Innovatori Europei

Significativamente Oltre

Lo spettro delle elezioni europee

di Francesco Grillo

Un fantasma si aggira nelle sedi delle istituzioni europee ed esso agita anche il sonno di molti dei capi dei Governi nazionali. In effetti, l’ultimo sondaggio sull’esito delle elezioni politiche europee curato da ricercatori della London School of Economics per VoteWatch dà sostanza alle peggiori paure: un’alleanza di quelli per i quali l’EURO fu una pessima idea potrebbero presto essere maggioranza e per più di cento dei nuovi europarlamentari non dovrebbe esistere neppure lo stesso Parlamento del quale essi saranno membri. Tuttavia, questo esito potrebbe anche essere visto come un’opportunità se gli europeisti dovessero finalmente capire che l’opzione di uno smantellamento del progetto europeo è possibile: per evitarlo è necessario un cambiamento profondo che abbia il coraggio di affrontare finalmente il problema più grosso che è, in definitiva, un problema di democrazia. In questo contesto, dice ancora il sondaggio, il Partito Democratico di Matteo Renzi potrebbe ritrovarsi tra le mani un’opportunità unica.

Certo le elezioni del prossimo parlamento difficilmente potranno segnare un immediato ribaltamento dei processi di integrazione più rilevanti: la coalizione tra tutti quelli che condividono sentimenti di profonda opposizione nei confronti di quest’Europa è resa difficile – come dimostra la distanza tra il movimento cinque stelle italiano e il Fronte Nazionale francese –  da divisioni ideologiche che ancora distinguono la Sinistra dalla Destra. Tuttavia, se anche le prossime consultazioni dovessero far registrare un aumento dell’astensione – uno dei paradossi è che la partecipazione al voto per il Parlamento europeo è costantemente diminuita passando dal 61% delle prime elezioni del 1979 al 44% delle ultime nel 2009, mentre contemporaneamente crescevano i poteri -, la sera del 25 Maggio potremmo ritrovarci ad accorgerci che per le forze che hanno guidato l’assemblea di Strasburgo nei suoi quarant’anni di vita – le “grandi” famiglie dei socialisti, dei popolari a cui aggiungere i verdi e i liberali – si sono espressi non più di quarto dei cittadini europei aventi diritto al voto: è questo sarebbe molto di più di un campanello d’allarme.

Paradossalmente però proprio il Partito Democratico potrebbe ritrovarsi tra le mani una leadership continentale assolutamente imprevedibile solo pochi settimane fa: dipende, infatti, dal PD la possibilità che il Partito socialista riesca ad essere l’unico dei movimenti politici europeisti a crescere seppur di poco e che superi, sul filo di lana, il Partito Popolare. In questo scenario Renzi potrebbe essere il segretario del Partito nazionale più forte all’interno del Partito europeo che potrebbe guidare una grande coalizione a livello europeo e l’ulteriore coincidenza del semestre italiano potrebbe davvero fare da piattaforma di un processo di riforma di livello europeo guidato dall’Italia.

Una leadership che, però, dovrebbe trovare subito sostanza nella capacità di affrontare quella che è la sostanza di un problema di un progetto arrivato al capolinea.

La diagnosi della malattia è chiara: un’intera generazione di politici e professori ha costruito l’Europa con la convinzione che essa fosse semplicemente troppo complicata per essere spiegata ai cittadini. Il paradosso è che ci troviamo oggi nel Continente che ha inventato lo stesso concetto di democrazia a violare quella che è, dai tempi di Thomas Jefferson, una delle leggi fondamentali della democrazia stessa: non si può “tassare” e incidere sulla vita delle persone, se l’istituzione che assume certe decisioni non è sufficientemente “rappresentativa”, se non è percepita da un numero sufficientemente vasto di contribuenti come espressione della loro volontà e, in definitiva dei loro interessi. Il problema è che l’Europa si sta incamminando verso un processo di ulteriore integrazione delle politiche fiscali e viene da anni di durissima austerità imposta ai cittadini dei Paesi in maggiore difficoltà, senza che vi sia mai stato un momento di reale confronto tra opinioni pubbliche sui momenti più importanti.

Il problema è, certamente, il costo della crisi pagato dalle persone in Grecia, in Portogallo, in Spagna, in Italia, ma anche il fatto che tasse e tagli appaiono imposti da una classe dirigente che neppure si conosce, sensazione questa resa ancora più forte dal comportamento dei politici nazionali che assumono certe decisioni a Bruxelles solo per presentarle come non loro appena fanno ritorno nelle proprie rispettive capitali. Troppi sacrifici, troppa poca democrazia: questa la tenaglia che rischia di schiacciare un progetto vissuto finora come ricerca costante di un minimo comune denominatore guidato da tecnocrati.

Cosa fare dunque? Rendere più intelligente il processo di riduzione del debito pubblico per non gettare con l’acqua sporca degli sprechi e dei privilegi, il bambino della crescita. E, quindi, rivedere il patto di stabilità discriminando le varie categorie di spesa pubblica per incoraggiare i governi a cambiarne il mix e a renderla più produttiva. Ma anche ridurre, sul serio e dopo tante chiacchiere sterili, la distanza tra cittadini e istituzioni che è questione di democrazia. Nel senso più ampio del termine.

Non abbiamo bisogno di imbarcarci in nuova stagione di negoziazioni complicate di nuovi trattati e nuovi poteri. Abbiamo, invece, bisogno di creare i presupposti allo sviluppo di un demos europeo senza il quale qualsiasi discussione sul deficit democratico è esercizio retorico.  Dobbiamo, proprio come per l’Italia centocinquanta anni fa, di “fare gli europei dopo aver fatto (almeno in parte) l’Europa”, e oggi come allora abbiamo bisogno di competizioni elettorali vere, di scuola, di giornali europei.

Abbiamo bisogno di un’unica legge elettorale che – come prevede la proposta che il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Sandro Gozi riprenderà nel corso del semestre italiano – incoraggino la creazione di liste e collegi transnazionali. Ma anche di proposte come quelle che il think tank italiano Vision ha presentato al ministro Stefania Giannini: l’ipotesi è di una specie di ERASMUS per tutti e, dunque, di rendere parte del curriculum obbligatorio per gli studenti della scuola superiore e dell’università un semestre di studi all’estero finanziato con una parte dei fondi attualmente destinati alla politica agricola comune. E abbiamo bisogno di media europei e, forse, avrebbe molto senso condizionare la concessione di finanziamenti pubblici a giornali e televisioni ad una maggiore attenzione alle questioni non nazionali.

Paradossalmente la paura può essere un’opportunità, come ha avuto modo di dire Enrico Letta che potrebbe avere in questo contesto una possibilità concreta di sfruttare la sua esperienza guidando da presidente della Commissione Europea una coalizione tra socialisti e popolari. Un Paese che da anni fa della paura, della non alternativa al cambiamento, della necessità dell’alleanza tra forze deboli la propria, unica flebile forza, potrebbe avere nell’Europa instabile che nascerà il 25 Maggio un vantaggio competitivo. Ma anche in Europa la paura non è sufficiente: sarà necessario guardare negli occhi le questioni e affrontarle con coraggio dopo decenni di inutili chiacchiere con l’intenzione di trovare una soluzione.

Le ragioni dei risultati e di una governance chiara

di Luigi Zingales su Il Sole 24 ore

Aurea mediocritas la chiamava Orazio, la giusta via di mezzo. Nella battaglia sul rinnovo dei vertici delle società controllate dallo Stato sembra essere la via preferita dal governo Renzi. Non un mantenimento dello status quo impresentabile politicamente e neppure una rottamazione spinta che esporrebbe il premier al rischio di un errore nelle scelte (oltre che all’inimicizia di alcuni dei manager più potenti d’Italia). Quindi non un rinnovo dei principali amministratori delegati (AD), ma neppure un loro totale pensionamento. Un patrimonio di competenze accumulato in anni di gestione può essere utile, ma a patto che il nuovo quadro di governance sia chiaro e definito. Non ci possiamo permettere soluzioni confuse. C’è dibattito se in un società quotata sia giusto separare il ruolo di presidente da quello dell’AD.

Gli inglesi sono molto favorevoli, gli americani meno. Ma da entrambi i lati dell’Atlantico tutti sono d’accordo su quali debbano essere le caratteristiche di un buon presidente, quando questo ruolo è separato da quello di AD. «Perché la divisione dei ruoli funzioni – scrive un esperto come Jay Lorsch con Andy Zelleke sulla Sloan Management Review – il presidente deve usare un po’ di autocontrollo, cosa difficile per una persona con tanto potere». Il rischio di un presidente interventista è di confondere i dipendenti su chi veramente dirige la società e di creare una situazione di tensione con l’AD. I ruoli e i compiti devono essere chiaramente distinti. Oltre a dirigere il consiglio, il presidente deve essere a capo della funzione audit e deve agire da collegamento tra gli indipendenti e il management. Ma soprattutto il presidente deve essere il rappresentante degli azionisti, cui risponde. All’AD, invece, spetta la funzione di capo azienda con tutti gli onori e gli oneri che questo comporta, compresa la responsabilità in caso di cattiva performance.

Nelle migliori pratiche anglosassoni, ancora sconosciute nel nostro paese, il consiglio di amministrazione si riunisce periodicamente senza la presenza dell’AD per valutare la performance dell’AD stesso. Proprio per questi motivi è essenziale che il presidente non sia né l’ex amministratore delegato né un aspirante tale. Se così non fosse, si confonderebbero i ruoli, creando tensioni che inevitabilmente si tradurrebbero in problemi per la società. Non a caso, queste sono state anche le caratteristiche del presidente ideale suggerite dai i consigli uscenti di Enel ed Eni. Nel rispetto di quanto raccomandato dal Codice di autodisciplina delle società quotate, entrambe le società hanno formulato e messo sul loro sito degli orientamenti del consiglio di amministrazione agli azionisti sulla dimensione e composizione del nuovo consiglio. Le raccomandazione del consiglio Enel identificano il presidente ideale come «una persona dotata di adeguata autorevolezza per lo svolgimento dell’incarico, indipendente all’atto della prima nomina», mentre quelle del Consiglio Eni in «una persona di spessore, autorevole, preferibilmente indipendente al momento della prima nomina o che, comunque, rappresenti una figura di garanzia per tutti gli azionisti». È giusto, dunque, che il patrimonio di esperienza e competenza, accumulato negli anni di gestione, sia opportunamente valutato nell’interesse della società.

L’aurea mediocritas sarebbe negativa anche da un punto di vista politico. Nel caso di posizioni di gestione importanti il limite dei tre mandati non riflette solo una questione di efficienza economica, ma anche valutazioni che riguardano un importante limite alla concentrazione del potere politico. Nell’ex Stato padrone molti capi azienda controllavano i politici e non viceversa. Per evitare lo strapotere politico di chi dovrebbe essere responsabile di fronte alla politica, è necessario un limite dei tre mandati, a meno che i risultati siano tali da giustificare la conferma nell’incarico anche perché i risultati devono comunque fare premio su tutto.

Sia in Italia che all’estero il nuovo premier si è distinto per il suo linguaggio franco e le sua volontà di fare scelte chiare, non di compromesso. Se il governo Renzi ritiene che alcuni AD abbiano fatto talmente bene da giustificare un superamento del limite dei tre mandati, se ne prenda tutta la responsabilità e li rinnovi nei rispettivi ruoli spiegando al Paese le motivazioni della scelta. Non cerchi compromessi democristiani e operi le sue scelte secondo criteri che garantiscano una governance chiara. Se non facesse ciò da leader della rottamazione rischierebbe di diventare il premier del riciclo.

TOGETHER: Progetto sperimentale pilota per la costruzione a Frosinone di Campus tecnico-scientifici partecipativi

di Giuseppina Bonaviri su L’inchiesta

Questo progetto parte dall’idea che anche una provincia come la nostra con il suo capoluogo, Frosinone e con  le tante città simbolo di storia possano finalmente considerarsi città simbolo del nostro tempo. Il progetto che svilupperemo si propone di essere una piccola riconquista di quel passato storico indebolito per mano dell’uomo. L’idea nasce dalla convinzione che il Paese, partendo da ogni dove e da ogni città, possa rinascere anche solo attraverso libere e spontanee  iniziative che la gente comune, la società civile voglia proporre con spirito di servizio e credo. I cittadini in quanto popolo sovrano sono amministratori del bene pubblico e chiedono di partecipare direttamente ai processi decisionali accentuando la qualità della partecipazione alla discussione della res pubblica. Tutte le periferie possono, in tal modo, diventare una Piccola Capitale.

E’ importante quindi cercare una coesione che sia inclusiva, un elemento facilitatore che amplifichi la partecipazione anche rispetto a quegli attori che potranno presentarsi in seguito o di conseguenza all’avvio del processo, processo che prevediamo essere, nell’immediato, estensivo della area vasta in modo da facilitare e stimolare anche quelle autonomie di pensiero e di auto-organizzazione ovviamente sintoniche con le autorità e con i rappresentanti preposti alla salvaguardia del patrimonio pubblico.  Abbiamo per questo previsto la costituzione di una piattaforma quale interfaccia di riferimento per promuovere, sostenere, coordinare attività di ricerca e collaborazioni scientifiche con tutte le realtà universitarie ed istituti d’ambito che volessero coadiuvare l’iniziativa.

Come esperienza pilota proponiamo, alle amministrazioni locali e provinciali, la nascita di start up,   un CAMPUS  laboratorio di idee, fucina di innovazioni sociali, di contaminazione scientifica a garanzia tecnica.

Il primo esempio di concertazione tra cittadinanza attiva, esperti, luminari, scienziati, didatti, tecnici e amministrazioni comunali potrà riguardare il dissesto ambientale idrogeologico che tanti danni sta causando alla nostra terra partendo proprio dalla criticità del Viadotto Biondi della città di Frosinone e della frana ancora oggetto di studi ed approfondimenti. A tal proposito si sta procedendo ad individuare un tavolo di progettazione  in collaborazione con realtà sociali e di settore, esperti locali ed universitari a partire dalla Sapienza e da Roma Tre, con  proposte di tesi di laurea sperimentali, che coordineranno un progetto pilota di risanamento naturalistico della zona interessata“ La frana che viene da lontano” progetto preso in esame molti mesi fa all’interno della programmazione delle azioni sinergiche che la Rete la Fenice sta attualizzando in provincia.

Costruire azioni sinergiche e condivise  accrescere la competitività delle conoscenze e del sapere nel  rispetto della autonomia produttiva dei territori al fine di aumentare il potenziale dell’intera Rete che sarà preposta alla dimensione di nuova macro area. In termini di ritorno c’è un primo immediato e vitale effetto sulle azioni intraprese da parte dei cittadini attivi ma anche un positivo secondario effetto a catena sull’intero comparto che ne sarà interessato.  Inoltre, un Campus rimane aperto alla partecipazione di tutte quelle realtà con idee in grado di individuare aree di collaborazione per elaborare interventi tesi a migliorare la capacità innovativa dell’intera area aderente. Fare Rete vuol significare fare impresa. La stessa flessibilità della Rete ne garantisce, da un lato, l’adattabilità alle specificità progettuali attraverso la condivisione degli obiettivi e, dall’altro, la salvaguardia e la valorizzazione delle singole identità in grado di modularsi in relazione alle diverse esigenze organizzative ed operative. Ne deriva la nascita di  uno strumento moderno ed efficace a superamento dei confini e delle logiche localistiche che non sono più in grado di rimanere competitive se prese per compartimenti stagni. Rete, dunque, di imprese a conferma dell’importanza che il Contratto di rete sta già assumendo per il sistema produttivo delle Regioni più avanguardistiche. Pianificare insieme, poi, corrisponde ad un adattamento a impostazioni e metodologie in costante variazione e trasformazione in quanto capace di proporre best practice e soluzioni adeguate a conservare quel prezioso know-how che preservano livelli occupazionali e standard qualitativi-operativi doc. Strutturare un processo di gestione del cambiamento, con l’interattività tra i diversi partecipanti, dalle sue prime fasi  ci consente di progettare modelli scientifici di efficacia e di efficienza basati su meritocrazia e talenti per la buona gestione anche delle amministrazioni.

Le nostre amministrazioni appaiono assai in ritardo rispetto alla volontà di applicare moduli eccellenti nella gestione del cambiamento. RICERCA ED INNOVAZIONE SCIENTIFICO-TECNOLOGICA POSSONO FAVORIRE PROGRESSO ECONOMICO E SOCIALE . La valorizzazione del merito -che proponiamo agli amministratori locali partendo dal capoluogo ma che rimangono sordi alle nostre continue richieste di incontro e condivisione del percorso partecipativo promosso anche grazie al Campus –  rimangono le uniche capaci di trasformare l’attuale crisi di valori etici.  Il nostro movimento indipendente che, a vario titolo, può considerarsi una eccellenza in quanto portatore di fermenti delle parti più avanzate della società civile locale ci  chiarisce come qualcosa di nuovo succede nei momenti di mobilitazione.

Per essere depositari del futuro c’è bisogno di esprimere una visione del sapere sempre più diffuso e accessibile, costruito su nuovi moduli partecipativi. La “multidisciplinarietà”  favorisce la trasformazione del territorio e delle riorganizzazione produttiva che diventa un mix tra agire per innovare (nuove idee) e  sviluppo (fare nuove cose). La finalità di un Campus è, allora, quella di  mettere insieme esperienze  adeguate alle sfide del presente, all’interno di una progettualità condivisa e a sostegno di chi costruisce progresso senza limiti di schieramenti e potentati.

Per rinnovare il Paese, un nuovo management è urgente adesso

aziende pubblichedi Innovatori Europei

Nelle prossime settimane il governo Renzi nominerà i nuovi managers delle grandi aziende controllate dallo Stato.

Come sempre capita in questi casi, non vi è discussione pubblica a riguardo, nonostante l’importanza cruciale di queste scelte per provare a rimettere in campo il Paese – in ginocchio dopo un decennio pieno di crisi – disegnando nuove politiche industriali e nuove alleanze internazionali.

Evidente infatti quanto le grandi aziende italiane (ENI, Enel, Finmeccanica, Telecom e le altre) contribuiscono a definire quello che è il presente e quello che potrebbe essere il futuro del Paese.

In questo passaggio cruciale, il governo ha la possibilità di definirsi “innovatore”, nel rinnovare con nuove personalità e competenze di caratura internazionale i management di queste grandi aziende, per poter ragionare insieme ad essi sulle nuove sfide di natura industriale e politica, emerse nell’ultimo decennio, che possono essere affrontate e vinte dal nostro Paese.

E con un nuovo management dare il senso del cambiamento di prospettiva e di visione ad un intero Paese, con effetti positivi – politici e sociali – a cascata che sono immaginabili.

Per il momento, le attese suscitate dal Governo Renzi sono sicuramente positive e l’idea di cambiare la totalità dei top-manager attuali delle grandi imprese dopo molti anni di governo di quelle imprese e risultati a volte modesti (come documentato per la più grande società italiana, l’Eni, da un ottimo articolo di Milena Gabanelli sul Corriere della Sera) è presupposto fondamentale per continuare incisivamente la sua azione riformatrice.

A leggere la stampa delle ultime settimane, anche il Tesoro, con il competente neo ministro Padoan, sembra volere puntare dritto in questa direzione.

Come qui doverosamente già evidenziato alcuni giorni fa, l’unico elemento di perplessità in questa vicenda riguarda il lavoro di uno dei cacciatori di teste scelti a suo tempo dal precedente Governo proprio per collaborare proprio con il Tesoro alla selezione dei nomi per la guida delle grandi imprese partecipate. Ci riferiamo a Spencer & Stuart, i cui requisiti di indipendenza in questo caso rischiano di essere offuscati in quanto sembra essere consulente proprio delle grandi imprese il cui management dovrebbe contribuire a cambiare. E dalla presenza nel suo advisory board della figura politica di Gianni Letta, che fu evidentemente uno dei protagonisti principali delle nomine degli attuali vertici delle imprese di stato.

Tutte notizie che oggi risultano confermate anche da L’Espresso, con un articolo della sua importante firma Denise Pardo.

Viene allora da chiedersi: possibile che, anche per motivi di opportunità, non potesse essere individuato un altro cacciatore di teste al suo posto?

Di donne non basta solo parlare

di Giuseppina Bonaviri – Le donne non sono riserve protette, non sono vessillo di conquista o di supposta emancipazione. Dare spazio alle donne, ancor più se a quelle donne che vivono la loro normale quotidianità, in qualità di persone comuni che agiscono virtuosamente, ha un forte significato progressista. Sollecitare l’adozione spontanea di nuovi codici di comunicazione non ha semplicemente valore di questione di quote ma di un vero salto di qualità, di un avanzamento della democrazia paritaria, di cultura di genere diffusa. Non si può continuare ad abusare di luoghi comuni che ci vedano prigioniere di partiti o di finte lotte progressiste spesso , purtroppo, agite proprio da quelle donne che rimangono ostaggio del potere maschile. Le strategie culturali e di dominazione di genere stanno involvendo ma la verità rimane che l’appartenenza al gruppo come il cognome si trasmettono per linea maschile: questo è il modello imposto ancora esistente. Allora non basta proporre sulla pelle delle donne -vedi sexy-worker- bisogna, prima, imparare l’arte dell’ ascolto e dell’accoglienza rispetto alle minoranze per sentirti classe civile e politica liberata. Necessita un grande apprendistato prima di avvicinarsi ad un gruppo stigmatizzato senza cadere nel precostituito rigido e questo, al momento se lo possono permettere poche-i eletti come le-gli studiose-i e scienziate-i. Diversamente, anche i messaggi più alternativi serviranno solo a rinforzare gli stereotipi tradizionali. Continuare a credere che ci sono donne cattive e donne buone giova solo alla stabilità di un sistema logoro, è un elemento di controllo sociale. Si continua a perseguitare, così, la sessualità autonoma delle donne mentre dovremmo essere, invece, consapevoli dell’esistenza di questi modelli standardizzati per demistificarli e modificarli. Potremo pensare di cambiare solo quando disporremo di soluzioni sociali corrispondenti al di là dall’approssimazione intellettuale.

Iniziamo dal modificare i linguaggi comuni per permettere che anche il nostro territorio si trovi al passo coi tempi . La lingua rispecchia la nostra cultura, dunque, le riflessioni sul modo di rappresentare le donne attraverso il linguaggio e la storia è la ragione per la quale essa svolge un ruolo prioritario nel processo di costruzione dell’immagine femminile collettiva. Le donne possono e devono essere sempre in prima linea -insieme agli uomini paritariamente- se si vuole scrivere un nuovo, fiorente capitolo d’epopea italiana. Noi donne, che lottiamo per la giustizia e per la pace, per i diritti civili siamo in prima linea e ben sappiamo che è solo un atto di giustizia che potrà rendere consapevoli le classi dirigenti che, se non si lascerà spazio alla democrazia di genere fuori dal becero utilizzo questa sarà negata. Allora non ci potrà essere cambiamento che tenga nell’immediato.

Non vogliamo essere complici di un pregiudizio che ci vuole vittime di soprusi. Fuori dalle strumentalizzazioni della mala gestione politica che continua ad enfatizzare le quote rosa- pensiamo a quello che succede nella formazione del governo e poi a seguire nella proposta della nuova legge elettorale- fare Rete tra donne comuni e virtuose della, siano esse intellettuali o di riconosciuto talento crea le vere condizioni di beneficio per tutta la società. Nell’ambito delle iniziative che la Rete La Fenice porta avanti è stato dato grande spazio alle criticità moderne dell’essere donna. Basti pensare alla iniziativa, ormai di respiro nazionale ” L’arte contro il femminicidio”. Il nostro appello, che partì il 21 settembre scorso nel corso della prima iniziativa provinciale a sostegno del donne vittime di abusi alla Villa Comunale di Frosinone, è stato ascoltato ed ha sensibilizzato amministrazioni comunali e provinciali, a partire da quelle locali, che hanno accolto la nostra richiesta uscendo dai sentieri di omertà e di silenzio. Ne da conferma l’iniziativa provinciale dell’8 marzo scorso a Frosinone per l’inaugurazione della Campagna di sensibilizzazione provinciale contro discriminazioni e violenze di genere e la Marcia di solidarietà alla quale hanno aderito più di 50 comuni locali, moltissime scolaresche provenienti da tutta la provincia, associazioni, sindacati unitari, gente comune in una terra, la nostra, corrosa da microcriminalità e dall’arroganza di un potere politico irrivente.

Consapevoli, dunque, che la partecipazione è solo l’inizio di un lungo momento di riflessione innovativa ed aperta al contributo di tante e tanti sono stati messi in cantiere per i prossimi mesi altri importanti momenti di incontro con la gente, con le Università e nelle scuole (dibattiti pubblici sull’evento saranno trasferiti a Napoli, Pescara, Rieti, Milano e proseguiranno sino a giugno su Roma).

Portare sul piano del confronto pubblico -tenendo alla base prerequisiti tecnico-specialistici che ne certificano la qualità- in provincia e fuori, tra i giovani e nelle piazze tematiche occultate significa scavalcare i limiti dell’attuale dibattito politico sterile ed usurante. Perché di donne non basta solo parlare.

Riforma PA – Qualche idea

padi Aldo Perotti
Ho buttato giù qualche idea innovativa su come cambiare il lavoro pubblico nel nostro paese partendo dall’analisi dei momenti principali della vita di un dipendente pubblico. Chissà che non arrivi qualcosa a chi può decidere.
L’ingresso
Su questo tema la Costituzione parla chiaro: si accede per concorso (salvo eccezioni). Ma è il concorso il modo migliore ? Forse no, o non sempre, visto che la stessa Costituzione prevede la possibilità – per legge – di derogare. Il termine concorso è poi abbastanza vago per cui negli anni le modalità operative si sono via via diversificate, specificate, dettagliate, trasformando il “concorso” in oggetto piuttosto misterioso, dalle diverse forme e sembianze in funzione della tipologia di impiego a cui si accede. Si trasforma spesso in “concorsone” con una platea immensa di partecipanti che aumentano in maniera direttamente proporzionale al tasso di disoccupazione. Senza disoccupati chi parteciperebbe ad una selezione così folle? E per uno stipendio, a pari livello, mediamente inferiore a quello di un lavoro privato? Negli anni del boom economico l’impiego pubblico era un “ripiego”, un second best. Oggi, in funzione della sicurezza che garantisce, è indubbiamente molto ambito. Ambitissimo addirittura in quei casi, in realtà limitati numericamente rispetto alla platea degli impiegati, dove si può godere di eccezionali e spesso ingiustificati privilegi.
Se guardiamo al passato quando il numero dei concorsi, le procedure selettive, erano molto più numerose, più facili, più o meno pilotate (quanti scandali), ma anche al presente, con prove selettive di carattere sempre più nozionistiche e mnemoniche, che selezionano gli individui essenzialmente per l’attitudine a memorizzare acriticamente un discreta massa di informazioni, forse il concorso come è stato ed è concepito proprio non funziona.
Se pensiamo poi alla necessità diffusissima di integrare il personale con consulenti, precari, ecc. si capisce che il personale selezionato per concorso in più di qualche caso non da i risultati sperati. Se poi, come avviene oggi, addirittura la dirigenza è selezionata con queste modalità senza tenere in alcun conto di altri parametri quali l’esperienza (quella vera non la semplice anzianità) si capisce come la possibilità che nell’amministrazione accedano persone non del tutto idonee è tutt’altro che remota.
Il modo migliore da sempre per valutare, capire e scegliere le persone è metterle alla prova.
Occorre trasformare il tempo passato a valutare le numerose prove in tempo trascorso a valutare il lavoro.
Prima cosa da fare: i voti contano. Il voto di diploma e quello di laurea sono comunque un indicatore riepilogativo di un periodo abbastanza lungo di vita e di esperienza. Stabiliamo delle soglie di voto per l’accesso anche molto alte (credo lo faccia la Banca d’Italia). Se pensi ad un lavoro pubblico sai che devi arrivare ad un certo livello. La prima prova del concorso è così diluita in più anni. Se lo sai, ti impegni.
Ristretta la platea degli aspiranti inizia il percorso di avvicinamento che è per passi graduali con una selezione di tipo piramidale. Si inizia con degli stage volontari ai quali si accede sulla base di pochi parametri tipo età e voto (lasciamo perdere i titoli di preferenza, di qualsiasi natura, serve gente capace non i figli o gli orfani di gente capace, non è il posto pubblico il modo giusto per fare politiche sociali di quella natura). Allo stage segue un primo tirocinio, poi un secondo, poi un periodo di prova e quindi l’assunzione sempre con la formula che solo la metà passa al livello successivo. In pratica 16 stagisti, 8 primi tirocinanti, 4 secondi tirocinanti, 2 alla prova, 1 assunto. Per il passaggio non sono previste prove, test, esami, ma solo la scelta, essenzialmente un voto, delle persone che già lavorano nell’amministrazione (si potrebbe anche ponderare i voti, ma con grande attenzione per evitare posizioni/gruppi predominanti), comunque una sorta di commissione speciale abbastanza numerosa. Ovviamente astenersi parenti e amici (non votano).Tempi lunghi? Troppo complicato? Non credo. Penso che l’intera procedura possa durare non più di sei mesi. Le fasi hanno durata crescente e i partecipanti percepiscono una frazione dello stipendio (prima 1/16, poi 1/8, ecc.) quindi i costi sono gli stessi di assumere una risorsa a stipendio pieno con sei mesi di prova. Alla fine sempre una risorsa rimane stabile al lavoro ma scelta tra 16 e già inserita nella realtà lavorativa (la più inserita).
E i 15 che non ce la fanno ? Possono provare altrove lo stesso percorso. Sempre meglio che stare a casa ad aspettare una lettera raccomandata.
La modalità di selezione piramidale penso possa essere utilizzata in tutti gli impieghi pubblici (anche per le forze dell’ordine, i magistrati) credo con buoni risultati.
La carriera
Una volta entrati nella PA che succede ? Oggi succede veramente di tutto. In alcuni casi (Ministeri) può non succedere più nulla; si può rimanere in un posto per un tempo indefinito a fare lo stesso lavoro. In altri casi si attivano meccanismi automatici o semiautomatici di progressione economica (esercito, magistratura) in parte anche scollegati dal lavoro svolto. Aggiungiamo il fatto che alcuni passaggi, alcuni incarichi, ricadono nella discrezionalità della politica e si scopre che il detto “o lavori, o fai carriera” rappresenta nella PA un assioma. L’indipendenza, in pratica assoluta, tra la variabile composita lavoro-impegno-risultati  e l’altra variabile carriera-responsabilità-stipendio  è la fondamentale causa della mediamente scarsa produttività del lavoro pubblico a tutti i livelli ed in tutte le situazioni.
Partendo dal fatto che nella Pubblica Amministrazione:
Non è detto che il migliore degli insegnanti diventi Preside
Non è detto che il peggiore dei capitani non diventi colonnello
Non è detto che i migliori funzionari diventino dirigenti
Non è detto che il peggiore dei dirigenti non diventi dirigente generale
Non è detto che chi lavora riceva una qualche forma di considerazione/premio
Non è detto che chi non lavora non venga ugualmente promosso come gli altri
(potrei continuare)
Appare chiaro che in queste condizioni la macchina amministrativa funziona esclusivamente in funzione del fatto che una schiera molto numerosa di persone ritiene, onestamente, di svolgere il proprio lavoro per dovere, per educazione, per amor patrio e perché, anche se poco, lo Stato lo paga. Ovviamente il livello di impegno, presto o tardi, ne risente.
Come uscire da questo vortice infernale che porta a una produttività via via più bassa del personale ?
Potrebbe essere abbastanza semplice secondo il detto “patti chiari, amicizia lunga”.
Bisogna definire a priori dei “percorsi di carriera”. Chi entra nella PA deve sapere con relativa certezza cosa lo attende se, se e se…. Anche in questo caso si deve tenere conto di modalità “piramidali”. Si deve avere, secondo regole certe, la possibilità di accedere ad un livello superiore, ad una posizione di maggiore responsabilità e retribuzione (perché sono quelle le cose che vanno collegate, responsabilità e retribuzione, non altre come avviene di solito con il risultato che identici lavori vengono retribuiti diversamente se uno è dipendente di un Ministero o della Presidenza del Consiglio).
Non sarebbe male anche in questo caso che il sistema di valutazione sia il più democratico possibile. Come nelle cooperative sono i soci che eleggono il presidente nella PA dovrebbero essere i dipendenti che promuovono i dirigenti. Sarebbe anche giusto che il “promosso” possa beneficiare anche del gradimento dei superiori, con la possibilità di un “veto” fortemente motivato, questo per evitare conflitti interni alle strutture. Ovviamente andrebbe studiato un sistema di corresponsabilità e di incentivi/disincentivi che faccia ricadere su chi sceglie le conseguenze di una scelta sbagliata.  Se un  dirigente è inadeguato, sei tu che lo ha messo li che ti vedi, insieme a lui, decurtato dei premi lo stipendio. In considerazione poi del fatto che è possibile che qualcuno si riveli successivamente inidoneo a ricoprire un determinato incarico il “percorso di carriera” deve essere completamente bidirezionale a tutti i livelli, con la possibilità di “degradare”, ovviamente in modo motivato, ma senza troppe complicazioni, chiunque.
Non ho precisato che questo sistema deve anche prevedere la possibilità di inserimenti dall’esterno da attuarsi attraverso la libertà di spostamento orizzontale del personale che deve poter e (dover) occupare posizioni libere. Un piccolo incentivo economico alla mobilità volontaria (e non) renderebbe tutto più semplice e veloce.
E lo scambio pubblico-privato? Si può fare  ma solo sulle posizioni libere e dove i “percorsi di carriera” siano inapplicabili per mancanza di risorse. Che senso ha inserire un esterno che non sa nulla quando c’è un funzionario esperto che meriterebbe di essere promosso ? Giusto, che senso ha, ma è quello che avviene quasi regolarmente. Ovviamente l’ultimo arrivato trova di solito un ambiente leggermente ostile che non gli renderà la vita facile. Con conseguenze infauste per produttività e risultati.
La PA ha essenzialmente bisogno di ridurre e magari azzerare i livelli di incazzatura e di frustrazione delle sue risorse frutto di un complesso di norme che sembrano fatte apposta per rendere difficile tutto. Qualsiasi operazione diretta alla semplificazione ed alla eliminazione di anomale disparità, di privilegi ingiustificati e di immotivate complesse procedure contribuirà sicuramente a ridurre lo stress a livelli più accettabili ed ad aumentare la produttività.
L’uscita
L’uscita è la pensione. Si, pare semplice.
Nella pubblica amministrazione si osserva che:
Ci sono persone stanche, frustrate, che vorrebbero andare in pensione e non possono per vari motivi (no età, no contributi, bisogno di soldi).
Ci sono persone molto attive che sono costrette ad andare in pensione ma non vorrebbero (o meglio non vorrebbe la PA perché gli fanno in qualche caso sempre comodo come “memoria storica”).
Ci sono persone che, pure se in pensione, continuano per vie traverse a lavorare nella PA cumulando due redditi (alcune volte sono quelle della riga sopra, le più furbe tra queste però).
Ci sono persone che per competenze, età e/o condizioni personali (malattie, ecc.) si trovano oggettivamente nelle condizioni di non poter/voler dare molto alla PA, che sono ancora lontane dalla pensione ed alle quali occorrerebbe trovare una diversa e più appropriata collocazione lavorativa.
Ed altro.
Qualche soluzione.
Stabiliamo un’età (un numero) unica ed universale in cui ogni rapporto tra la PA ed il suo dipendente termina senza possibilità di deroga. Diciamo 70 anni. Nessuno e per nessun motivo (magistrati, ufficiali, direttori, ecc.) può lavorare per la PA dopo quell’età (ammesse solo cariche onorifiche senza retribuzione ne responsabilità alcuna, niente incarichi ne consulenze).
Stabilito che il diritto alla pensione segue nella PA la normativa comune di tutti i lavoratori per età, anzianità, contributi, ecc. sarà possibile per chiunque, se vuole, chiedere di superare l’età e continuare a lavorare fino ai 70 anni alle stesse condizioni. Il prolungamento dovrà essere richiesto/autorizzato dall’Amministrazione solo se realmente necessario e non sarà possibile nel caso ci siano risorse disponibili nel “percorso di carriera”, questo per soddisfare le aspettative di chi, più giovane, può legittimamente aspirare a fare un passo avanti. In caso di mancanza di autorizzazione il diritto alla pensione diventa un dovere e si potrà comunque svolgere una attività secondaria ovviamente non per l’Amministrazione di provenienza

Verso le europee. Un PD più innovativo possibile. Adesso o mai più

Europee-2014di Massimo Preziuso su L’Unità

Per il Partito Democratico è tempo di spingere nel solco di quel cambiamento innovativo invocato da Matteo Renzi, per ora avviato nella comunicazione e nella forma.

Con il declino netto del Partito Socialista francese alle amministrative di ieri, a due mesi da elezioni europee  “costituenti”, fondamentali per il rilancio del Sud Europa, non si può davvero scherzare.

Soprattutto se si pensa che, dopo anni di tentennamenti, il PD a guida Renzi ha deciso di entrare nella famiglia socialista solo qualche settimana fa, dando vita ad una chiara contraddizione politica: quella del giovane premier rinnovatore, formatosi nella Margherita, che aderisce ad una famiglia politica piena di valori sedimentati nel tempo, in alcuni casi meno innovativi e attuali di qualche anno fa.

Una scelta rischiosa, dunque, come si è poi visto con i risultati di ieri. Che si sommano al precedente annuncio del mancato supporto dei laburisti inglesi al candidato socialista alla presidenza della Commissione Europea Schulz.

E allora per ovviare al rischio di una débâcle alle europee, il Partito Democratico ha una sola via possibile: quella di tradurre le speranze di rinnovamento e riformismo riposti nella carica comunicativa e di leadership di Matteo in cambiamenti concreti da qui a maggio.

Tre sono i livelli su cui operare:

– Riforme. Il PD sostenga Renzi a migliorare e approvare quella elettorale e avvii una sostanziosa spending review che dia forza ai consumi italiani, con un aumento dei salari netti degli italiani tutti (non solo i dipendenti!).

– Alleanze elettorali. La sensazione è che il PD non possa più permettersi le alleanze storiche. Fortunatamente, il “Centro Democratico” è andato ad avventurarsi nell’ALDE italiana. Ma è evidente che anche la alleanza con un “SEL” statico e pieno di contraddizioni non regge più. Essa è in forte contrasto con la visione che gli italiani e gli elettori democratici hanno di questo nuovo PD.

– Persone e competenze. Il Partito di Renzi ha finalmente la forza di aprire la porta ai  Talenti italiani presenti nel mondo, che oggi han voglia di “ricostruire” il Paese, disegnando con il governo nuove politiche industriali competitive. Lo può fare a partire dalle nomine delle aziende quotate di cui si discute in questo periodo.  Può non  farlo, riconfermando il molte volte vetusto management attuale, o imponendo figure politiche senza riguardo al merito, dando in quel caso il via ad una slavina. Evidentemente lo stesso ragionamento è applicabile nella scelta dei candidati alle europee.

In conclusione: il PD diventi più “innovativo” possibile. Faccia sua, con fatti netti e svelti, la voglia di cambiamento politico e progettuale presente nel Paese. Attui le prime soluzioni anticrisi. Altrimenti, rimanendo in una sorta di limbo tra visioni socialiste e rinnovamenti annunciati, i suoi risultati elettorali alle europee saranno sicuramente deludenti. Con effetti sulla stabilità del governo, e del Partito, immaginabili.

 

Rendere permanente la spending review

di Francesco Grillo

Qual è il fattore che più di ogni altro misurerà la serietà dell’intenzione di Matteo Renzi di finanziare gli investimenti in futuro con una revisione permanente della spesa pubblica?

Ad un alto funzionario dello Stato che commentava la grande difficoltà che l’Italia ha nell’utilizzare i finanziamenti che la Commissione Europea destina allo sviluppo delle Regioni italiane, è capitato qualche giorno fa di ammettere: “abbiamo sprecato decine di miliardi di Euro, quelli utilizzati hanno dato risultati scarsi, anche se ovviamente ciò non è colpa di nessuno in particolare”.

L’esempio può forse essere utile a chiarire i termini della rivoluzione nella Pubblica Amministrazione che Matteo Renzi ha promesso come la prima delle grandi riforme che caratterizzerà il suo governo: essa sarà compiuta solo quando nessuno più tra gli statali potrà ancora dire – con una certa legittimità peraltro – che dei fallimenti “nessuno ha colpa”; e le stesse revisioni della spesa pubblica diventeranno permanenti – così come sarà finalmente duratura la fiducia delle cancellerie europee nel nuovo corso italiano – quando ci saremo assicurati che chiunque gestisca anche un solo Euro spremuto a contribuenti senza più fiato, risponda personalmente dei risultati ottenuti. E questo, dunque, il fronte – economico e valoriale – sul quale il Premier si gioca la battaglia interna per conquistarsi la credibilità da spendersi all’esterno per ottenere maggiore flessibilità. Vincerla però richiede che ad essere resi strutturali siano non solo i tagli ma lo stesso processo di revisione della spesa: ciò comporta un superamento dello stesso metodo che ha visto lo Stato affidare a persone pur valide – come Cottarelli e prima Bondi – quello che ha, comunque, i meriti ed i limiti tipici di un incarico di consulenza.

Ha fatto bene il commissario il suo lavoro: ha indicato con prudenza i risparmi ottenibili evidenziando le condizioni – in termini di mobilità del personale e modifica di diritti acquisiti – indispensabili per realizzare i risparmi; ha ricordato che le riduzioni di spesa sono al lordo degli effetti che esse possono avere in termini di impatto negativo sul fatturato dei fornitori e, dunque, di minori entrate; e, soprattutto, sembra aver segnato la fine dei tagli lineari perché ha individuato con una certa precisione i settori sui quali è possibile una razionalizzazione e quelli – prima di tutti la scuola e la cultura – nei quali la necessità è, al contrario, quella di aumentare le risorse.

E, tuttavia, sono tre i limiti che il lavoro di Cottarelli aveva nel suo stesso mandato: l’obiettivo era, infatti, sin dall’inizio quello della riduzione della spesa pubblica e non già di una revisione della sua composizione per aumentarne la produttività; le regole entro le quali l’esercizio si è svolto sono date e senza una loro modifica il risultato continua ad essere relativamente piccolo (a regime la stima è quello di un decremento della spesa inferiore al cinque per cento); l’incarico svolto ha carattere straordinario e, al momento, non è chiaro né chi sarà responsabile dell’implementazione delle misure identificate e, neppure chi – valutando gli effetti del piano appena presentato – avrà il compito di ripetere l’operazione nei prossimi anni.

Ed allora per convincere, in maniera duratura, sarà necessario andare “oltre Cottarelli”, come lo stesso Cottarelli, chiede tra le righe delle sue diapositive. Per riuscirvi sono indispensabili almeno tre condizioni.

In primo luogo, bisogna rendere sistematica, obbligatoria, rilevante per le carriere e gli stipendi dei dirigenti, la valutazione. È questo il vero vincolo che andava, forse, messo in Costituzione, più ancora di quello sul pareggio di bilancio: chiunque gestisce soldi pubblici, lo fa rispondendo di obiettivi misurati da pochissimi indicatori, in maniera che la sua prestazione sia controllabile non solo dallo Stato ma dai cittadini. Se ciò si realizzasse, non necessariamente agli stipendi dei dirigenti andrebbe messo un tetto: chi fornisce ai contribuenti un vantaggio straordinario va premiato; ma chi fallisce ripetutamente deve lasciare il proprio incarico.

La seconda condizione è quella di una revisione dei metodi della contabilità pubblica e dei processi di definizione delle previsioni di spesa per il futuro. Al momento, leggendo il bilancio pubblico, non so neppure quanti poliziotti lavorano in ufficio rispetto a quanti sono in strada a presidiare l’ordine pubblico, e i volumi di spesa sono fissati quasi esclusivamente applicando variazioni percentuali ai livelli dell’anno precedente. In futuro, come dice il Ministro della Difesa, Pinotti, le risorse assorbite da una qualsiasi politica pubblica si farà partendo da un’analisi su quali sono i bisogni di un Paese rispetto, ad esempio, alla necessità di difendersi date le attuali condizioni tecnologiche e di integrazione in un contesto internazionale: e forse è su queste basi che mi accorgerò che oggi gli eserciti hanno meno bisogno di navi e di caccia, e di più droni e controllo del territorio.

In terzo luogo, bisognerà rimuovere i vincoli – gli stessi sommessamente ricordati da Cottarelli – che inevitabilmente fanno partorire alle montagne – come quella della cancellazione delle Province – topolini ridicoli che valgono qualche centinaia di milioni di Euro. Vincoli che sono, soprattutto, in termini di intoccabilità dei dipendenti pubblici che è, ormai, un totem al quale la stessa Pubblica Amministrazione sta sacrificando il suo futuro: del resto, è l’aritmetica a dire che l’effetto congiunto della immobilità del personale e dell’aumento dell’età pensionabile, non poteva che essere il blocco del turn over e l’invecchiamento progressivo degli uffici e, dunque, ulteriori perdite di consenso.

Rendere permanente i processi di revisioni della spesa: la chiave politica vera è quella di riuscire a convincere i sindacati e gli stessi dipendenti pubblici che certe protezioni sono il macigno che zavorra, non solo, l’intera società italiana, ma anche chi vorrebbe tornare a poter produrre benessere per tutti.

Berlinguer ti vogliono troppo bene

di Michele Mezza

Eugenio Scalfari, con l’articolessa di oggi su Repubblica, in memoria di Berlinguer, spiega, meglio di ogni afficionados, le ragioni del trionfo di Renzi.

La rievocazione del fondatore di Repubblica, è davvero esemplare.No n tace ne rimuove nulla dei luoghi comuni della casta culturale e politica che ha rimpicciolito l’Italia nei decenni precedenti. usando, con inconsapevole cinismo, la tempra morale e lo straordinario esempio di passione civile di Berlinguer, cerca di ricavarne le ragioni di un’attuale “diversita” generazionale.

Quelli sì erano tempi. Ripete Scalfari, snocciolando il Panteheon del circolo della caccia dei combattenti e reduci:
Berlinguer, Pertini, Lama, De Mita,La Malfa, Visentini,Ingrao, Amendola. 
Potremmo aggiungere, sicuri di interpretare i sentimenti del nostro: Mediobanca,De benedetti, La Fiat, l’IRI, L’Eni,Gardini,La Pirelli, l’Einaudi, ecc.ecc.

Un’Italia che Scalfari rimpiange, celebrandone fasti e trionfi morali: ti ricvordi quando Berlinguer tornò dalla conferenza dei partiti comunisti? io e La Malfa stavamo cambianbdo il mondo, poi peccato che La malfa Morì. Ti ricordi quando Berlinguer lanciò l’austerità? io e De Mita avremmo cambiato il mondo, poi peccato che Craxi-il miserabile lo definisce con sottile finezza storica Scalfari- si mise di mezzo.

Stranamente Scalfari dimentica di citare nei suoi santini Moro. Come mai?

Un ragione forse pòotrebbe essere rintracciata nel fatto che quell’italia di galatuomini, dove maggioranze e minoranze si mischiavano allo stesso tavolo della contessa Angelillo a Piazza di Spagna,era la stessa del Caso Moro, forse? e del caso Ambrosiano Calvi , forse?e prima ancora della svendita dell’Olivetti gestita da Visentini? e poi della P2, forse? e dell’Italcasse, forse? e del fdallkimento feruzzi, forse? e della maxci tangente enimonto, forse? e di tangentopoli,forse? e delle stragi impunite, forse? e dell’esplosione del depbito pubblico, forse? e del fallimento di ogni strategia industriale , forse? e dell’assoluta incomprensione e ignoranza del nuovo mondo che da anni stava riorganizzando la vita e l’economia con la tecnologia, forse?

Queste sono le domande che costituiscono il capitale di Renzi.

Berlinguer è stato un grande.Come Silvio pellico e Raffaele Cadorna. Ma nulla della sua pratica e della sua cultura oggi può esserre richiamata come un modello.

laswciamolo riposare in pace. Non rfimestiamo sulla sua tomba.Onoriamolo come lui oggi probabilmente, fra mille sofferenze, ci direbbe di fare: studiare e lavorare per capire e governare il nuovo. E non rimpiagnere un passato che grazie a dio è passato,non senza costi. Immani.

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