Innovatori Europei

Significativamente Oltre

Brenno al Nazareno

di Michele Mezza

Come Brenno, Renzi ha buttato la sua spada sul tavolo della direzione del Pd gridando il suo Guai ai vinti. E come dargli torto: dopo 30 anni di moine, in un mese si mettono in movimento le riforme, si sblocca il bicameralismo, si da una scossa ai partiti, seppellendo gli apparati centrali e spostando lo scontro sul territorio e qualcuno si attacca all’estetismo di Berlusconi che viola il sacro Graal della sede del PD?

E’ proprio il segno che il partito erede evolutivo del PCI è ormai un guscio vuoto. E Renzi ne è l’ufficiale liquidatore che sta rapidamente celebrando le esequie della solenne salma, tra l’altro scegliendo come giorno data proprio la vigilia dell’anniversario della fondazione del PCI.

Due i totem attorno a cui si ballava oggi: primo, la storia della vergogna per l’incontro con  Berlusconi  al Nazzareno.Liquidata da Renzi con la feroce battuta per cui lui lo ha fatto entrare al Nazzareno mentre altri avevano fatto entrare Berlusconi a Palazzo  Chigi, polemica chiusa.

Secondo il modo di decidere: Renzi ha spiegato che non tocca al partito , o a quello che ne rimane, ma al popolo delle primarie, che votandolo ha votato un programma che prevedeva la riforma elettorale e l’abolizione del Senato.

Dunque chi sta discutendo nella sala del Nazareno è solo un prestanome. Cuperlo ha capito bene che si trattava della lapide che chiudeva il sepolcro ed ha alzato la voce: che partito è mai questo dove tutto è deciso dalle primarie. Un altro partito, gli aveva già risposto Renzi, perchè altri sono i suoi valori e soprattutto altra la sua base sociale.

Siamo vicini al tema caldo della concezione del partito e della politica che ha sinistra ha sempre avviato i processi di scissione. E credo che con oggi la coazione a ripetere si sia messa in moto.

Sul merito poco da dire: il groviglio delle norme  non lascia spazio a discussioni. Legge maggioritaria di fondo, con un doppio turno di coalizione e un diritti generoso di tribuna. Collegi plurinominali, con identificazione dei candidati e primarie per la loro selezione.

E’ una legge che scompiglierà i partiti, scomponendo ulteriormente la destra, ma anche il Pd, e seppellirà Grillo. Renzi oggi ha fatto le prove della campagna elettorale: sono io il guastatore del sistema tu sei un chiacchierone.

Infine il sugello che chiude la bocca a chiunque voglia storcere il naso: dopo 30 anni di noia e di impotenze interessate io in un mese cambio il sistema. Che dirgli?

Questa mano è tutta sua. Rimane unico sulla scena .Gli rimane solo da stabilire come mettere sotto tutela il governo, ma le chiacchierate con Alfano senza Letta hanno fatto capire anche quale sarà il metodo.

Ora rimane il problema di come tradurre questa vittoria in linea politica e in alleanze sociali. Renzi conquistato il partito deve riempirlo di nuove figure sociali eguali a lui, dopo aver rottamato i dirigente ex PCI deve rottamare gli elettori ex PCI.E la comparsa di Veltroni è apparsa come l’ultima minaccia: se non io tornano quelli là….

Lo strappo radicale però, come sempre, lascia aperta la strada a chi vorrà rimettere l’idea di sinistra sul mercato politico: o ripristinando l’eredità, con l’ennesima ritualità di una scissione per tradimento, o ripensando  la cultura e l’ambizione di una sinistra che riprenda a competere con i centri di comando del capitale per civilizzare il sistema.

Magari ricominciando dall’unico minuto in cui la direzione del PD è apparsa in sintonia con il paese che corre e che cresce: con il ricordo del Maestro abbado. Ripartiamo dalla potenza del sapere dalla negoziazione delle sue forme diffusive dal contrasto dei poteri che ne vogliono limitare la corsa. Una sinistra che non pianga al ricordo del 21 gennaio, ma che riprovi ha dargli spessore nella storia del futuro del paese.

Riforma dell’Arpab sì, ma verso una maggiore autonomia

di Prof. Albina Colella (Università della Basilicata)

Si vuole riformare l’ARPAB, ma è necessario riformare anche e soprattutto la Politica Ambientale della Basilicata. Il Governatore lucano Marcello Pittella in un articolo della Nuova del Sud ha dichiarato di voler promuovere la riforma dell’ARPAB, perché diventi organismo affidabile e super partes. Mi auguro che realmente la politica metta l’ARPAB nelle condizioni di divenire tale, concedendogli la necessaria autonomia decisionale, finanziaria e di comunicazione, ovvero che venga garantito che i dati ambientali non siano sottoposti a “filtri” vari prima di essere pubblicati. E’ bene ricordare che il compito istituzionale dell’ARPAB è semplicemente “diagnostico”, ovvero di controllo delle condizioni ambientali del territorio attraverso analisi e monitoraggi, i cui dati sono forniti poi al Dipartimento Ambiente: il resto compete alla politica. Ed è qui che casca l’asino, perché l’ARPAB ha rischiato e rischia di diventare il capro espiatorio di responsabilità che competono invece alla politica. Se la Basilicata oggi si trova ad affrontare tanti disastri ambientali e i conseguenti problemi di salute dei cittadini, è perchè mancano alcuni strumenti di pianificazione territoriale di cui deve farsi carico la politica. In Basilicata manca ad esempio il Piano di Tutela delle Acque, nonostante la presenza di attività petrolifera e i rischi connessi. È grazie all’assenza di un Piano delle aree di Salvaguardia delle acque superficiali e sotterranee destinate al consumo umano che in Val d’Agri le società petrolifere hanno potuto perforare anche nelle aree di ricarica degli acquiferi, o a due passi dagli invasi, aree cioè molto vulnerabili all’inquinamento, aree dove in altre regioni non è permesso. E’ grazie a questa inadempienza che l’oleodotto del pozzo petrolifero Pergola1 rischia di essere realizzato in un territorio non solo ad alto rischio sismico, idraulico e di frana, ma anche nelle aree di ricarica di alcuni preziosi acquiferi della Val d’Agri. In Basilicata manca anche il Piano dei Rifiuti, mancano i Piani di zonizzazione degli Idrocarburi, dei Nitrati, dei Fitofarmaci, degli Interferenti Endocrini, delle Diossine, ecc.. Oggi si pensa ottimisticamente che la bonifica delle falde acquifere della Val Basento possa risolvere l’inquinamento, senza sapere che, oltre ad essere lunga, non è affatto garantito il risultato, sempre che i bandi non siano stati bocciati dal Ministero, come qualcuno sussurra.

In passato sono stata molto critica nei confronti dell’operato dell’ARPAB, al punto da condividere anche delle denunce, ma oggi devo ammettere che negli ultimi tre anni sono stati fatti passi da gigante, considerando la gravità dei problemi ereditati dalla nuova gestione. Ho appreso del ridotto staff tecnico di laboratorio, della necessità di risanare debiti per circa 6 milioni di euro, situazione che ha impedito l’adeguamento dei laboratori, e del mancato introito delle risorse ENI: a quanto pare non sarebbe stata attivata dal Dipartimento Ambiente l’intesa ENI-Regione, che prevedeva oltre alle royalty anche 3 milioni di euro l’anno per i monitoraggi della Val d’Agri a cura dell’ARPAB a partire dal 2004-2005. Con la gestione del Direttore Raffaele Vita il debito è stato sanato, l’entrata dei ricercatori dell’Agrobios ha portato nuova linfa potenziando il settore di ricerca, la diagnostica è aumentata e sono state analizzate per la prima volta le diossine, i laboratori lavorano in qualità, sono state acquistate nuove apparecchiature, come il laboratorio mobile per le diossine, si sono attivati nuovi laboratori e se ne stanno allestendo altri. Sotto state attivate anche collaborazioni scientifiche mediante convenzioni, come quella con l’ARPA Puglia per le diossine, e se ne stanno attivando altre con l’università e altri centri di ricerca, il sito internet dell’ARPAB si è arricchito di dati ambientali di vario tipo, e sono state prontamente recepite le istanze provenienti dal territorio, come ad esempio la misura degli idrocarburi nelle acque e nei sedimenti del Pertusillo, dopo che ne avevamo denunciato la presenza. Si può dunque affermare che il cambiamento sia in atto. E ora si parla di riforma dell’ARPAB. Non è che per caso si ritorna indietro ? Mi auguro che se riforma ci sarà, questa sia volta a promuovere lo sforzo di autonomia e indipendenza dagli organi politici: solo così l’ARPAB sarà credibile.

 

Elezioni europee: apriamo un confronto sul mediterraneo, a Frosinone

Europee 2014di GIUSEPPINA BONAVIRI

 

Siamo alle porte di un grande evento politico: le elezioni europee. Nessuno ne parla, pochi nutrono reale interesse ad aprire un confronto a riguardo nelle periferie d’Italia, i partiti tradizionali sono latitanti e sfioriti, i progetti roba d’altri tempi.

Tra il 22 e il 25 maggio andremo alle urne. Siamo chiamati tutti alle consultazioni elettorali per eleggere i nostri nuovi rappresentanti europei, elezioni queste che per la prima volta si tennero nel 1979. Quest’anno si aggiunge un nuovo Paese membro, la Croazia e questa volta il compito si fa arduo. Sarà come andare ad un referendum sull’euro cosicché la discontinuerà si presenta come l’arma vincente.

La discussione è arenata dentro le stanze dei potenti dove da settimane si discute animosamente sulle candidature da “riproporre” agli italiani, che in tutta verità, sonnolenti assistono inermi, senza reazione adeguata, come malati impotenti su un letto di morte.

Chiedere di aprire un dibattito, in Ciociaria come in altri territori d’Italia, entrare in contatto con il disegno che ci persegue, chiedere riconoscibilità chiara degli impianti, delle regole, delle competenze ed articolazioni che seguiranno per una concezione federale necessita di conoscenza e di scambio, di informazioni tra “centro” e dimensione cittadina.

Destra, sinistra, centro: tutto appare omologato e spregiudicatamente pronto al saccheggio. Tutto appiattito su logiche di mercato, Paese messo in ginocchio – da burocrati, papaveri, lacchè, amministratori ingordi, politicanti dell’ultim’ora testimonial del non cambiamento- se ne fa un altro magari sotto l’egida delle logiche europeiste.

Prendiamone atto per proporre da subito un percorso che, come nostra consuetudine e buon costume, parte da una etica civica e dal rispetto della buona politica, che parla la lingua dei nostri entroterra e che, anche ora rivitalizzi la politica partendo da un processo dal basso. I nostri territori appaiono, quanto mai, bisognosi di donne ed uomini, che non assurgano a caporali di quei clan e lobby che, invece, finora hanno fatto della malapolitica e della crisi istituzionale il loro pane quotidiano.

Papa Francesco si fa, in questi giorni, apripista spiazzando con la sua scelta sulle nuove nomine cardinalizie, in cui il peso dell’Europa appare fatalmente destinato a diminuire. Il futuro del cattolicesimo è tra le masse del Terzo Mondo, infatti, e non nel Vecchio Continente. Un segno questo di un mondo che evolve nonostante tutto; segnali di innovazione che dovrebbero essere recepiti non solo dalla politica ecclesiastica ma anche dalla nostra classe dirigente. L’altro messaggio che Papa Francesco ci invia è di come intendere le sedi un tempo ritenute prestigiose per creare cordate perché “queste non assicurano più, nel mondo che avanza, un automatismo di avanzamento di carriera” ma sono simbolo di come tutti possano autorevolmente essere partecipi. Parla di un ceto nuovo centrale e per nulla settario. La sua determinazione dovrebbe ulteriormente fare riflettere il ceto politico italiano, troppo spento e avvizzito intorno alle logiche di personalismi e per nulla inclusivo.

Rinforzare, allora, la legittimazione popolare, la democrazia diretta anche in versione europeista ci pare un primo spunto in cui nuove proposte possono essere suggerite dagli stessi cittadini. Tanto per iniziare all’Italia serve un progetto di alleanza Mediterranea che la aiuti a non disperdere e rilanciare le nostre radici e prerogative storiche.

Il progetto che fu presentato dalla nostra Rete Indipendente con il forte sostegno del gruppo Innovatori Europei e delle tante donne che da buona parte dell’Europa aderirono alla mia candidatura da Sindaco Indipendente nel Comune di Frosinone ben si addice ad una linea per il rilancio europeista della nostra provincia di Frosinone.

Frosinone allora sia primo nodo settentrionale dell’hub italiano del Mediterraneo. 

La futura area metropolitana di Frosinone si agganci così ad una naturale direttiva dello sviluppo italiano nel Mediterraneo. Puntando su settori più strategici, moderni, ad elevato valore aggiunto.

Proponiamo allora un dibattito pubblico su questo percorso e da subito aperto alle forze politiche che stanno terminando il loro mandato europeo e a quelle che saranno candidate.

Innanzitutto vogliamo parlare assieme a loro di infrastrutture immateriali, della filiera delle comunicazioni moderne. Il ritardo accumulato in questi anni può ribaltarsi e le condizioni competitive trasformate in vantaggio per una moderna e innovata imprenditoria frusinate desiderosa di puntare su una semplice ma ambiziosa idea che fu da noi Innovatori lanciata nel 2011: fare del centro Italia l’hub settentrionale connettivo dell’area euro-mediterranea, fare di Frosinone una piccola Capitale.

Lavoriamo con la rete degli Innovatori Europei per agire insieme, imponendo un dialogo tra diversi settori quali i trasporti, la formazione, i media, il turismo, la tecnologia. Per creare sinergie e integrazione tra forze socio-politiche ed istituzionali, in questa area, innescando meccanismi immediati di co-sviluppo ed integrazione economica-produttiva.

E’ su questi temi che si rimescoleranno le prossime possibilità di successo della nostra città. Costruiamo una nuova stagione di relazioni economico – culturali con il bacino Mediterraneo rilanciando l’immagine in campo nazionale ed internazionale del nostro territorio. Si può certamente fare con l’aiuto di tutti.

Su Sibari e altro ancora

di Massimo Veltri (su Il Quotidiano della Calabria)
Quando visitai qualche mese fa l’area archeologica di Susa, antica capitale della Persia, mi vennero in mente, a guardare i pochissimi reperti abbandonati che costellavano la grande spianata ventosa, le parole che avevo letto chi sa dove: E si dissolse nelle spire del tempo. Andando a Sibari di recente ho avuto l’identica sensazione, fra limo, fango, muschio, detriti, nel ronzare indolente delle idrovore che senza sosta cercano di succhiare acqua e acqua che si accumula nel sottosuolo, in un tramonto d’inverno in cui s’avverte il sapore salmastro del mare vicino, assediati da zanzare e moscerini, avvolti in un silenzio rispettoso che pare attenda che l’uomo finalmente si risvegli da un torpore che l’ha assalito e gli abbia fatto dimenticare tutto. Dimenticare pure che un anno fa il fiume ha inondato tutto e da allora nulla è successo.
Parole, promesse,impegni, ma di concreto non si ha traccia. Aggirandosi fra canne, acquitrini, mota, non è facile raggiungere il punto in cui si verificò la rotta, dodici mesi fa. Ma con la esperta guida di due amici del luogo, quando il sole è ormai è al tramonto si raggiunge la riva sinistra del Crati, il largo argine golenale cosparso di rovi e veri e propri alberi, immerso fra gli agrumeti, che occupano per intera la golena al di qua del fiume, e l’area archeologica. Un argine percorribile che avrebbe dovuto fungere da barriera di contenimento contro gli aumenti di livello del fiume, tutto in terra, abbandonato all’incuria da chi sa quanto tempo, preda di animali acquatici che scavano le loro gallerie, facile ad aggredire da erosioni e smottamenti. Nel fiume che ora scorre placido e pure limpido fra barre di ghiaia e pietrisco, in un alveo rettilineo dopo le anse poco a monte, c’è di tutto: copertoni abbandonati, ramaglia, veri e propri alberi divelti a monti e portati giù dalla corrente, qualche masso di considerevole dimensione pure esso sceso giù dalle pendici pedemontane. Uno stato di disordine idraulico che non solo stride con la placidità circostante ma è sopra tutto indice, e conseguenza e causa al tempo stesso, di cattiva funzionalità idraulica.
Il letto del Crati non è sempre stato questo: nel corso dei secoli il suo girovagare alla ricerca dello sbocco a mare, ha subìto frequenti mutamenti sia plano che altimetrici, testimoniati da rilievi satellitari recenti e aggiornati comparati con supporti cartografici disponibili storicamente. A causa dell’uomo, di insediamenti fatti nel bacino fluviale, di opere di presa, di adduzione, di sbarramenti, di sistemazioni idraulico forestali… . Per gran parte, alla foce, il fiume defluisce a quote inferiori al livello del mare. Ma non è questo che ha provocato l’alluvione. L’alluvione l’hanno provocata l’infiltrazione e il sormonto delle acque di piena del Crati. L’argine, bucherellato, s’è lasciato superare in altezza e attraverso il suo corpo in terra inadeguato a opporre resistenza all’avanzare della piena. E si parla ora di messa in sicurezza.
Cosa è da intendersi con questa espressione deve essere chiarito. Perché può riguardare almeno due cose: la prima è intervenire con opere urgenti per ridurre il rischio del ripetersi di un evento simile nel futuro. Opere di rafforzamento degli argini, di consolidamento dell’esistente, di miglioramento di difesa passiva. In corrispondenza di sezioni e tratti più sensibili e pericolosi. E’ stato fatto qualcosa, in tal senso? Dalle informazioni possedute e da quanto si è costatato de visu è possibile dare conto che una ruspa campeggia solitaria a sette-ottocento metri dall’area archeologica, verso la sponda sinistra del Crati, laddove presumibilmente c’è stata la rotta, e lì vicino c’è un cartello che indica che lì si lavora per ripristinare l’officialità idraulica. Sull’argine c’è terra smossa, alberi e rami tagliati, per una lunghezza di due-trecento metri. Nient’altro. E’ bene ricordare che tutto questo non si riferisce a mesi fa, ma ad oggi, ad un anno dall’alluvione. Messa in sicurezza, dicevamo, può riferirsi pure ad altro, e riguarda azioni ad ampio raggio e con respiro temporale lungo, investe politiche territoriali e ambientali attente, pianificate, coordinate, necessita di risorse, intelligenze, saperi, buone pratiche. Ma sopra tutto richiede attenzione e cura per due cose, due cose che sono i tesori della nostra terra: la storia, l’archeologia, i siti che testimoniano delle nostre radici e dei nostri caratteri identitari, la linfa del nostro presente e del nostro futuro; e il paesaggio, i fiumi, i monti, il mare… da salvaguardare, proteggere, introdurli in circuiti di crescita sostenibile, in armonia con i beni storici. Non si ha traccia alcuna di interessi, azioni, priorità d’intervento né lungo la prima che la seconda direttrice.
Eppure ci sarebbero, ci sono, strumenti e precedenti, in materia. Stiamo parlando di difesa del suolo, di mitigazione del rischio idrogeologico, di messa in sicurezza del territorio; stiamo parlando di salvaguardia del patrimonio storico e paesaggistico calabrese: esistono norme, esistono esperienze consolidate, nell’uno e nell’altro settore. Le esperienze sono quelle maturate nel campo delle conoscenze, dei saperi, del che fare, non solo in istituti universitari e in centri di ricerca del CNR, ma anche presso i numerosi professionisti, i tecnici, via via formatisi. Le esperienze consistono pure nelle attenzioni dedicate negli ultimi decenni dalle istituzioni locali, regionali in specie, alla conservazione del suolo: basterebbe recuperare, fra le tante, le iniziative del Consiglio Regionale della Calabria a metà degli anni ’70 e a metà degli anni ’80, con convegni e approfondimenti sfociati in atti pubblicati, che fornivano precisi orientamenti e puntuali indicazioni. Ma esperienze significano pure tutto il comparto legislativo nazionale in materia, che fornisce lo scrigno del che fare. Un che fare che investe volontà e priorità politica di azioni a scala di bacino. Il bacino idrografico di un corso d’acqua è la porzione territoriale, dalla foce fino allo sbocco del corso d’acqua a mare o in un altro recipiente, che recapita l’acqua piovana nel fiume. Tutto quello che avviene nel bacino, tanto di fenomeni naturali che di iniziative antropiche quali che siano o non siano, ha una sua pecularietà: si riverbera da monte verso valle e da valle verso monte. Fenomeni franosi, scoscendimenti, stabilità di versanti, alluvioni, esondazioni, regimi del corso d’acqua, efficienza idraulica… devono essere guardati e affrontati unitariamente, ‘a scala di bacino’, come si suol dire. Ha senso quindi affrontare la rotta di un fiume esclusivamente in riferimento al punto in cui la rotta s’è verificata? Ha senso solo e soltanto per tamponare contingentemente quanto s’è verificato. Il senso vero, efficace, risiede invece nel metter mano ai Pai, piani di assetto idrogeologico, e a una azione coordinata di protezione civile. I piani di assetto idrogeologico sono il frutto maturo della legge dello stato n.183 del 1989 sulla difesa del suolo: voluta dal legislatore in occasione degli eventi di Sarno e di Soverato di qualche anno fa, in sede di conversione in legge di decreti legge emanati dal governo. Atti legislativi propri di una stagione in cui ai ricorrenti eventi idrogeologici disastrosi si sapeva rispondere con prontezza e unitarietà d’intenti. Quando si praticava l’idea della previsione e della prevenzione come momento da privilegiare in assoluto sull’intervento riparatorio a posteriori. Quando s’era creato un circuito virtuoso fra l’agire politico e tecnico e amministrativo con la comunità scientifica e il mondo dei saperi, attraverso il Progetto Finalizzato Conservazione del Suolo del Consiglio Nazionale delle Ricerche e il Gruppo Nazionale Catastrofi Idrogeologiche, anch’esso del CNR.
Affrontare la questione Sibari, che in sé ha valenza assoluta ma che assume caratteri di paradigmaticità per l’intero territorio calabrese (oltre che nazionale), significa recuperare e aggiornare quello spirito. Lo spirito che ha visto affermare non solo in atti ma sopra tutto in azioni concrete il primato delle attenzioni e delle cure da assegnare, prima di ogni altra cosa, al territorio e agli uomini e agli investimenti, recenti e antichi, che insistono su di esso.In un recentissimo convegno nazionale tenutosi preso la facoltà di Ingegneria dell’Università della Calabria, che ha riguardato le politiche territoriali e ambientali, è stato licenziato, alla fine dei lavori, un documento conclusivo di sintesi che forniva qualche utile chiave di intervento. Recuperarlo e partire da lì potrebbe essere utile.

Comunicato Stampa di “La frana che viene da lontano” a Frosinone

di  Rete La Fenice con Bonaviri

In data 09-01-2014 presso la sede della Rete Indipendente La Fenice con Bonaviri si è tenuto un confronto aperto alla cittadinanza e alle forze sociali e politiche sull’emergenza della frana e sul dissesto idrogeologico del Viadotto Biondi nonché sulle precarie condizioni ambientale che vive tutta la città capoluogo a partire dalla zona alta.

La Rete La Fenice, che dal mese di aprile dello scorso anno sta dibattendo, con assemblee pubbliche, sulla necessità di lavorare ad una progetto alternativo sul risanamento dell’ecosistema locale- con tecnici ed esperti che vedono in prima linea il Prof. Mario Catullo, geologo e fisico che dagli anni 80 si è occupato della criticità in questione- ha messo in cantiere una proposta di risanamento naturalistico del Viadotto, condiviso con la base,  proposta che verrà consegnata nei prossimi giorni ai responsabili regionali, all’amministrazione comunale e alle autorità competenti.

Assieme alle realtà associative presenti ieri alla conferenza –Consulta delle associazioni di Frosinone, zerotremilacento, Osservatorio Peppino Impastato Frosinone, Comitato cittadino per Ceccano, Massimiliano Mancini autore del Dossier “La verità rende liberi”- si procederà alla preparazione di un Dossier completo che sarà inoltrato, nelle prossime settimane, ai diversi componenti e responsabili locali e regionali. E’ nell’interesse dell’intera comunità frusinate che il percorso istituzionale dei vertici e la Conferenza dei servizi indetta per il 04 febbraio prossimo veda la partecipazione attiva di un team di esperti esterni e di cittadinanza partecipativa che possa revisionare  e condividere le decisione e le soluzioni che si prenderanno. Ci batteremo anche perché questo nuovo stile di intendere la Cosa Pubblica sia rispettato.

 

Dramma lavoro. Sud ultimo in Europa

di Francesco Grillo

Sono drammatici i dati di ieri sulla disoccupazione al 12,7% che ha fatto registrare il suo record dal 1977 o del numero di ore di cassa integrazione concesse dall’INPS che ha superato nel 2013 il miliardo.

Tuttavia, è il tasso di occupazione il numero che meglio di ogni altro descrive la dimensione della palude nella quale la società italiana sta – neanche tanto lentamente – sprofondando. È il conteggio semplice di quante persone hanno un lavoro regolare a dirci non solo quanti sono gli individui che percepiscono un reddito, ma quanti sono quelli che possono contare su uno strumento potente di inserimento in una comunità e quanto vasto è, al contrario, lo spreco di competenze, di entusiasmi che una società sta producendo.

Meglio usare come unità di misura della crisi  il numero di occupati, quindi, che il tasso di crescita del Prodotto Interno Lordo che non tiene conto delle diseguaglianze nella sua distribuzione, ma anche di quello sulla disoccupazione che non cattura quelli che semplicemente un’occupazione ha smesso di cercarla o del numero di ore di cassa integrazione che non copre chi un lavoro non lo ha mai avuto . Facendolo si capisce meglio la natura del problema e si disegnano politiche efficaci.

Innanzitutto, se si misura la quantità di lavoro, la distanza dagli altri Paesi europei appare molto più forte: se il nostro tasso di disoccupazione è di poco superiore alla media comunitaria,  quello di occupazione è di quasi dieci punti inferiore . Se in Italia sono occupati il 56% degli individui in età lavorativa; la Germania, l’Inghilterra, l’Olanda sono sopra il 70, la Francia è al 65. Siamo sotto al Portogallo e alla Grecia e, persino, di poco, alla Spagna che pure ha un tasso di disoccupazione molto più alto perché molte meno persone hanno perso la speranza. Il dato agghiacciante è però quello del nostro Sud: Campania, Sicilia e Calabria riescono ad occupare gli ultimi tre posti tra duecentocinquanta regioni europee (includendovi quelle di Bulgaria e Romania) e le uniche con una percentuale di persone che hanno un lavoro (regolare) inferiore al 40%. L’altra cosa che si scopre osservando la capacità di un Paese di generare lavoro è che in Italia il problema è molto meno legato alla crisi: dalla fine del 2007 il reddito per abitante è caduto di un rovinoso 10% in Italia, ma il numero di occupati “solo” del 2%; il contrario è successo in Spagna, dove il PIL è sceso del 7%, ma il numero di lavoratori si è, invece, ridotto del 15%. È evidente che la maggiore sensibilità di altri Paesi alla crisi dipende, in parte, dalla maggiore difficoltà che esiste in Italia a licenziare, ma ciò rende anche le nostre imprese molto meno propense ad assumere laddove l’economia ricominciasse a crescere.

Il bilancio netto di una maggiore flessibilità non è però necessariamente positivo: l’OECD misura la protezione dei lavoratori da licenziamenti individuali e collettivi e in Paesi come la Germania o l’Olanda, le garanzie risultano superiori da quelle che in Italia godono i lavoratori a tempo indeterminato. La crisi, del resto, si scarica tutta sui giovani: se sempre alla fine del 2007 il tasso di disoccupazione tra i giovani in Italia era del 20%, oggi il numero è raddoppiato. Con un aggravante, però, rispetto a quando la disoccupazione colpisce un anziano: perché un milione e duecentomila giovani italiani che non lavorano e neppure studiano, hanno molte meno possibilità di farlo in futuro rispetto ai propri coetanei, con una perdita secca di capacità innovativa che si trascina negli anni colpendo tutti.

Che fare allora?

Le ricette ci sono, ma un’analisi più attenta dei numeri ne cambia le priorità.

Al primo posto c’è, senza dubbio, l’urgenza di ridurre la distanza (cuneo) tra costo del lavoro per le imprese che è superiore alla media dei Paesi sviluppati, e la paga netta dei lavoratori che è trascinato agli ultimi posti tra gli stati OCSE da un peso delle tasse che non ha paragoni nel mondo. Questa macigno è, però, a sua volta determinato dalla necessità di finanziare una spesa pubblica eccessiva ma, soprattutto, di cattiva qualità. Se continuiamo a pagare in pensioni tre volte di più di quanto paghiamo in educazione, dagli asili alle università, è evidente che i giovani si trovano ad essere impreparati e le donne a dover scegliere tra carriera e famiglia. Infine,poi, c’è la questione – sottovalutata in Italia – dell’efficienza del software che deve far incontrare la domanda e l’offerta: se non mettiamo mano ai centri per l’impiego, se non coinvolgiamo gli operatori privati laddove il pubblico è  incapace, se non pretendiamo che chiunque faccia formazione sia pagato solo ad ottenimento del risultato, individui e imprese rimarranno lontani.

Serve la crescita e sarebbe già un miracolo che riuscissimo a far ripartire l’economia. Ma ancora di più serve ridurre e riqualificare fortemente l’intervento dello Stato.  L’alternativa è una disintegrazione sociale, ancor più che economica.

 

Legge elettorale: meriti e limiti della proposta di Renzi

di Francesco Grillo

L’Italia riesce ad avere, contemporaneamente, il sistema politico meno efficiente e quello meno capace di rappresentare i cittadini: fu proprio l’attuale presidente del consiglio, Enrico Letta, a fornire una delle più efficaci diagnosi del problema che una nuova legge elettorale e le riforme istituzionali dovrebbero risolvere. Un ridisegno complessivo dei meccanismi attraverso i quali si forma e si attua la volontà politica in Italia, dovrebbe dunque avere questi obiettivi: dare ai cittadini la possibilità di poter scegliere e sentirsi partecipi di un cambiamento; rendere chi è scelto in grado di poter realizzare le riforme di cui l’Italia ha assoluto bisogno sfuggendo alla paralisi dei microinteressi che, come dimostra l’ultima legge finanziaria, rende impossibile anche solo concepire una strategia e, dunque,di rispondere agli elettori dei propri risultati.

La domanda più immediata è però un’altra: in che misura questo Parlamento e questo Governo possono contribuire a risolvere i problemi di cui essi stessi sono il prodotto? Fino a che punto l’iniziativa che Matteo Renzi assume il primo giorno lavorativo dell’anno, può accelerare un lavoro che finora, nonostante tante solenni promesse, non è riuscito neppure ad evitare al Parlamento la figuraccia di farsi anticipare dalla stroncatura della Corte Costituzionale?

Il sindaco di Firenze gode, a differenza degli altri protagonisti di questa vicenda, del vantaggio di non essere figlio del sistema elettorale che vogliamo correggere e di trarre anzi  la propria legittimazione da un processo di partecipazione al quale hanno aderito tre milioni di persone. Renzi usa questa forza per sterzare proprio sul terreno di maggiore sofferenza e lo fa con un metodo giusto. Partendo da un elenco di ipotesi, chiede ai partiti di scegliere nel menu la ricetta migliore, rivolgendosi all’intero Parlamento perché la legge elettorale deve partire da una condivisione ampia di quella consentita da larghe intese diventate assai strette.

Tuttavia, il segretario del PD fa almeno tre errori che rischiano di riportare l’intera discussione in alto mare.

Il primo dei problemi della proposta di Renzi è che essa presenta proposte sufficientemente precise sulle quali è possibile esprimersi. Propone tre modelli – quello francese, quello spagnolo e quello che ha accompagnato la prima fase della seconda Repubblica in Italia – stravolgendoli però tutti con spargimenti di “premi di maggioranza” e aggiungendovi ingredienti che ne cambiano fortemente il sapore. Sarebbe stato, inoltre,  preferibile aggiungere qualche riga di spiegazioni – su cosa si intende, ad esempio, per diritto di tribuna o sul funzionamento (per collegio o nazionale) dello sbarramento nell’ipotesi “spagnola” – in assenza delle quali è impossibile per un partito scegliere se quella proposta è coerente ai propri interessi o assolutamente indigeribile. In particolar  modo, l’intera comunicazione dell’ipotesi del “sindaco d’Italia” sembra mischiare il doppio turno usato in Francia per le elezioni dell’Assemblea nazionale con quello utilizzato nello stesso Paese per la scelta del Presidente della Repubblica e che richiederebbe non solo una legge elettorale ma una trasformazione della forma dello Stato assai complessa.

Il secondo errore che il Sindaco fa – allineandosi in questo a tutti gli altri – è che non distingue con nettezza tra ciò che è il “minimo indispensabile” da portare subito a casa, e ciò che è auspicabile se si verificassero, per incanto, ampie convergenze su una visione di lungo periodo. Non distingue cioè tra cambiamenti che necessitano una modifica complessa della Costituzione e quelli – come le regole elettorali – che, invece, richiedono  leggi di natura ordinaria. La mancata separazione tra i due livelli è – in maniera sempre più evidente agli occhi degli elettori – servita, finora, a chi ha usato la mancata “messa in sicurezza” del sistema politico, quale pretesto per mantenere in vita la stessa legislatura che era colpevole della mancata riforma. Sarebbe, invece, importante ricordare con forza che l’”ottimo è  nemico del bene” e che il vero pericolo è continuare a non fare neppure una legge elettorale accettabile, mentre con Quagliariello siamo impegnati in una storica operazione di ridisegno delle forme dello Stato.

Ma lo sbaglio maggiore è forse, quello di aver “complicato” un eventuale ritorno al Mattarellum: una legge che come tutte quelle elettorali aveva dei difetti, ma che è quella maggiormente alla portata di questo Parlamento ed ha garantito – nel 1994, 1996 e 2001 – ciò che Renzi ritiene il suo obiettivo più importante: dire la sera stessa delle elezioni chi ha vinto ed è destinato a diventare Presidente del Consiglio.

I cittadini italiani, compresi molti di quelli che hanno fatto la fila per votare Matteo Renzi qualche settimana fa, non hanno – a differenza di ciò che accadde vent’anni fa con il referendum che portò all’abolizione delle preferenze – idee chiare su come uscire dall’impasse. Approvare una nuova legge elettorale nelle prossime settimane è, però, una condizione che precede qualsiasi tentativo di riforma complessiva di uno Stato andato vicino a dichiarare il proprio fallimento. Il leader che si propone di guidare una fase di crescita che duri almeno quanto è durato il declino del  Paese, deve dimostrare di possedere la visione per immaginare la direzione nella quale ci muoviamo in tempi medio lunghi, ma anche il pragmatismo per identificare i risultati più a breve termine che sono necessari per dare al cambiamento credibilità e consenso.

La frana che viene da lontano

di Giuseppina Bonaviri

 

All’inizio di un nuovo anno e in un momento di grande travaglio pe la nostra amministrazione comunale e per il nostro territorio, da anni mortificato da cementificazione selvaggia e da aggressione dei gestori pubblici all’ambiente, la Rete Indipendente La Fenice, assieme a tecnici ed esperti come il geologo e fisico Prof. Mario Catullo, ritiene doverose alcune precisazioni  nel rispetto dell’informazione, riguardo la gravità attuale delle condizioni franose della zona del Viadotto Biondi di Frosinone.

Già nel mese di maggio 2013 nella sede del nostro  Movimento furono organizzati incontri e conferenze di chiarificazione illustranti le condizioni dell’ecosistema frusinate che, non rispettato negli ultimi trenta anni, ha apportato gravi danni alla parte alta del capoluogo e non solo. In quei momenti di dibattito, aperti e rivolti alla cittadinanza, alla presenza di ex amministratori, venivano precisati tutti quei riferimenti tecnici e scientifici -desunti dalle leggi della fisica e della chimica- che vanno ben oltre semplici schematismi ed appiattimenti propinatici dalla mala politica e da quelle poche ed incoerenti nozioni che, nonostante tutto, siamo costretti ad ascoltare.

La condizione  ambientale della zona attigua al Viadotto Biondi è stata molto bene acclarata dagli studi dell’Italtekna  che negli anni ‘80 aveva condotto, sotto l’egida del Ministero dei Lavori Pubblici e con il benestare della legge nazionale n. 730 del 28-10-86 (recepita al Protocollo del Comune di Frosinone il 16-12-89 con n. 30962) uno studio specifico riguardante il dissesto idrogeologico di Torrice, Frosinone ed Arnara. In base a questa normativa nazionale sono stati condotti direttamente dallo Stato, tramite il Ministero dei Lavori Pubblici, lavori complessi e altamente scientifici riguardanti la geologia delle suddette città, la sismica e l’idraulica del territorio come anche la meccanica dei pendii.

All’interno di questo documento-elaborato, composto di vari volumi ognuno riguardante una zona specifica della città capoluogo, contenente prescrizioni e obblighi (fu consegnato nel 1989 nelle mani della stessa Amministrazione Comunale perché ne fossero rispettati i criteri oltre che al Ministero dei Lavori Pubblici e alla Università La Sapienza, vedi allegato ) erano contenuti i dati che lasciavano presuppore le drammatiche conseguenze qualora non si fossero rispettati i criteri suggeriti. Questi stessi documenti, che per trasparenza amministrativa dovrebbero essere a disposizione del facente richiesta, non sono invece mai stati consegnati a chi, come Catullo, li avesse richiesti ufficialmente ( forse perché dispersi?). Due erano i capisaldi prescritti dalla Italtekna per evitare la catastrofe: continuare il monitoraggio sul territorio e-o dare luogo al risanamento. Ma, come si sa, non ci fu seguito alcuno. Si sarebbe, invece, dovuto operare preventivamente evitando la messa in atto di opere o surrogati.

I tecnici dell’Università La Sapienza che lavorarono al documento, nel 2000 pubblicarono un volume specifico intitolato “Le frane della Regione Lazio” che affrontava la questione frusinate come emblematica del dissesto geologico a seguito del disordine urbanistico causato dall’incuria e la impreparazione di una classe politica, incapace e mediocre. Sarebbero stati sufficienti controlli inclinometrici e piezometrici ( oggi molto di moda), per giunta previsti per obbligo di legge e loro eventuale sostituzione o integrazione nel caso di rottura. Ciò, invece, non fu mai fatto (vedi l’inclinometro a contorno del Piazzale Vittorio Veneto e quelli che furono collocati, solo inizialmente, al di sotto del pendio Biondi e che arrivavano al viadotto).

Inoltre, la mancanza dello spazio utile per gradonature e gabbionate, la mancanza di capacità portante della collina già gravata dai numerosi carichi antropici ed urbanistici, la presenza del fiume Cosa che alla base erode le sponde e degrada la collina, suggerivano interventi meno invasivi per carichi meccanici e, certamente molto meno costosi per le nostre tasche. Emerge con chiarezza una domanda: perché non sono state messe in atto queste misure protettive? Quali le vere motivazioni? Quali i guadagni e diretti a chi?

La proposta, che già ad aprile del 2013 il nostro Movimento aveva reso pubblica, considerava la situazione stratigrafica del pendio e la mancanza di uno strato di base utile per palificate prevedendo, in sintesi, di aumentare i legami elettrochimici ed elettro osmotici con l’utilizzo di semplici coppie galvaniche o pannelli solari, intervento che si presenta ad oggi risolutivo ed estremamente economico per la nostra già tanto sofferente amministrazione. Si suggeriva, anche, di creare una task force di tecnici esterni, non manipolabili e a costo zero per supervisioni e confronti partecipati dalla base che potessero essere a garanzia di una governance diffusa.

Torneremo a dibattere e a riproporre questo progetto il 9 gennaio alle ore 17, a Frosinone in Vicolo Moccia, in un incontro aperto alla popolazione e a tutti i nostri amministratori e politici che, benpensanti , intendessero il confronto frontale la base di una buona politica per il rilancio del bene comune. Si effettuerà, a partire dai prossimi giorni, nelle piazze e nelle strade del capoluogo, un volantinaggio informativo e formativo che non lascerà spazio a dubbi e cattivi propositi amministrativi.

Adesso, il PD rinnovi istituzioni e governo!

partito_democraticoAbbiamo salutato con entusiasmo la nuova segreteria del Partito Democratico.

L’avvio netto del rinnovamento dipenderà ora dalla reale apertura che si vorrà dare a quelle personalità della società civile che hanno stimolato e sostenuto il dibattito negli ultimi anni.

Un progetto riformatore non può fare a meno di un percorso condiviso con la società.

– Si dia vita ai dipartimenti nazionali, nel PD, che siano estrapolazione della voce di quella cittadinanza attiva che è sinonimo di vero cambiamento.

– Si apra istituzioni e governo a figure rinnovatrici e competenti.

Noi ci siamo da sempre. E ci saremo.

Auguri!

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