Innovatori Europei

Significativamente Oltre

Per l’Ucraina, Europa e Russia insieme

Perché non fare del tavolo Europa Russia sull’Ucraina proposto dal Presidente Pittella il luogo del lancio di strategie di innovazione energetica congiunte, come richiamato dal Presidente Prodi qualche settimana fa? 

I settanta anni di libertà e di pace che abbiamo alle spalle li dobbiamo in buona parte al processo di unificazione europea. Un tesoro che oggi, più di sempre, dobbiamo saper condividere con i nostri vicini, Ucraina e Federazione Russa in primis. Perché in Europa non si ripeta la tragedia vista nell’ex-Jugoslavia.

Con un grande Paese alle porte dell’Ue, come l’Ucraina, sull’orlo di una guerra civile, le istituzioni europee e i governi degli Stati membri non possono limitarsi ad un mero sostegno di principio ai movimenti più filo-europei e moderati, come quello di Vitalij Klycko e di Yulia Tymoshenko, che pure – chi scrive ne è testimone diretto – meritano.

L’Europa deve fare qualcosa di più e di diverso. L’Unione europea deve farsi carico di un ruolo da protagonista come agente di pace, attraverso l’istituzione di un tavolo negoziale con il governo di Kiev, le opposizioni e la Russia.

Ecco perché la presenza di Enrico Letta a Sochi – uno dei pochissimi leader occidentali che incontrerà sia il presidente russo Vladimr Putin, che quello ucraino Viktor Yanukovych, all’inaugurazione delle olimpiadi invernali venerdì 7 febbraio – può, da questo punto di vista, rivelarsi più utile di quanto molti non credano.

Un tavolo negoziale fra Europa, Ucraina e Federazione Russa, senza precondizioni, senza pregiudizi, con l’obiettivo di sostenersi l’un altro, come partner a favore della libertà, della pace, delle riforme e dello sviluppo.

Un tale vertice trilaterale potrebbe propiziare la rapida fine di ogni violenza di Stato contro cittadini inermi, il varo di una vasta amnistia e di riforme costituzionali, colloqui più costruttivi fra le autorità centrali e quelle periferiche.

L’Ucraina non è solo Leopoli e Kiev, ci sono anche la multietnica provincia di Odessa, la repubblica autonoma russo-tartara di Crimea, la città autonoma di Sebastopoli – storica base logistica, quest’ultima, della marina prima sovietica poi russa.

L’Ucraina, il paese più esteso e più centrale del continente, è la naturale cerniera fra Europa e mondo russo, e proprio insieme a Europa e Russia, Kiev può raggiungere risultati storici, nel campo delle libertà politiche e civili, del riscatto dalla povertà dei suoi quarantacinque milioni di abitanti – oltre un terzo dei quali sono russofoni.

Pur avendo personalmente preso parte a Kiev alle manifestazioni a favore dell’avvicinamento dell’Ucraina ai principi e ai valori di democrazia dell’Europa, non si possono dimenticare le condizioni di vita dei ceti popolari russofoni, nell’immenso est del Paese, la cui economia e sentimento identitario sono strettamente legati a Mosca.

Siamo nel 2014, non nel 1914. Non ci servono vecchi o nuovi nazionalismi, né giochi di potere. I nostri interessi strategici di lungo termine, come italiani e europei, sono chiari: libertà civili, forti democrazie locali e nazionali, libera circolazione, innovazione e cultura. Siamo convinti che essi siano convergenti con le aspirazioni più autentiche e profonde di Ucraini e Russi.

*Vicepresidente vicario del Parlamento europeo

Perché l’Italia non innova più

di Leonardo Maugeri (su Il Sole 24 Ore)

In questi ultimi mesi mi sto occupando di trovare finanziamenti negli Stati Uniti per alcune start-up molto innovative in settori in cui le loro invenzioni avrebbero un’immediata e dirompente applicabilità – se di successo. La relativa facilità sia del contesto, sia di trovare interlocutori pronti a rischiare il loro denaro, mi ha spinto a un amaro parallelo con quanto avviene in Italia.

Mentre l’America continua a rigenerarsi e a uscire da ogni crisi grazie a moti periodici di innovazione, l’Italia non inventa più da troppi anni. E questa è una causa del suo declino economico.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, il miracolo economico italiano fu sostenuto dalla straordinaria inventiva di un popolo che non aveva grandi capitali: eppure, dalla chimica all’industria dei trasporti, dagli elettrodomestici alla meccanica di precisione, il nostro era un Paese che inventava, brevettava e trasformava in industria il risultato delle sue scoperte. Ricercatori innovativi trovavano capitani d’industria (allora era giusto chiamarli così) culturalmente pronti a sposare l’innovazione, a investirci sopra, a scommettere su nuovi prodotti che avrebbero cambiato il mercato e consentito di generare ricchezza e lavoro. Questo connubio naturale tra ricerca e industria, peraltro, rendeva la prima più concentrata sui bisogni e le aspettative della seconda, evitando così di disperdere risorse su filoni che non avevano prospettive commerciali. Di quel terreno fertile, è rimasto poco o niente. I ricercatori italiani sono di ottimo livello internazionale, nonostante siano pagati malissimo e siano dimenticati da tutti. Anche per questo, il numero dei brevetti italiani si è più che dimezzato rispetto agli anni Sessanta, e i brevetti di oggi spesso rappresentano solo migliorie all’esistente, non innovazioni tali da introdurre discontinuità di mercato. Molte università non hanno nemmeno un ufficio brevetti e – se lo hanno – non hanno alcuna idea di come valorizzare un brevetto. Nella mia esperienza industriale ho avuto esempi deprimenti di questa mancanza, su cui è meglio stendere un velo pietoso. Allo stesso tempo, i capitani d’industria dell’Italia post-bellica hanno lasciato il campo a grigi manager capaci di tarare le loro azioni solo sull’esistente e per un orizzonte temporale non superiore a tre anni, quello che – per il codice civile – esaurisce il loro mandato.
Per tutti loro, la ricerca è fondamentale solo a parole, in termini di comunicazione e immagine. Eppure, senza la capacità di generare nuove attività economiche basate sull’innovazione, le possibilità di crescita di un Paese sono nulle, e l’unica via è quella di competere sul costo del lavoro. Scelta che ci porterebbe verso il terzo mondo. E’ possibile cambiare questo stato di cose? Forse.
Ma occorre agire all’unisono su almeno sette fronti.
Primo: occorre liberare dalle tante vessazioni che li opprimono e dare un ruolo preminente a fondi di investimenti privato, private equity, venture capital etc. disponibili a investire nelle piccole società innovative. Nelle aree più produttive di idee degli Stati Uniti, come la Silicon Valley o Boston, ne esistono a centinaia, spesso migliaia. In Italia, secondo i dati di “Start Up Italia”, esistono solo 1.127 start up innovative, di cui solo 113 finanziate, per un misero totale di poco più di 110 milioni investiti nel 2013. Niente, rispetto agli oltre 10 miliardi di dollari che – nel 2013 – i soli venture capital statunitensi hanno trainato su start-up americane. Nel complesso, esistono (dati Aifi – Associazione Italiana Private Equity e Venture Capital) non più di 13 venture capital (contro i quasi 2.000 degli Stati Uniti o gli 800 della Germania). Ugualmente misero è il numero delle società di private equity. Con questi numeri non si va da nessuna parte. Un’ampia presenza di fondi privati e venture capital, invece, è fondamentale in quanto da noi manca una grande industria le cui articolazioni possano svolgere il ruolo di “pillar companies” – società pilastro, in grado esse stesse di finanziarie e aiutare le start-up nel loro percorso di crescita. Tuttavia, i pochi investitori nell’innovazione sono sottoposti (in quanto raccolgono capitali privati) a un sistema di vigilanza spesso vessatorio, che andrebbe drasticamente ridimensionato.
Secondo: i fondi privati dovrebbero godere di tassazioni agevolate, in particolare sugli investimenti in conto capitale. Per la fase iniziale della loro vita, si potrebbe addirittura pensare a annullare o rendere minimi tutte quegli esborsi (oneri di costituzione e registrazione, etc.) in modo da rendere attraente anche per fondi stranieri l’ingresso nel nostro Paese. Si tenga presente l’investimento in piccole società innovative è a altissimo rischio, in quanto la percentuale di start-up che muoiono prima di arrivare alla commercializzazione di un prodotto supera di gran lunga quella di quante hanno successo. Secondo un recente studio di Harvard, per esempio, solo il 25 percento delle start-up americane ha successo, nel senso che produce innovazioni vere e reddito per chi ci ha investito: ma è proprio quel 25 percento che rappresenta l’onda di continuo rinnovamento dell’economia americana. In un sistema perfetto, nessun problema: il tipico investitore si attende che i profitti realizzati su due delle dieci start-up su cui ha messo soldi eccedano di gran lunga gli investimenti complessivi. Ma in un sistema che deve decollare, come quello italiano, senza forti incentivi (e con le tante vessazioni di cui ho parlato) è difficile pensare che il capitale di rischio si muova agevolmente.
Terzo: bisogna smettere di pensare che tutta la ricerca sia utile, e quindi degna di finanziamento. In assoluto può essere anche vero, ma in pratica – per un Paese che deve ripartire – è un’idea velleitaria e dannosa. Occorre puntare su quei filoni che, in questo decennio, possono avere una grande potenzialità di mercato e in cui le barriere d’ingresso e i vantaggi accumulati dai concorrenti non siano già insormontabili. Queste caratteristiche, per esempio, escludono l’energia nucleare, ma non l’energia solare, le biotecnologie, la remediation ambientale, la chimica verde, il riutilizzo dell’acqua, i nuovi materiali a basso impatto energetico e ambientale, e molto altro ancora.
Quarto: la ricerca deve essere collegata al mercato e confrontarsi con esso. In realtà, questo aspetto è un corollario del precedente. Il ricercatore deve capire di che cosa ha bisogno il mondo che gli sta intorno e cercare di trovare delle risposte. Allo stesso tempo, deve essere in grado di presentare un business plan articolato a potenziali investitori. Pochissimi sono preparati su quest’ultimo aspetto: le università che fanno ricerca dovrebbero introdurre dei corsi specifici sull’argomento.
Quinto: tra università e l’universo di fondi e società che finanziano piccole società innovative deve esistere una sorta di simbiosi. Non a caso, grandi società, venture capital, private equity assediano letteralmente i campus del MIT o di Harvard. Da noi, come ho già osservato, gran parte delle università ha perfino difficoltà a dare valore alla proprietà intellettuale che produce, e non prepara i propri ricercatori a mettersi sul mercato. Tra i parametri di finanziamento della ricerca nelle università italiane, pertanto, dovrebbe entrare un meccanismo che consenta di misurare quel valore. Questo renderebbe più agevole e auspicabile l’erogazione di fondi di ricerca all’università – sia pubblici sia privati – e consentirebbe alle stesse università di creare fondi per finanziare spin-off e start-up da cui trarre royalty con cui finanziare altra ricerca (come fanno le grandi università americane), o per vendere le loro quote nel momento più propizio, anche attraverso periodiche esposizioni aperte agli investitori (vere e proprie mostre) delle ricerche più interessanti in atto, come fanno Harvard e MIT.
Sesto: lo stato dovrebbe limitarsi a finanziare la ricerca di base, una volta individuati i filoni di ricerca che meritano finanziamento. Chi riceve il finanziamento dovrebbe comunque presentare dei piani in cui siano presenti le tappe fondamentali che si vogliono conseguire con la ricerca, i tempi previsti per ciascuna tappa, l’originalità e la potenziale competitività di ciò su cui si lavora. Periodicamente, tutti questi aspetti dovrebbero essere rendicontati per evitare che si continuino a gettare soldi al vento per anni senza alcun controllo. Potrebbe partecipare anche al capitale di rischio dei fondi creati da università o soggetti privati.
Settimo: la proprietà intellettuale va difesa. In Italia lo si fa pochissimo, cosicché la possibilità di “scippi” di idee innovative è sempre in agguato. Il problema investe la scarsa specializzazione di studi legali e di altre organizzazioni professionali specializzate in materia. Visto che il mercato da solo non può dare in brevi tempi una risposta a questo problema, forse sarebbe più utile che lo stato o le regioni creasse questo tipo di organizzazioni sul territorio.

 

Buffett e gli errori

Warren Buffettdi Massimo Sapienza
(Con questa, avviamo una serie di pubblicazioni di Sapienza sulla esperienza trentennale di innovazione imprenditoriale di Buffett)
Quando sei diventato la leggenda vivente degli investitori finanziari mondiali puoi permetterti il lusso di fare errori. Quando la storia delle tue imprese economiche diventa parte della storia della finanza, allora puoi addirittura esibire i tuoi sbagli. Oppure forse proprio perché hai sempre avut…o il coraggio di riconoscere, ammettere, analizzare e soprattutto mai aver tentato di nascondere i tuoi limiti sei diventato l’incarnazione contemporanea di Re Mida. Buffett teorizza in maniera esplicita l’interesse comune suo e del suo socio Munger per gli errori, non solo nel business, ma più in generale nella vita: “Our Vice Chairman, Charlie Munger, has always emphasized the study of mistakes rather than successes, both in business and other aspects of life.  [.] You’ll immediately see why we make a good team: Charlie likes to study errors and I have generated ample material for him particularly in our textile and insurance businesses”. La chiusura del brano potrebbe sembrare una mera captatio benevolentiae. Si potrebbe dire: “Ma come il presidente di una holding che nell’arco di quasi 50 anni ha reso oltre il 20% all’anno composto che si schernisce per i suoi errori?” Eppure non è una mera clausola di stile. E’ molto di più. E’ una filosofia di vita, tipicamente americana da etica protestante e spirito del capitalismo: “If you are going to play the game, you must count the runs scored against you in all nine innings”. Non ci sono sconti per nessuno, chi cerca di sottrarsi, con scuse o altri artifici a questo crivello indagatore non è degno probabilmente di partecipare al gioco: “Any manager who consistently says “except for” and then reports on the lessons he has learned from his mistakes may be missing the only important lesson- namely, that the real mistake is not the act, but the actor”. Nessuna attenuante, tantomeno per sé stessi. Un processo di esame infinito e spietato, difficile, molto difficile per un lettore di cultura cattolica. Nella lettera del 1989 Buffett dedica addirittura una sezione agli “errori dei primi 25 anni di Berkshire Hathaway” e promette di aggiornare il paragrafo nel 2015 con gli errori dei primi 50 anni. In seguito ha introdotto episodicamente in alcune lettere un paragrafo intitolato “Mistake du jour”. Ma come sono gli errori di Buffett? Gli aggettivi che li descrivono negli anni, lettera dopo lettera, sono abbastanza roboanti: “despite some colossal  mistakes made by your Chairman”, “In 1982 I made a huge mistake in [.]”, “whatever the reason the mistake was large”, “my decision to sell McDonald’s was a very big mistake”.  Niente male per uno che ha guadagnato oltre i limiti dell’immaginabile. Pensato cosa avrebbe scritto di sé stesso qualora il successo della sua holding di investimento fosse stato banalmente solo “eccezionale”, noblesse oblige del capitalismo finanziario moderno, s’intende. Per entrare più nel concreto partiamo dall’errore iniziale di Buffett, quello su cui ha più lungamente recriminato nel corso del tempo. Un errore ormai famoso: avere comprato la stessa Berkshire Hathaway che tanta fama gli ha dato nel cinquantennio successivo. “My first mistake, of course, was in buying control of Berkshire. Though I knew its business -textile manufacturing- to be unpromising, I was enticed to buy because the price looked cheap”. Buffett ascrive il suo “errore originale” alla sua tendenza innata a cacciare le opportunità a buon marcato. Si tratta di un’inclinazione naturale, chi ha questa tendenza tenderà sempre a subire il fascino del buon prezzo. L’umanità in questo è proprio bipartita con una muraglia adiabatica in mezzo: da un lato quelli che pensano che se paghi poco, la qualità che otterrai sarà sempre bassa, e dall’altro coloro i quali invece sono attratti dal prezzo basso con l’intensità di desiderio di una baccante durante un rito dionisiaco. Analizzeremo meglio questo vizio del presidente di Berkshire Hathaway, trattando nello specifico il suo rapporto con le opportunità di investimento in un approfondimento dedicato, per adesso ci limitiamo a segnalare un brano nel quale la tendenza a comprare a basso prezzo, trascende il borghese “mistake” per diventare un mistico ed esoterico “folly”: “I could give you other personal examples of “bargain-purchase” folly but I’m sure you get the picture: It’s far better to buy a wonderful company at a fair price than a fair company at a wonderful price”.  Il secondo tipo di errore sul quale vorrei concentrare la vostra attenzione è invece quello legato all’eccesso di sicurezza derivante dalla grande esperienza e dai successi ottenuti nel passato. Quante volte in paesi di cultura latina (e non solo) abbiamo ascoltato l’elogio dei capelli grigi e dell’esperienza. In un paese in cui un cinquantenne al potere è un giovane, cosa potremmo mai pensare di un ultra-ottantenne plutocrate? Chi oserebbe mai in una riunione italiana contraddire una persona dell’esperienza di Buffett? Ma anche su questo tema, con la sua consueta ironia, l’oracolo di Omaha racconta di come una volta aveva forzato, sbagliando, per fare un’operazione giocandosi la carta “Io sono più vecchio, fidatevi di me”: “I subtly indicated that I was older and wiser. I was just older”. Quante volte avete visto manager, senior manager o chiunque dotato di un minimo grado di autorità contorcersi come una tarantola pur di non ammettere i propri sbagli? A me tantissime volte. Devo ammettere però che, personalmente, a me le persone che non sanno riconoscere  i loro errori, più che farmi arrabbiare, mi fanno ridere, le trovo per l’appunto ridicole. Quanti mediocri non comprendono che la sola speranza per il miglioramento passa attraverso il riconoscimento dei limiti e degli sbagli che si sono commessi? Quanti invece si crogiolano nell’immobilismo estatico e auto-flagellatorio del rimuginare eterno  sulle proprie mancanze? Per entrambe le categorie Buffet ha parole di condanna. “Agonizing over errors is a mistake. But acknowledging and analysing them can be useful, though that practice is rare in corporate boardrooms”. Io ho una esperienza di consigli di amministrazione, e più in generale di organi collegiali di direzione, abbastanza importante rispetto alla mia età, ma devo dire che in effetti non ricordo nessuna seduta di consiglio nella quale ci sia presi il tempo di fare un analisi sistematica e scientifica di cosa non è andato secondo I piani. I dossier si studiano e si approfondiscono molto ex-ante, si approvano se è il caso e si celebrano quando finiscono bene. Quando finiscono male o sono destinati all’oblio o a processi alle persone che s’intende usare come capri espiatori in stile caccia alle streghe. Un consiglio di successo forse dovrebbe riuscire a fare di più e meglio sotto quest’aspetto. Il terzo e ultimo tipo di errori che segnaliamo ci rimanda una formula che i credenti hanno sentito ripetere tante volte: “In pensieri, parole, opere e omissioni”. Pur non essendo cattolico Buffett ha un’idea degli errori che rimanda alla nozione di peccato tipica dei santi della chiesa cattolica: “Typically, our most egregious mistakes fall in the omission, rather than commission, category”. Non solo, infatti, il nostro Warren si accusa degli errori che hanno portato a perdite in bilancio di Berkshire Hathaway e che sono quindi quasi immediatamente evidenti agli occhi del lettore/azionista, ma anche addirittura di ciò che è invisibile agli occhi del pubblico, vale a dire i mancati affari: “Some of my worst mistakes were not publicly visible”. “These were stock and business purchases whose virtues I understood and yet didn’t make”.

La Nuova Questione Meridionale: Da Dove Ripartire

di Massimo Veltri

Forse è il caso di non assegnare solo a specialisti – storici, letterati, saggisti, giornalisti… – il ruolo di discettare sul sud, sulla irrisolta, e sempre presente, questione meridionale, sulle dicotomie che costantemente affliggono le popolazioni delle nostre regioni, strette …fra un’autodifesa a volte arrogante di sé e della propria storia e del loro presente e un accollare sempre ad altri le condizioni di disagio in cui si sta a sud di Roma. C’è una parte della opinione pubblica che resta silente e oscillante fra questa e quella lettura delle cose, anche quella più avvertita, culturalmente e politicamente più o meno orientata, presa forse da altri temi e comunque in difficoltà nel chiarirsi le idee e formarsi una propria convinzione. E’ probabile che allargare la discussione possa risultare di qualche utilità oltre a fungere da esercizio di democrazia più o meno partecipata.
Il fenomeno leghista di qualche decennio fa e la chiusura formale e definitiva dell’intervento straordinario del mezzogiorno possono, se pure schematicamente, essere individuati come momenti spartiacque, dopo dei quali, in pratica, il sud s’è mostrato povero, muto, sulla difensiva. Le parole e i comportamenti di Miglio prima, Bossi e c. poi, caratterizzati da rozzi anatemi xenofobi, lombrosiani, divaricanti e al limite dell’eversività istituzionale con le minacce di separazione del paese erano basati sul nulla, sul voler mettere l’accento sulla questione settentrionale, su spostare l’asse delle azioni pubbliche verso la ‘parte produttiva’ del paese facendo leva su facili parole d’ordine che mobilitassero i siurbrambilla e le casalinghedivoghera, in base a una padanità fatta di operosità contro i vagabondi mediterranei? Certo, la questione settentrionale si poneva urgentemente entro uno schema di simmetricità con quella delle regioni del sud, entrambe le parti del paese chiamate a dover fare i conti con risorse finanziarie sempre più esigue, la fine dei partiti e dello stato della prima repubblica, lo scandalo di tangentopoli, la mondializzazione dopo la caduta del muro, un’economia chiamata a fronteggiare il postfordismo, l’istituto regionale scalpitante fra attribuzioni autonome e ruoli da svolgere. Una chiamata oggettiva di autodeterminazione e di responsabilità molto forte, quindi, in cui il protagonismo veniva invocato, così come pure la crescita dal basso, in quanto strumenti in grado di fornire scrollate a un sistema sempre più alle prese con un debito pubblico montante e il dover fare i conti con l’Europa. Si ricorderà, fra i tanti, lo slogan: Spostare l’asse europeo dalla valle del Reno fino al Mediterraneo. Sì, ma come?, se nel frattempo non ci si era resi conto che una stagione era finita, che la Cassa per l’Intervento Straordinario nel Mezzogiorno aveva chiuso i battenti, che aggiuntiva o sostitutiva o normale che fosse non c’era all’orizzonte alcuna politica mirata di accompagnamento o di sostegno per fuoriuscire dalle aree dell’obbiettivo 2 o 5bis, come la burocrazia di Bruxelles definì le regioni meridionali – le così dette aree in ritardo di sviluppo. Strumenti di programmazione negoziata come i Patti Territoriali parevano a qualcuno l’uovo di Colombo per mettere insieme stato, nelle sue diverse articolazioni, imprenditori, tecnici, ma pure quella stagione si esaurì non lasciando grande traccia di sé.
Sono stati licenziate alle stampe di recente alcuni libri che di provenienza e con taglio diverso forniscono un’utile traccia di ragionamento oltre che l’occasione per suscitare un dibattito allargato. Vito Teti, Carlo Borgomeo, Gianantonio Stella, Pino Aprile, tutti parlano del sud, parlano di noi. E noi, parte chiamata in causa, qualcosa la possiamo – la dobbiamo – dire. Non so se è il caso di pensare a un convegno ad hoc : qui mi limiterò ad alcune brevi considerazioni, che per il momento non parlano di Mezzogiorni, come pure, appropriatamente, Cersosimo e Donzelli qualche anno fa fecero.
Mentre c’è da parte di qualcuno la constatazione che i pur ingenti fondi europei non sono stati utilizzati per mancanza di progettualità e reclama cabine di regìa e linee guida da parte dello stato centrale, per altro verso si continua a reclamare la più totale autonoma regionale. E se da una parte ci si lamenta perché le risorse finanziarie sono del tutto inadeguate a dare risposte alle popolazioni, e si bussa a cassa, dall’altra restano impietosamente non spese grande parte degli euro di provenienza europea.
C’è un punto iniziale, a mio parere, da dirimere: il sud come reagì all’euro, alla lega, alla fine della Cassa del Mezzogiorno? O, piuttosto, il sud non doveva essere pronto a ‘prevenire’ e ‘prevedere’ quello che sarebbe successo? Mi riferisco alla sua classe dirigente – mi correggo: alle sue classi dirigenti, non solo quella politica, intendo: una stagione aveva chiaramente lasciato intravvedere ch’era ormai giunta al capolinea e bisognava perciò cambiare. Cambiare cosa? Atteggiamento culturale, attrezzatura politica, strumenti di intervento, e così via. Una vera e propria cesura, s’è verificata lungo le trame d’un tessuto istituzionale e produttivo del paese, quello, fra gli altri, che voleva un sud consumatore versus un nord produttore.
Stare a rincorrere quello che poteva essere e non è stato è esercizio bolso oltre che inutile. Così come improponibili appaiono certi posizionamenti nostalgici che vagheggiano a ritorni preunitari e borbonici. Atteggiamenti razzisti ed escludenti sono parimenti da rigettare mentre interessanti appaiono un paio di posizioni. Quella che mira alla crescita non tanto o non solo del Pil quanto all’aumento della coesione sociale (Borgomeo), e in specie quella di Teti, che introduce il termine di ‘nostalgia attiva’, per sottolineare la ricerca, la riscoperta delle radici identitarie, non già per chiudersi in sterili autocompiaciute e autoconsolatorie visioni d’un’arcadia che non c’è più (ammesso ci sia mai stata), ma piuttosto per incamminarsi con dignità entro scenari non localistici ma nazionali e globali con il carico, positivo, di specificità da mettere in gioco. Certo, in Teti si avverte il travaglio, il disagio, di chi è consapevole di non poter difendere l’indifendibile, costituito da cialtronerie, demagogismi, ruberie, inadeguatezze… e Teti è pure certo, contemporaneamente e con pari se non maggiore carico di indignazione, che non si può dire sempre la-colpa-è-degli-altri. Difendersi dagli attacchi esterni è necessario, è dovuto. In particolare quando questi attacchi sono sommari, falsi, storicamente decontestualizzati, ma farlo può risultare esercizio difficile, da solo, da soli. Occorre perciò una riflessione per fare un punto e per avanzare una proposta. Abbiamo città importanti, comunità d’alto profilo, patrimoni inutilizzati. Bisogna fare rete.

Parlando di donne e di legge elettorale

di Giuseppina Bonaviri

 

La legge elettorale che viene presentata alle Camere esprime una parità di genere  solo enunciata che penalizza la società italiana. E’ il risultato d’inerzie culturali che si ripercuotono  sugli squilibri della rappresentanza. Un vulnus che si ripete, già visto in occasione dell’approvazione del “Porcellum” nel 2005. In quell’occasione , infatti, l’emendamento che proponeva «quote di genere» presentato dalla stessa maggioranza fu respinto alla Camera in sede di votazione con scrutinio segreto: ottenne 452 voti a sfavore, contro solo 140 favorevoli.

Il testo base della legge elettorale, l’Italicum, pur rappresentando un passo avanti rispetto al passato, continua a non assicurare un’equa rappresentanza per noi donne italiane. Sebbene la nuova legge in studio preveda l’obbligo di garantire uguale presenza di uomini e donne nelle liste non assicura altrettanto nella rappresentanza in parlamento. Occorrerebbe che tutte-i  i parlamentari lavorassero per modificare il testo, introducendo la semplice alternanza “una donna un uomo” e la parità 50-50 rispetto ai capilista. Molte deputate e senatrici si sono già mobilitate trasversalmente ai partiti politici dandoci la sensazione che, finalmente, le donne e la gente è diventata consapevole che le questioni di genere sono temi di cittadinanza e non sessisti.

Attualmente non viene salvaguardato il principio antidiscriminatorio previsto dagli art.3 e 51 della Costituzione, articoli che sanciscono la pari dignità sociale delle-i cittadine-i e le condizioni di eguaglianza nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive. “ Nonostante l’elemento positivo introdotto all’art.1, comma 9, l’ alternanza dei generi due a due maschera in realtà un ritorno al passato cancellando di fatto l’ unico elemento capace, come è noto, di garantire una reale rappresentanza.” La politica non vuole ancora capire che le donne non sono riserve protette. Stando così le cose, torniamo a sottolineare, che per rendere realmente efficace il principio di pari opportunità nella rappresentanza politica è necessario introdurre quel vincolo dell’alternanza di genere uno a uno nelle liste e la medesima alternanza per i capilista. Quella presentata nei giorni scorsi dalla legge in discussione ci pare una formula inadatta che non ci consentirà nuovamente il cambiamento tanto profondamente auspicato. Crediamo che non si tratti di semplice questione di quote ma di un vero salto di qualità, di un avanzamento della nostra democrazia oggi, purtroppo, ancora assai zoppicante.

Proporre allora profili eccellenti, come già molti movimenti di base in Italia stanno facendo, perché le prossime donne che entreranno in Parlamento possano essere espressione della migliore società italiana (ciò sta già avvenendo, grazie alla legge sulle quote di genere, nei  CdA delle società quotate e controllate) può restituire alle cittadine e cittadini un vero potere di scelta che peserà sul reale interesse per il bene comune del Paese e sulla determinazione di scrivere regole trasparenti  che restituiscano capacità di decisione reale alla base.

Manca l’attenzione al tema della democrazia paritaria da parte della maggioranza delle forze politiche. Bisogna iniziare dal modificare i linguaggi comuni per permettere che anche il nostro territorio si trovi al passo coi tempi.  Il linguaggio non è solo strumento di comunicazione; rimane la piattaforma prioritaria della formazione dei nostri pensieri  tanto che, come ci insegnano  gli scienziati, non esiste pensiero senza linguaggio. Per una cittadinanza di genere diffusa dobbiamo partire proprio da qui: trovare le parole giuste che siano l’inizio di un cambiamento di rotta. La lingua rispecchia la nostra cultura, dunque, la riflessione sul modo di rappresentare le donne attraverso il linguaggio è la ragione per la quale è importante il ruolo che esso svolge nel processo di costruzione dell’immagine femminile collettiva. Sollecitare, allora, l’adozione spontanea di codici di autoregolamentazione nella comunicazione dei problemi e nelle aspettative progressiste di genere è condizione primaria per una politica più umana ed equa.

Le innovatrici fanno un appello perché sia modificata della legge elettorale ricordando anche l’Accordo di azione comune per la democrazia paritaria che va sostenuto con azioni comuni di massa. Proponiamo da tempo di lavorare insieme per riscrivere una agenda di democrazia paritaria mobilitandosi verso un’altra Europa come opportunità reale di voltare pagina e costruire un futuro nuovo, con un parlamento profondamente rinnovato, nelle pratiche e nelle ideologie.  Solo se non si lascerà indietro metà della popolazione, quella che sta dimostrando le migliori performance e il più forte impegno nel sociale, si creeranno le basi di una svolta sociale, civile e politica. Le donne non sono vessillo di conquista e di supposta emancipazione, ciò sarebbe un segnale assai negativo. Le donne possono e devono essere, invece,  in prima linea insieme agli uomini se si vuole scrivere un nuovo, fiorente  capitolo di storia italiana.

La scossa di Prodi al premier: non abbia paura, ora tenti una sortita

Romano Prodi (Epa)Romano Prodi (Epa)

BOLOGNA – Professor Prodi, l’Italia vive uno dei momenti peggiori del dopoguerra. E il sogno europeo appare infranto, con la Germania che vuole farla da padrone. «Non è che vuole: la Germania la fa da padrone. E continua per la sua strada, anche se molti osservatori, tedeschi e non tedeschi, pensano che l’eccessivo surplus renda il rapporto di cambio dell’euro insopportabile per gli altri Paesi. Un surplus minore aiuterebbe l’economia di tutta l’Europa».
L’euro è troppo forte per noi? «Oggi siamo quasi a 1,40 sul dollaro. Fossimo a 1,10, anche 1,20, saremmo in una situazione ben diversa».
L’euro era stato pensato per valere un dollaro? «Più o meno. Ricordo, quand’ero presidente della Commissione europea, gli incontri annuali con il presidente cinese Jiang Zemin. Avevamo dossier alti una spanna, ma a lui interessava solo l’euro. Gli consigliai di comprarne come riserva. All’inizio il valore dell’euro crollò a 0,89 rispetto al dollaro e, quando tornai da Jiang, avevo la coda fra le gambe. Ma lui mi rasserenò subito: “Lei pensa di avermi dato un cattivo consiglio, ma io continuerò a investire in euro. Perché l’euro salirà. E perché non mi piace un mondo con un solo padrone: sono felice che accanto al dollaro ci sia un’altra moneta”. A causa degli errori europei, l’altra moneta accanto al dollaro sta diventando lo yuan. Le divisioni europee ci hanno fatto perdere occasioni enormi. Vai in Medio Oriente e ti senti dire: “Siete il primo esportatore e il primo investitore, ma non contate nulla”. Non c’è un grande problema internazionale in cui l’Europa abbia contato qualcosa».
Alle elezioni del 25 maggio si profila un successo delle forze antieuropee. Può essere una scossa? «Lo sarà senz’altro. Questa del resto è la storia d’Europa. L’Unione ha sempre avuto uno scatto dopo le crisi. La prima volta accadde con la “sedia vuota” di De Gaulle. Oggi la sensazione è ancora più forte perché abbiamo sul collo il fiato della Cina, dove fortunatamente il costo del lavoro continua a crescere. Anche se rimangono ancora grandi differenze nel costo della mano d’opera standard, oggi Unicredit paga i neolaureati di Shanghai come quelli di Milano. Dobbiamo ritrovare una politica europea comune, se vogliamo avere ancora una leadership. Occorre ribaltare la situazione. Nelle svolte del mondo bisogna essere i primi a capirle».
L’Italia si impoverisce. Eppure non c’è rivolta sociale. Perché? «Perché la perdita del lavoro avviene goccia a goccia: infinite gocce che fanno molto più di un fiume, ma non fanno una rivoluzione. È un fenomeno mondiale: la frantumazione della classe media; la jobless society ».
La società senza lavoro. «Si distruggono i lavori di medio livello. Disegnatori. Segretarie. Praticanti degli studi legali. Cassieri. Impiegati delle agenzie di viaggio o degli sportelli bancari e assicurativi. L’altro giorno parlavo con il responsabile di una grande banca. Gli ho chiesto se tra dieci anni i dipendenti saranno più o meno della metà rispetto a oggi. Mi ha risposto che saranno molto meno della metà. Aumenta la disoccupazione diffusa, cui si cerca rimedio con i “minijobs”: spezzoni di lavoro pagati sotto la soglia di sussistenza. Ma quando tagli la fascia media, si distanziano non soltanto i redditi; si distanziano due parti della società. Si salvano solo gli innovatori. Non a caso gli Stati Uniti, patria dell’innovazione, vanno meglio di noi».
Perché proprio l’Italia è il grande malato d’Europa? «Perché non agisce come un Paese unito. I problemi aperti esigono una risposta corale. Invece la società è frammentata. Il governo ha una cronica mancanza di autorità. I sindacati si saltano gli uni con gli altri, sono divisi anche all’interno della stessa organizzazione, e la Confindustria è stata sempre ben contenta di dividerli. Tra sindacato e grandi imprese ci sono tensioni, come alla Fiat, che non si sono viste in nessuno stabilimento europeo. Il problema non è il costo del lavoro: in Spagna è inferiore di appena il 7%; in Germania è superiore di oltre il 50%. Il problema è il modo in cui si lavora. È la paralisi del sistema produttivo. È la mancanza di una politica industriale».
Che valutazione dà del Jobs Act di Renzi? «La direzione è quella buona. Ma bisogna tradurla in decisioni concrete. Devono capirlo tutti: il potere politico, i sindacati, le imprese. In questi anni si sono aperti molti tavoli di concertazione; la frammentazione li ha uccisi tutti».
Voi varaste il pacchetto Treu. «Sì, noi usavamo l’italiano e lo chiamammo pacchetto». Oggi a Palazzo Chigi c’è un suo allievo, Enrico Letta. Quale consiglio gli darebbe? «Di tentare una sortita. Di prendere iniziative anche contestate. Di non avere paura di mettersi in una controversia».
In un articolo sul «Messaggero » lei ha ricordato che il potere pubblico è intervenuto ovunque in difesa dell’industria dell’automobile, dalla Spagna agli Stati Uniti, tranne che in Italia. «È oggettivo che l’affare Fiat si sia concluso senza la voce del governo. E sull’Electrolux c’è stata solo una mediazione a posteriori».
Perché è andato a votare alle primarie del Pd? «Ho deciso il giorno dopo la sentenza della Consulta. Perché ho avuto paura che riemergesse una legge elettorale che rendesse impossibile governare il Paese».
La nuova legge le piace? Cosa pensa dell’attivismo di Renzi? «Non rispondo a questa domanda. Ho sentito il dovere di votare alle primarie come risposta a un’emergenza, non come scelta di tornare alla partecipazione. Il ruolo elettorale è un dovere civico, non significa proporsi o essere disponibili ad accettare una carica. Ho ritenuto che il Pd fosse indispensabile per evitare lo sfascio totale. Dopo di che non ho più preso parte alla politica attiva. Sarei solo di disturbo».
Perché? «Perché ogni azione sarebbe interpretata come appoggio all’uno o all’altro, come un disegno personale per un futuro che non esiste».
Non vuole fare il presidente della Repubblica? «No. Mi pare di averlo già chiarito in più di un’occasione. Il Paese è cambiato. C’è un nuovo mondo. Occorrono persone nuove che lo interpretino. La nuova politica, per linguaggio, contenuto, velocità, supera la mia capacità di comprensione. Non sono un uomo 2.0».
Lei ha raccontato una telefonata con D’Alema, nel giorno dei 101 franchi tiratori, da cui dedusse che sarebbe finita male. Come andò? «Fu anche divertente. Ero in riunione a Bamako, in Mali. C’era un’atmosfera distesa. France Presse scriveva che stavo diventando presidente della Repubblica, tutti i capi di Stato africani mi facevano il pollice alzato. Io rispondevo con il pollice verso, perché sapevo già come sarebbe andata a finire. Avevo fatto le telefonate di dovere. Prima a Marini, poi a D’Alema, che mi disse che certe candidature non si possono fare in modo così improvvisato. Fu allora che chiamai mia moglie Flavia in Italia, per dirle di andare pure alla sua riunione, tanto non sarebbe accaduto nulla. Poi telefonai a Monti, che mi avvisò che non mi avrebbe votato perché ero “divisivo”. Infine telefonai a Napolitano perché ormai era chiaro come sarebbe andata a finire. Anche se mi aspettavo 60 defezioni, non 120: perché furono più di 101».
È stato scritto che lei è in contatto con Grillo e Casaleggio. È vero? «Mai avuto rapporti politici di nessun tipo, salvo quello di spettatore divertito. Grillo venne a trovarmi nell’81 a Nomisma, per discutere gli aspetti economici dei suoi testi. Nel 2007 mi fece un’intervista strumentale a Palazzo Chigi: all’uscita disse che dormivo. Avevo invece risposto a tutte le sue domande, spesso con gli occhi chiusi, come faccio d’abitudine quando penso, e il filmato lo dimostra. Casaleggio è venuto una volta a salutarmi a un convegno pubblico a Milano. Stop».
Come valuta il successo dei Cinque Stelle? «È un movimento di protesta che si manifesta in varie forme in tutti i Paesi europei, tranne che in Germania. La Merkel è stata molto abile ad assorbire il populismo, riassicurando i tedeschi a scapito del resto d’Europa. Anche per questo Italia, Francia e Spagna dovrebbero reagire presentando un programma alternativo nei confronti della Germania. Noi abbiamo gli stessi interessi, ma ognuno pensa di essere più bravo degli altri. Dai consigli europei si esce con le stesse decisioni con cui si è entrati».
La sua immagine pubblica è legata alla bonomia, alla fiducia. È raro trovarla così pessimista. «Io sono pessimista per poter essere ottimista. Il passaggio dal pessimismo all’ottimismo si ha solo attraverso un’azione politica forte e coraggiosa. L’unico fatto positivo di questa crisi drammatica è che sta maturando la consapevolezza dell’emergenza, e della necessità di cambiare. Sempre più ci si rende conto che c’è troppa gente che soffre. Finora la sofferenza arrivava alla Caritas. Ora si è affacciata persino al Forum di Davos. Anche se la finanza ha ripreso a operare come prima».
C’è il rischio di un’altra bolla e di un altro crollo? «Non ci sono state riforme fondamentali nel sistema finanziario. C’è più paura e quindi più consapevolezza ma non ci sono veri strumenti nuovi».
Nella storia italiana recente, e quindi nel declino del Paese, anche lei ha avuto un ruolo. C’è qualche errore che non rifarebbe? «Questa è una domanda inutile. Ci sono sfide che si affrontano sapendo perfettamente che si incontrerà la resistenza e la reazione del sistema, e quindi con buone possibilità di fallimento; eppure sono sfide che affronterei di nuovo».
Faccia un esempio. «La privatizzazione dell’Alfa Romeo. Trattai con Ford perché ritenevo necessario che ci fosse concorrenza. Arrivammo ad un progetto di accordo di grande respiro, però avvertii i negoziatori: se si mette di mezzo la Fiat, salterà tutto, perché si muoveranno i sindacati, le autorità ecclesiastiche, gli enti locali, insomma il Paese. Fu proprio quello che accadde. È vero che la Fiat offrì qualche soldo in più ma, in ogni caso, non vi furono alternative. I negoziatori della Ford conclusero dicendo: “Ci spiace molto; lei però ci aveva detto la verità”».
Le chiedevo di farmi l’esempio di un errore. «È un errore sopravvalutare le proprie forze. Ma penso che oggi l’Italia abbia bisogno di essere messa di fronte alle sue sfide. Per questo parlo di “sortita”. Verrà il momento in cui le sfide non si potranno non affrontare. Se hai un disegno, devi anche rischiare. E io credo di aver rischiato sempre. Non a caso, sia il primo sia il secondo governo Prodi sono stati fatti saltare. Anche se tra le due cadute c’è una bella differenza».
Quale differenza? «Nel 2008 il mio governo è caduto a causa della frammentazione politica e dei personali interessi di alcuni suoi membri ma, in ogni caso, era un cammino faticoso. Nel 1998 il mio primo governo è caduto perché andava bene. Non solo hanno buttato giù un ottimo governo, con Ciampi all’Economia, Andreatta alla Difesa, Napolitano agli Interni, Bersani all’Industria e poi Flick e Treu… Peggio ancora: hanno distrutto l’entusiasmo. E ci vuole più di una vita per ricostruire l’entusiasmo».
Rifarebbe pure il Pd? «Il Pd è l’unico punto di solidità del Paese. Ma se fosse andato avanti l’Ulivo avremmo avuto il Pd già quindici anni fa, e l’Italia non sarebbe sprofondata in questa crisi politica».

Sibari e il Crati

di Massimo Veltri (su Il Quotidiano della Calabria)

Due teoremi agitano da tempo il dibattito culturale. Ragionare e lavorare in termini multiculturali e interdisciplinari; coniugare il patrimonio delle conoscenze vie via acquisite con le scelte politiche. Infatti è alta la consapevolezza della complessità dei problemi che una società qual è quella moderna – attraversata da mille contraddizioni e altrettante domande – pone all’attenzione dei decisori, in termini di vere e proprie sfide che, per essere affrontate con qualche probabilità di successo, richiedono oggettivamente, più sapere, più saperi mesi assieme. Questi teoremi assumono vero e proprio valore di paradigmaticità relativamente alla discussione che benemeritamente si sta portando avanti sull’area archeologica di Sibari, e per estensione sull’intero catalogo dei nostri beni culturali, sul paesaggio, sull’intero territorio calabrese. Salvatore Settis nel ricevere la laura honoris causa dall’Ateneo reggino ha pronunciato parole impegnative, quando ha ricordato di non esser mai stato interpellato da alcun amministratore e politico calabrese, circa aspetti legati alle sue specializzazioni che lo hanno reso famoso nel mondo. E quando ha confessato che ha trovato una Calabria meno povera ma sempre più alla ricerca di se stessa. Il consumo del suolo, l’incuria, l’abbandono, il costruire selvaggio, l’assenza di un’idea di paesaggio, hanno attraversato il messaggio di Settis, che resta affidato, così, a quanti vorranno farne una bandiera. Una bandiera che in verità non è di oggi ché solo qualche lustro fa l’attenzione per i comparti richiamati da Settis era forte, sentita, praticata. Poi si scelse (passivamente?) il fai-da-te e la spoliazione del territorio. Proprio dalla Calabria può ripartire invece una nuova tendenza, ch’è quella dettata dalla ragione, dal buon senso: quella di un modello di sviluppo intrinsecamente legato ai giacimenti culturali e naturali locali, in nome della sostenibilità e del rispetto della storia. Sibari, appunto: abbiamo appreso che c’è – ci sarebbe – una disponibilità finanziaria utile a intervenire sull’area degli scavi per quanto riguarda musei da costruire e interventi di tipo squisitamente archeologico. Qualche risorsa è ravvisata altresì per il drenaggio delle acque, ma non pare chi sa che. La domanda che, ingenuamente, affiora è la seguente: si può pensare di salvare una bottiglia su un tavolo se il tavolo è instabile? O si deve prima, o insieme, stabilizzare il tavolo? Fuor di metafora: ben vengano le attenzioni e le misure per i reperti archeologici (purché non tardino molto), ma contemporaneamente – se si vogliono fare le cose per bene e non introdurre rattoppi e  e rammendi che durano lo spazio di qualche stagione – è necessario porre mano all’emergenza fisica del suolo e del sottosuolo che interessa la valle del Crati (tanto per fissare qui la nostra attenzione). Perciò si parlava all’inizio di multidisciplinarietà e interculturalità. Non si fanno passi in avanti se il responsabile di un assessorato ignora quel che fa il suo collega d’altro assessorato, se le azioni che promuovono su un ben determinato tema, sono fra loro disgiunte, con il rischio, per di più, di collidere fra loro. Una volta si parlava di politiche coordinate, e pure di accordi di programma, o di conferenze di servizi, per evidenziare, a vari livelli e su scale diverse, l’imprescindibilità di mettere insieme attribuzioni e afferenze tematicamente distinte, verso obiettivi comuni che richiedono convergenze. Per muoversi in tale direzione non solo c’è bisogno di volontà e di guida politica, ma serve pure altro. Serve che si mettano assieme archeologi, storici, ingegneri, architetti, geologi… ; serve che ciascuno di coloro che appartengono alle varie professioni si spoglino della loro certezza d’esser gli unici – o i più qualificati – portatori di soluzioni definitive e si abituino a lavorare inter pares con gli altri; serve imparare a parlare un linguaggio comune; serve la sintesi. Tutto ciò al di fuori da spontaneismi legati a visioni e a conoscenze obsolete, ché negli anni le ricerche e gli approcci metodologici, le stesse best practices, sono molto mutati e perciò servono specialisti seri, veri, ben guidati e accompagnati. La scommessa prima, e la più difficile, è proprio quella di sposare convintamente la scelta interdisciplinare: quindi forte impulso al Piano di Bacino del Crati, manutenzione e pulizia dell’alveo e delle sponde (nella ridda degli enti competenti sempre più intricata, sovrapposta, di fatto deresponsabilizzante con il continuo gioco a rimpiattino), interventi di somma urgenza certo, ma accanto o subito dopo una politica territoriale scaglionata nel tempo, programmata. Mentre si mette mano a tutto l’enorme lavoro che c’è da fare su quanto insiste a fianco e sotto il letto del fiume, con tutti i tesori abbandonati e mortificati che aspettano un segno di resipiscenza dell’uomo.

Il futuro del lavoro

di Francesco Grillo (Su Il Messaggero)

Una crescita senza lavoro: è questo il nuovo spettro che preoccupa i governi del mondo. In Europa la ripresa – peraltro assai debole in Italia – rischia di non intaccare tassi di disoccupazione assai elevati con l’effetto di aumentare le diseguaglianze e la frantumazione. Chiunque parli di lavoro non può non tenerne conto, se vuole evitare il rischio di prescrivere cure che nascono obsolete prima ancora di essere somministrate. Ed è  ancora una volta la tecnologia che sta cambiando tutto.

Tra vent’anni, prevede l’Economist nell’ultimo numero dedicato al “futuro del lavoro”, in molte città del mondo non ci saranno più tassisti, sostituiti da automobili che si guidano da sole: un sogno antico che le sperimentazioni di Google stanno avvicinando sempre di più. Forse – aggiunge il settimanale inglese – non ci saranno più neppure i giornalisti che un tempo quando arrivavano in una città nuova ricevevano proprio dai tassisti informazioni di prima mano, perché con Internet stanno cadendo molte delle barriere che proteggono l’accesso privilegiato alla conoscenza di cui questa professione beneficiava. Non ci saranno più neppure i vigili, sostituiti dai telefoni cellulari che forniscono  molte più informazioni di quelle  stradali e dalle telecamere che – con assai maggiore affidabilità e minori costi – possono controllare il traffico e dispensare multe. In uno studio dell’Università di Oxford si calcola che il 47% dei posti di lavoro rischiano di scomparire nei prossimi vent’anni sotto l’urto di un gigantesco tsunami tecnologico.

L’ultima mutazione è però diversa da quelle che l’hanno preceduta: stavolta ad essere automatizzati non sono i lavori manuali nelle grandi fabbriche come con la rivoluzione industriale dell’ottocento e, neppure, quelli contabili come è successo con i computer negli ultimi cinquant’anni. La nuova rivoluzione è quella delle tecnologie che escono dalle fabbriche e dagli uffici e si abbattono sulle quotidianità trasformando le automobili, le piazze, le case, gli ospedali, i libri in oggetti informativi in grado di ricevere, trasmettere ed elaborare informazioni e di prendere decisioni al posto dell’uomo sulla base di quelle informazioni. Ad essere sostituiti sono non solo quelli che lavorano agli sportelli, ma tutti quelli il cui lavoro può essere sostituito da una routine:secondo gli economisti di Oxford sono quasi fuori dal mercato centinaia di migliaia di persone che lavorano alle casse, quando tutti i detersivi saranno forniti di sensori; ma anche i chirurghi rischiano di perdere il proprio ruolo se – almeno per un certo tipo di interventi – riusciremo a incorporare in una macchina il know how del migliore specialista e renderlo fruibile a distanza.

Benessere senza lavoro:i numeri confermano che il fenomeno è già ampiamente in corso. Se consideriamo gli ultimi tredici anni dal 2000 che è un periodo sufficientemente lungo per trarne conclusioni strutturali, l’economia americana – considerata da tutti una vera e propria macchina che fabbrica lavoro grazie alla sua flessibilità e capacità di innovare – ha creato poco più di cinque milioni di nuovi posti di lavoro: mai così pochi da quando esiste questa statistica. È vero che nel 2008 c’è stata una crisi devastante, ma nello stesso periodo il PIL è aumentato del 28%, la popolazione del 13 e l’occupazione solo di quattro punti. Gli stessi numeri valgono anche per i Paesi che non hanno conosciuto crisi: secondo l’ILO, nonostante il fatto che il PIL mondiale sia cresciuto del 60% negli ultimi quindici anni e la creazione di vaste classi medie in Cina o Brasile, il tasso di occupazione è rimasto lo stesso. Le conseguenze della crescita senza occupazione sono evidenti: sempre più bassa è la quota della ricchezza generata che va a remunerare il lavoro, sempre più forti sono le differenze tra quei pochi che si adattano al nuovo contesto e chi rimane fermo.

Cosa fare allora? Quali sono i lavori che sopravvivono? Come fa un governo a incoraggiare i processi che trasformano la minaccia in un’opportunità per tutti?

Di sicuro cambia radicalmente l’obiettivo delle politiche per il lavoro. Difendere ciò che esiste equivale a negare il problema, rendendo ancora più dolorosa la transizione quando saremo, e già lo siamo, con le spalle al muro. Conta rendere le persone molto più capaci di cambiare: per competenze, approccio al lavoro e alla vita. E incoraggiare le imprese a fare la stessa cosa, perché c’è un problema anche sul lato della loro propensione a innovare se il sistema è sempre più incapace di assumere i giovani.

Certamente è necessario – lo dicono i numeri sulla correlazione tra investimento in educazione e occupazione – investire molto di più e subito nella scuola. Sarà però necessario anche un cambiamento in ciò che la scuola insegna: ciò che conta – come dice l’esempio dei chirurghi e degli specialisti sostituiti dai robot che ne incorporino le procedure – è la capacità di aggiornare continuamente la propria conoscenza, adattarla al contesto e alla persona che si ha di fronte, battere la routine.

In settori a produttività stagnante come quello pubblico la mutazione sarà radicale: si svuoteranno gli uffici e gli sportelli; ma a produrre beni pubblici in settori non raggiunti dal mercato saranno chiamati molti più insegnanti, consulenti per giovani e anziani che vogliono trovare un’occupazione nuova, mediatori di crisi familiari, fisioterapisti e archeologi.

L’Italia ha poi una grande possibilità: tra i lavori che difficilmente verranno sostituiti ci sono quelli che hanno a che fare con l’arte,i beni culturali che sono solo parzialmente fruibili a distanza. Come è successo nel passato, la tecnologia libera risorse per poter far emergere nuovi, più sofisticati bisogni tra le classi medie dei Paesi emergenti.

È la creatività distribuita la chiave di accesso al futuro, un futuro che potrebbe essere, paradossalmente, simile ad un passato classico che proprio in Italia ha vissuto il proprio apogeo. Un leader, se c’è, dovrebbe capire che la vera riforma di cui abbiamo bisogno, è rovesciare l’inerzia, il pessimismo di tanti in un progetto che mobiliti le aspettative e le energie di tutti.

 

Risposta a Michele Mezza: i problemi dell’Italicum, il metodo Renzi

di Francesco Grillo

Non faccio parte del PD e mi innervosisco quando qualcuno prova ad associarmi ad una qualche famiglia politica. Ma devo dire che il dibattito nel PD e attorno al PD è importante. Che tale dibattito, però, è alle volte un po’ deludente. E con assoluta sincerità devo, per esempio, dire che semplicemente non capisco quello che l’amico Michele Mezza scrive a proposito di Brenno e Matteo Renzi. Non si può non essere d’accordo con l’urgenza di darci – come sistema – una mossa. Non si può non provare a dare una mano a chi si metta in testa di dover mandare in soffitta mummie putride rottamando una classe dirigente. Non si può non apprezzare il metodo di stilare un programma di governo come se fosse un file Excel con tanto di impegni, responsabilità e date. E, tuttavia, se è vero bisogna muoversi, è altrettanto vero che bisognerebbe tentare di farlo nella direzione giusta. Discutendo del merito dei problemi da affrontare. Cercando, anzi costruendo i meccanismi diffusi di selezione della classe dirigente (si tratta di centinaia di migliaia di persone – nella politica, nelle amministrazioni pubbliche, negli ospedali, nelle scuole, nelle grandi imprese a partecipazione statale – e, non soltanto, di una decina di dirigenti di Partito) che dovrà sostituite quella vecchia. E allora costa dirlo ma le prime mosse di Renzi sembrano approssimative e rischiose. Se proviamo a scendere nel merito. E prescindiamo per un momento dalla discussione sugli incontri tra Renzi e Berlusconi. La proposta di legge elettorale, ad esempio, è rischiosa per la credibilità del Parlamento. Per il Paese e per quella che, una volta, si definiva con un termine retorico, la sua “tenuta democratica”, perché essa è legata alla conservazione di quel poco di credibilità che rimane al Parlamento. Per lo stesso Partito Democratico, perché questa legge rischia di essere – per motivi opposti – un regalo proprio ai due concorrenti – M5S e Forza Italia – con i quali Renzi si vuole giocare la possibilità di governare senza contrasti per cinque anni. Fatto sta che appare assai discutibile partire dall’assunto di voler ridurre – a forza di premi di maggioranza e sbarramenti – l’offerta politica italiana a due poli – quando ce ne abbiamo tre di dimensioni uguali. O, addirittura, a due partiti – eliminando magari proprio quello che alle ultime elezioni ha avuto più voti e quando per i due che si vogliono far sopravvivere alle ultime due elezioni hanno votato meno di un terzo degli elettori. Certamente non abbiamo ulteriore tempo da perdere con la legge elettorale ed, anzi, è certamente vero che essa doveva essere fatta dieci mesi fa come atto preliminare alla nascita del Governo e ha fatto bene Renzi a “stanare” tutti. Tuttavia, un senso di responsabilità minima dice che non possiamo assolutamente permetterci il rischio che questo Parlamento – eletto con una legge ritenuta non costituzionale – faccia una legge ritenuta nuovamente non costituzionale dalla Corte, se non vogliamo mandare definitivamente in frantumi la legittimità delle istituzioni democratiche. E allora perché non ricorrere ad una legge che ha già funzionato per i primi dieci anni di questa cosiddetta seconda repubblica (si chiamava Mattarellum) senza che nessuno ne invocasse la illegittimità e che sembrava non dispiacere né al PD, né a Forza Italia e neppure al Movimento Cinque Stelle? Perché non prendere – verificate le compatibilità istituzionali minime – senza nessuna modifica la legge di un qualsiasi altro Paese normale europeo nel quale le leggi elettorali durano da decenni? Perché arrivare a concepire questo “italicum” per il quale il rischio di bocciatura da parte della Corte esiste, ma che presenta anche – per il PD – il rischio di una vittoria definitiva di Berlusconi? E, comunque, per chiunque governi il rischio di farlo contro la volontà o l’indifferenza di due terzi degli elettori? L’errore più grosso è, però l’idea della legge elettorale come uno strumento per forzare esiti che non esistono nel Paese. La tentazione di voler – a tutti i costi – far vincere chi non riesce a vincere politicamente nel Paese. La convinzione che tutti i problemi si riducano a dare a qualcuno – a costo di sceglierlo a sorte – tutte le leve del potere. Non c’è nulla di nuovo in questo atteggiamento: è il riflesso condizionato di una società in grave difficoltà e che non sa più a quali santi votarsi; lontanissima dalla percezione del cambiamento come progetto che coinvolge tutti e del leader come soggetto che convince molti a mettersi in gioco. Di questo – aldilà degli incontri, degli slogan, delle metafore – dovrebbe parlare il PD e il Paese. Di contenuti e non di intenzioni. In maniera veloce ma focalizzata. Nell’interesse anche di Matteo Renzi.

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