo: bisognava remare e con fatica contro lo status quo regnante, contro la deriva politica di un centro sinistra in autodissoluzione, criptico, garante solo in conservatorismo e rendite di posizione.
Impossibilitati a riconoscersi in spazi di malcostume, al contrario, certamente protesi all’interno di un pensiero unitario, predominate a tutela di eguaglianza e dello stato di diritto leso che negli anni era stato capace di arricchire la storia della sinistra che, nonostante minoranza, aveva comunque saputo condizionare le classi dominanti -divenendo una casa comune, sede di confronto democratico e leale, vibrante – mai avremmo potuto negare le proposte della base e degli elettori.
Chiedevamo, con i tanti compagni di viaggio che mi hanno incoraggiato e sostenuto, percorsi di riflessione aperti e criteri chiari per rilanciare una politica visionaria, alternativa e vincente: quella che aveva caratterizzato la storia migliore del popolo italiano. Ci domandavamo come rivitalizzare una sinistra che stava morendo, che perdeva la bussola, che avvizziva.
Non potevamo credere che lo sforzo che sei anni prima, per la nascita del Pd, ci aveva visti uniti, forti e sicuri andasse perso. Come tornare, allora, a diversificare un progetto e un consenso alternativo al malgoverno e al caos regnante in Ciociaria e tipico di tutta la Nazione, come ripensare un Pd e una sinistra protagonista che avrebbe potuto permettersi il superamento della Seconda Repubblica e che invece la teneva e la tiene congelata?
Per molte settimane ci siamo domandati come e dove era stato commesso l’errore della classe politica italiana che, oggi più dello scorso anno, si trovava nella incapacità di influenzare la vita nazionale, la politica locale, gli assetti sociali e culturali di intere fasce di popolazione. Le risposte era tante come i dubbi che ci assalivano. Non potevamo accettare la subalternità all’involuzione democratica determinata ed imposta coscientemente da costoro, non si poteva ammettere che un partito pensato per chiudere la transizione italiana stava invece fallendo. Non si poteva permettere che le debolezze delle classi meno agiate- che la sinistra avrebbe dovuto rappresentare- continuassero a subire insulti per diventare merce di scambio.
Andava, come va riaffermato il primato dei beni comuni.
La degenerazione nello “scambio” locale diveniva rigetto di quelli spazi di partecipazione democratica che non ci potevamo permettere di ridurre solamente a macchina di consenso per i notabili territoriali come anche le primarie andavano e vanno ripensate fuori “dall’autoconservazione della specie” di leader mediatici che continuano ad autorizzare la nascita di micro gruppi di clientele poste sotto un simbolo ed una idea che fu, un tempo non lontano, attrattiva ed imponente.
Adesso rimane il residuo di una politica debole e non convincente verso un elettorato che manifesta la sua insoddisfazione, all’interno del Pd col 40% dei voti ai nuovi rottamatori all’esterno col 25% al M5s, con tre quarti dell’elettorato esterno al Pd e che così ne riesce a detenere solo un quarto. Un Pd che continua a tenere fuori dal dibattito persino grandi personalità perdendo consensi, inoltre, proprio dal ceto meno agiato.
La mia candidatura da intellettuale indipendente a Frosinone non è stata indolore. Ha testimoniato, anticipatoriamente, le pene che si pagano causa la frammentazione e la inedita incapacità di riconoscimento delle differenze identitarie, della compattezza fuori dai conflitti locali.
Chiedevamo e chiediamo partiti ed amministratori non oscurati nelle pieghe della spesa pubblica, non incapaci di parlare ai tormenti della società e nella impossibilità di stimolare una diversa governabilità.
Chiedevamo -ed ora più di allora- capacità di innovazione e di pensiero critico avendo sottoscritto, con il nostro coraggioso gesto, un inno alla creatività sociale e civica: ci si rispose e si continua a rispondere con l’autoreferenzialità di un ceto politico sterile e cannibalesco che non mobilita coscienze, confronto pubblico e informato ne tantomeno apertura alle idee e al cuore.
Non mi ritrovavo in questa pantomima. Non potevamo accettare un partito feticcio che invece avevamo desiderato tanto per passioni lontane e visioni distinte, differenti, una sinistra ostile al suo elettorato e troppo prudente, lacerata da lotte interne, caratterizzata nei territori da personaggi senza storia, supini al potere.
Quando un partito auto digerito dal suo cambio di linea etico non si accorge che ha fatto a meno dell’Italia reale, di quell’Italia che unica e sola può rappresentare innovazione e crescita, quel partito non è più riconoscibile e non può rappresentarci.
Questa che raccontiamo è la parabola di una classe dirigente chiusa nella voragine dei propri veti, che ha interamente fallito, che dovrebbe avere il coraggio, ancor prima che si rilanci un progetto serio, di dimettersi tutta a partire proprio dai corpi intermedi e dalle sedi periferiche che ha volutamente dimenticato.
Per vincere lo smarrimento attuale c’è bisogno, allora, di abbattere la sfiducia e riscattare gli elettori rendendo possibile la rinascita di quei percorsi propulsivi che l’ultimo Pd, spento e comatoso, non ha permesso. Un rinnovato cosmopolitismo inizia dal “passare la mano” andando fuori dai personalismi e consociativismi, dallo zoccolo duro di gruppi di potere trasversali, valorizzando il principio di rispetto verso la cittadinanza attiva.
E nonostante tutto, paradossalmente, sarebbe sbagliato ritenere che il problema sia separabile dalla soluzione della crisi del Pd. Va ammesso che il Pd potrebbe rappresentare quel partito di sinistra nella cultura moderna, quella formazione capace di virulentare i luoghi del dibattere, capace di plasmare una società forte, di ascoltare e di interagire con la base solo se tornasse ad avere il coraggio di rischiare con la certezza di rimanere la solida architrave del sistema politico italiano in liquefazione.
Si sceglie un partito per dare un contributo all’amor patrio non si sceglie la politica come mestiere. Il futuro della sinistra non può rimanere una ipotesi.
Ricreare la giusta tensione vuol significare muoversi verso qualcosa. Penso ad un partito di sinistra che si lasci fecondare continuamente, che faccia della pulsione e dell’eros la sua carta valoriale, che non abbia timore a desiderare l’altro. Non è più il tempo delle economie finalizzata all’utile. Favoriamo la produzione di coscienze sane quale basi della cosa pubblica, mobilitiamo intelligenze, promuoviamo confronto aperto.
Ritenendo di non dovere essere silenti, caricandoci il peso dell’attuale spaesamento-sgomento, della protesta, della delusione e della rabbia andiamo incontro alla tristezza che ci ha pervaso. Ricostruire un progetto riformista in discontinuità con la mala gestione della cosa pubblica, un progetto politico dove riconoscersi non sia un optional è basilare per contrastare crisi economica e decadimento della democrazia.
La riflessione che ci aspetta sarà più preziosa se capace di coinvolgere tanti, oltre i confini del Pd.

Sud nei primi 100 giorni di Letta

di Francesco Grillo su Il Mattino (18 Maggio)

La distribuzione della popolazione in fasce d’età – che in qualsiasi Paese normale assomiglia ad una botte – nel Mezzogiorno d’Italia si è ormai trasformata in una clessidra: tanti anziani; un buon numero di bambini che scalpitano per andare via non appena diventano adolescenti; e sempre meno giovani, perché se dal Nord Italia a fuggire sono i cervelli, dal Sud sta emigrando un’intera generazione.

Meno giovani e, dunque, meno imprese, ricercatori e professionisti che possano sostenere quel processo di innovazione di cui qualsiasi territorio ha bisogno per uscire dalla trappola del sotto sviluppo. Questo è il tratto più nuovo e marcato che l’antica questione meridionale ha acquisito negli ultimi anni, nonché il problema più grosso che deve essere risolto da chiunque voglia provare a spezzare l’incantesimo di un ritardo che dura da un secolo.

Enrico Letta e Carlo Trigilia sanno, per esperienza, quanto è alta la posta in gioco e sanno che la partita va giocata immediatamente: entro l’estate la Commissione Europea chiede a ciascuna Regione una prima ipotesi di strategia che identifichi i vantaggi competitivi sui quali fare leva per provare a rientrare in quell’economia globale,dalla quale il Mezzogiorno è rimasto tagliato fuori per molto tempo. Queste scelte sonocondizione ineludibile per accedere ai fondi strutturali che sono parte consistente delle poche risorse pubbliche che l’Italia ha a disposizione per ottenere quella crescita che tutti invocano. Si tratta davvero – mentre l’ISTAT segnala che per il settimo trimestre consecutivo il PIL del Paese si è ridotto – dell’ultimo treno e di una priorità che deve entrare immediatamente tra quelle dei primi cento giorni di un Governo che è in carica da circa un mese: un nuovo fallimento significherebbe non solo buttare via le ultime carte che il Sud (e l’Italia) ha ancora in mano, ma anche trasformare in lamentela qualsiasi richiesta italiana di ulteriori investimenti da destinare alla crescita.

Il problema vero è trovare una strategia per rispondere a tre domande urgenti: come faccio ad investire più di 22 miliardi di euro in innovazione in territori desertificati dall’emigrazione di buona parte delle proprie generazioni più giovani? Come posso radicare nel territorio le tecnologie, le competenze che riuscissi ad attrarre evitando l’incubo di nuove cattedrali nel deserto? Come posso governare strategie di sviluppo più sofisticate rispetto al passato, con amministrazioni pubbliche che si sono, finora, dimostrate incapaci di gestire persino la spesa ordinaria?

È evidente che il Sud non ce la può fare da solo. Ma non tanto perché mancano le risorse finanziarie, ma perché, in questo momento, è sprovvisto del capitale umano indispensabile per poter competere. Anzi, di talento ne continua a produrre; ma non riesce a trattenerlo, non lo attrae e se lo attrae – magari dai Paesi del Nord Africa – non riesce neppure a riconoscerlo. Non c’è capitale umano e neppure possiamo aspettare i tempi lunghi della scuola per poterne ricostruire a sufficienza.

E allora che fare? Bisognerà ricominciare a fare scelte: scegliere i settori sui quali concentrare le risorse: la valorizzazione della cultura è candidato naturale per un’area che ha quasi lo stesso numero di siti UNESCO degli interi Stati Uniti; e scegliere i problemi – magari quelli della mobilità o dei rifiuti nelle città – ai quali applicare specifiche tecnologie per trasformare i ritardi in vantaggi rispetto agli altri in termini di qualità della vita. Sarà necessario, poi, aggregare dal resto del mondo attorno alle “specializzazioni intelligenti” che avremo selezionato, i talenti di cui è necessario disporre; costruirei presupposti – servizi, logistica, scuole (e non solo benefici fiscali generici)  – che mettano gli innovatori in grado di continuare a fare il proprio mestiere anche a Salerno o a Bari; e infine sviluppare- dalle imprese e dalle università che avremo portato all’avanguardia – l’indotto sufficiente per poter radicare la conoscenza nel resto del territorio.

Bisognerà puntare tutto sulla conoscenza,la benzina che ha dato ad altri Paesi la possibilità di sfuggire alla condanna della dipendenza dal sussidio; la conoscenza che in Italia e nel Sud, per lungo tempo, è uscita dalle priorità della politica, del discorso pubblico e della programmazione economica. Facendo scelte precise per costruire esempi in grado di diventare modello. Con persone, meccanismi di governo anch’essi profondamente rinnovati sulla base della capacità di portare a casa risultati tangibili, perché è tra i dirigenti ed i consulenti che hanno fallito per anni che bisogna operare la più urgente delle rottamazioni.

Quella del Sud è una sfida che l’Italia è riuscita – unico Paese del mondo – a perdere regolarmente ogni volta. Stavolta, la crisi costringe il governo ad affrontarla per vincere e non con la mentalità di chi si limita a gestire l’ordinario per alleviare le conseguenze di un’altra delle tante sconfitte annunciate e accettate sin dall’inizio.

 

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