Innovatori Europei

Significativamente Oltre

Comunicato. Dibattito 20 Maggio: Verso la Smart Nation, la Regione Lazio nella nuova competizione europea

diattito smart nationComunicato stampa degli Innovatori Europei

Martedì pomeriggio presso il Caffè Letterario di Roma ha avuto luogo un attento e partecipato dibattito tra innovatori e candidati di diversi orientamenti politici alle prossime europee.

Dopo le introduzioni di Massimo Preziuso e Giuseppina Bonaviri, Cesare Pozzi ha delineato le basi del progetto con la presentazione di “Verso la Smart Nation”, con cui si è dato l’avvio alle presentazioni dei candidati e al dibattito con gli intervenuti, durato fino a sera.

Da questo innovativo format aumenta in noi la consapevolezza che l’emersione e il protagonismo dei “costruttori” italiani, dentro e fuori le istituzioni partitiche, sia primaria fonte di crescita virtuosa e di rinnovamento riformista per il Paese.

Noi Innovatori Europei continueremo a “costruire” connessioni tra mondi diversi ma complementari per l’ avvio di percorsi di sviluppo sostenibile che necessitano di nuove infrastrutture, materiali ed immateriali, quali architravi per l’avvio di nuove direzioni di crescita “smart” nei territori italiani.

Solo in questo modo l’Italia potrà tornare protagonista in ambito europeo, quale porta continentale di sviluppo mediterraneo.

Il progetto “Smart Nation” è la matrice di questo variegato percorso di innovazione sociale ed economica.

La Rai in Taxi a banda larga

raidi Michele Mezza

Cosa hanno in comune il conflitto fra Uber e i tassisti a Milano, il rinnovo della convenzione Rai e la net neutrality? Tutto o niente si potrebbe dire .Sappiamo che oggi tutto converge con tutto e sarebbe davvero imprudente fermarsi all’ apparente estraneità fra i temi proposti. In realtà le connessioni sono davvero forti e sarebbe bene che la politica, ma anche i centri di competenza professionale che lavorano nei settori coinvolti, cominciassero a ragionare non più per compartimenti stagni.

Uber è una società che sta lanciando un servizio di trasporto sussidiario, si potrebbe dire, con una piattaforma che rende rintracciabile sempre un’auto disponibile a portarci dove vogliamo.nel suo capitale azionario c’è anche Google. La stessa Google sta lanciando una campagna per difendere la net neutrality dagli attacchi delle grandi corporation delle telecomunicazioni, come Verizon, Att&T o in Italia Telecom.

Google è anche quel gigante che si appresta a guidarer il processo di internettizzazione della Tv, con la sua proposta di connect television.

Dunque potremmo dire che il filo che lega tassisti, Rai e connettività sia Google. In realtà è molto di più per il nostro paese: è una nuova idea di comunità che sta emergendo e che non trova ne rappresentanti politici, ne istituzioni attente ne professionisti interessati.

Infatti a legare la nuova filosofia della mobilità individuale in una grande città con una nuova idea di servizio pubblico multimediale con i diritti di uso ed accesso paritario alla risorsa connettività, è proprio una diversa cultura dello stare assieme.

Come possia pensare di ridurre l’offerta di Uber, che si aggiunge a quella di almeno 150 piattaforme collaborativa che in Italia propongono servizi sussidiari e condivisi, dal car sharing, al baratto momentaneo di accessori per la casa, alla condivisione di abitazioni e vestiti, ecc, ad un furbesco tentativo di aggoirare alcuni articoli di una legge del 92? sarebbe come dire che il motore a scoppio sia servito per risparmiare il fieno ai cavalli.

E’ stato davvero sconsolante vedere in Tv alcuni personaggi che guidano la cosa pubblica come il ministro Lupi, che si riempiva la bocca di sussidiarietà fino a ieri, o il presidente della regione lombardia Maroni che si proclamava sacerdote della iniziativa privato o il sindaco di Milano Pisapia che inneggiava alla cooperazione fra cittadini, piegarsi al diktat di una congrega parassitaria come i tassisti solo perchè di lì a qualche giorno si sarebbe votato. Uber, insieme alle altre soluzione di car sharing oggi rispondono e non eccitano una pretesa sociale di uso momentaneo di un mezzo a motore nelle condizioni di massima semplicità , disponibilità e risparmio. L’idea che , cvome accade a roma con Cartogo, il rifornimento delle auto sparpagliate per la città, sia affidato spontaneamente all’impegno della cittadinanza che ne cura il rifornimento in cambio di 30 minuti di uso dell’auto è una formula di straordinaria civiltà, che prescinde persino dalla sua finalizzazione.

Si diventa comunità, si costruisce un’etica dello stato, facendo il pieno di un’auto non propria e lasciarla in ordine a disposizione del prossimo utente.Ce lo spiegavano all’inizio del ‘900 gli apostoli del cooperativismo come Massarenti e Prampolini, padri fondatori del socialismo padano.

Ma i tassisti come vedono invece il servizio pubblico radiotelevisivo? Lo considerano forse un insopportabile balzello al quale giustamente il governo ha tolto 150 milioni. Per un utente di Uber cosa rappresenta un’azienda che non lo supporta con sistemi di mobilità intelligente,o soluzioni di informazioni mobile georeferenziata, o notizie hyperlocal, quartiere per quartiere, come invece fa BBC ? Anche qui si consuma una cerimonia delle corporazioni. L’idea di servizio pubblico si trasforma,si evolve, e si adatta ai profili di ogni singolo individuo, lungo le varie fasi della giornata.Un taxi subito dietro l’angolo di casa, un flusso di news ora sulle condizioni del traffico sulla paullese, un accesso totale alla rete sempre. La net neutrality è forse l’imbuto di tutte queste nuove pretese sociali. E non a caso che l’attacco più duro si annuncia proprio su quel versante. Ogni start up, ogni artigiano, ogni professionista, ogni cittadino potrebbe da domani non avere via libera nel momento in cui si connette alla rete frenando progetti d’impresa, adattamenti tecnologici, richieste civili.

Quanto sono separabile queste ragnatele d0interessi? È possibile una battaglia per la trasparenza d’informazione senza Uber? È possibile modernizzare lo stato con una Rai tripartita? È possibile svilupparci e lavorare senza la net neutrality? E queste domande non sono forse politica concentrata? Chi le raccoglie e le rappresenta? Basta il giudizio del presidente del consiglio Renzi che ha definito straordinario il servizio di Uber? O forse non è necessario una strategia integrata ,articolata, completa che metta questa paese dai tax, alla Tv alla connettività, al centro di un progetto complessivo di nuova civiltà dei diritti e delle ambizioni?

Innovatori Europei intervista Gianni Pittella – Vice Presidente Vicario del Parlamento Europeo, candidato PD alle elezioni europee nel Sud Italia

pittella1) Buongiorno, Gianni.

Come sai, gli Innovatori Europei supportano la tua attività in Europa fin dal 2004-05, in un periodo di forte tensione riformista in Italia, quale politico meridionalista, europeista e innovatore.

Innanzitutto, cosa è diventata Brussels oggi rispetto a quando vi arrivasti più di un decennio fa?

Bruxelles ha riconfermato il suo statuto di capitale d’Europa. E’ il baricentro dell’Unione Europea, la quale resta il futuro del nostro continente. E’ il nostro futuro per ragioni ideali, perché l’unità europea è il più grandioso progetto di riconciliazione tra nazioni mai pensato nella storia contemporanea.

2) Verso la tanto auspicata Europa dei popoli e del lavoro: quali progetti intenderai sviluppare per incrementare la conoscenza e la partecipazione attiva degli italiani sull’operato politico e la progettualità europei?

Per aumentare la partecipazione dei cittadini occorre rispondere ai bisogni dei cittadini stessi. Il primo di questi è il lavoro, non solo fonte di sostentamento ma anche chiave per ottenere quella libertà, autonomia e indipendenza a cui tutti hanno diritto nella vita. Nella prossima legislatura tutti gli sforzi dovranno essere concentrati nella creazione e difesa dei posti di lavoro. Per fare questo è necessario superare l’approccio di austerità perseguito a livello europeo negli ultimi anni. Per far ripartire la crescita e creare posti di lavoro reali è fondamentale archiviare questa stagione disastrosa di politica economica. Bisogna rimettere mano al Patto di Stabilità e crescita che va reso più flessibile e meno dogmatico. Il limite del 3% va interpretato con intelligenza e non deve essere fine a se stesso. Il patto stesso prevede, infatti, che in caso di “eventi economici sfavorevoli imprevisti”, alcuni Stati membri possano richiedere una deroga alla sua applicazione. Bisogna porre le basi per una modifica dei trattati ed un superamento del patto di stabilita. La neutralizzazione del patto di stabilità nel breve periodo e la sua riforma nel lungo renderanno finalmente possibile l’attuazione di politiche di bilancio espansive in grado di sostenere la domanda.

3) Il 2014 sarà un’occasione unica per un protagonismo italiano in Europa nell’agevolare uno spostamento di baricentro politico verso il rilancio dell’economia reale e fisico verso il Sud Europa porta del Mediterraneo. Quali dunque le priorità per l’Europa nel 2014 e nella prossima legislazione europea?

Durante la prossima legislatura la priorità assoluta sarà porre fine all’austericidio che ha regnato fino ad ora, ossia l’attuazione di politiche economiche che hanno ridotto in maniera indiscriminata spesa e investimenti pubblici, principale causa dell’attuale stagnazione europea. Occorrerà perseguire la costituzione degli Stati Uniti d’Europa con una nuova architettura istituzionale che preveda la trasformazione della Commissione Europea in un autentico governo dell’Unione Europea; il Parlamento Europeo deve diventare la Camera Bassa dell’Unione a cui attribuire pieno potere di iniziativa legislativa; il Consiglio europeo sarà invece la camera alta dell’Unione. La procedura legislativa ordinaria (co-legislativa) che riconosce un ruolo centrale nel processo legislativo sia al Parlamento e sia al Consiglio deve essere generalizzata. Bisogna creare inoltre un autentico tesoro europeo che possa alimentarsi con risorse proprie.

4) Il 21 giugno prossimo terremo a Roma un convegno nazionale su “Infrastrutture e Logistica: Mezzogiorno leader nel mediterraneo”, in cui contiamo di avere la tua presenza. Le infrastrutture (fisiche e immateriali) rimangono principale volano per un mezzogiorno che oggi più che mai vive una fortissima contraddizione tra i suoi enormi ritardi di competitività e le gigantesche opportunità che lo attendono, a cominciare dal mediterraneo e dall’Asia. Che intendi fare in tal senso?

L’offensiva europeista non può che partire da quel Mezzogiorno d’Europa che più soffre gli effetti delle scelte sbagliate degli ultimi anni. Senza Europa, il nostro Mezzogiorno rischia l’isolamento e la marginalità, perché la risposta alle fragilità meridionali passa per Bruxelles. Tuttavia per cambiare l’Europa dal Sud anche il Mezzogiorno deve cambiare. Serve una nuova assunzione di responsabilità da parte delle classi dirigenti ma anche della società meridionale nel suo complesso. Il nuovo ciclo della politica di coesione 2014-2020 sarà il banco di prova su cui testare la determinazione verso il cambiamento del Mezzogiorno. Bisogna superare approcci clientelari e interventi frammentari e concentrare le risorse della programmazione sulle grandi spese di avvenire: l’istruzione e la formazione del capitale e la costruzione delle infrastrutture fisiche e immateriali che permetteranno alla società del Mezzogiorno di tornare ad essere centrale in Europa.

5) In una competizione europea sempre più vivace e in rapido cambiamento, mentre tutti guardano alle Smart Cities quali luogo dell’oggi e del domani per noi è tempo di operare (lo facciamo attraverso un importante progetto nazionale che ci porterà nei territori italiani) per le Smart Regions, aree territoriali estese, a vocazione innovativa, che difficilmente possono essere racchiuse nei confini delle città. Intendi impegnarti con noi anche in questo progetto?

Ritengo sia un progetto molto interessante, bisogna puntare tutto sullo sviluppo territoriale attraverso una politica di incentivi a sostegno del capitale umano. L’Italia può ripartire se guarderemo all’Italia creata dalle esperienze e dalle idee migliori. Questo progetto è un’opportunità che ci permetterà di valorizzare il consistente patrimonio di competenze pubblico-private dei territori, attraverso un approccio sistemico che metta al centro la Regione, intesa come “Città- diffusa”, al fine di renderla una comunità eccellente con strutture organizzative innovative, infrastrutture interconnesse e ottimizzazione dei servizi.

6) Per la costruzione di Smart Regions è fondamentale un ripensamento sulla governance dei fondi europei 2014-2020. Quali iniziative per rendere più partecipata, efficace ed efficiente la prossima programmazione europea e farne davvero motore di sviluppo economico diffuso nei territori di Italia?

Con il nuovo ciclo di programmazione 2014-2020 dei fondi strutturali europei, l´Unione Europea è intenzionata a rendere l’accesso ai fondi, strutturali e non, più fruibile per le amministrazioni locali e privati sulla base di iniziative da sviluppare anche a livello di singoli Stati e Regioni. I fondi comunitari metteranno in circolo oltre 30 miliardi di euro distribuiti nel corso dei prossimi sette anni. Ci sarà bisogno di una maggiore efficienza nella gestione dei fondi da parte delle Regioni, evitandone la frammentazione, concentrandoli su grandi assets, tra i quali rientra il vostro progetto. L’Italia non può più rimanere indietro, ma anzi deve imparare a conoscere e a sfruttare a pieno queste opportunità di mercato e di finanziamento. Occasioni che porteranno a un processo di accrescimento, al miglioramento della nostra posizione in Europa e, dunque, a rendere il nostro Paese più competitivo a livello internazionale.

Grazie

A voi

Roma, 20 Maggio 2014. Dibattito con candidati: Verso la Smart Nation, la Regione Lazio nella nuova competizione europea

Innovatori-Europei-defIl progetto di Innovatori Europei dal titolo “Verso la Smart Nation” ambisce a disegnare una nuova governance dello sviluppo delle città e delle regioni, inquadrata in un contesto Paese rinnovato, attraverso la costituzione e valorizzazione di reti territoriali che siano volani per nuovi percorsi di produzione e internazionalizzazione. 
 
Esso si compone di un inquadramento generale sulla Smart Nation e di un livello progettuale già avviato nelle Smart Regions and Cities, in cui disegnare un futuro intelligente.
 
Nel convegno “Verso la Smart Nation: la Regione Lazio nella competizione europea” ne discuteremo con innovatori  – candidati della Circoscrizione Centro Italia nei vari schieramenti politici alle prossime elezioni europee .
 
AGENDA
 
Luogo: Caffè Letterario, Via Ostiense, 95, 00154 Roma
 
ore 17 Apertura dei lavori : Massimo Preziuso  (Coordinatore  IE), Giuseppina Bonaviri, (IE Lazio)
 
 ore 17.15 Presentazione dello studio “Verso la Smart Nation”: Cesare Pozzi (Luiss Guido Carli)
 
ore 17.30 Gli Innovatori Europei (*) dibattono con i candidati della Circoscrizione Centro Italia:
 Ines Caloisi (Scelta Europea), Valentina Mantua (Partito Democratico), Flavia Marzano (GIVE – Green Italia Verdi Europei),  Adriano Redler (Forza Italia), Domenico Rossi (Popolari per l’Italia) , Bianca Maria Zama (Movimento 5 Stelle)
Modera: Piero Di Pasquale (giornalista e imprenditore)
(*) In collegamento da tutta Europa i coordinatori regionali di Innovatori Europei
 
Per aderire scriveteci a infoinnovatorieuropei@gmail.com o visitate la pagina Facebook dell’evento.
 

Perchè importare petrolio e metano invece di aumentare la produzione interna?

“Il principio di precauzione ha la precedenza su tutto. La risposta ai rischi industriali non è tuttavia l’impedimento a fare, ma la capacità di governarli.”

Quel mare di petrolio che giace sotto l’Italia

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 18 maggio 2014

Come i governi precedenti anche l’attuale governo non sa dove  trovare i soldi per fare fronte ai suoi molteplici impegni. Eppure una parte modesta ma non trascurabile di questi soldi la può semplicemente trovare scavando – non scherzo – sotto terra. Ci troviamo infatti in una situazione curiosa, per non dire paradossale, che vede il nostro Paese al primo posto per riserve di petrolio in Europa, esclusi i grandi produttori del Mare del Nord (Norvegia e UK). Nel gas ci attestiamo in quarta posizione per riserve e solo in sesta per produzione. Abbiamo quindi risorse non sfruttate, unicamente come conseguenza della decisione di non utilizzarle. In poche parole: vogliamo continuare a farci del male.

Nonostante l’attività di esplorazione delle nuove riserve sia ormai bloccata da un decennio, con un numero di metri perforati inferiori a un decimo di quelli del dopoguerra, l’Italia potrebbe – sulla base dei progetti già individuati – almeno raddoppiare la sua produzione di idrocarburi (petrolio e metano) a circa 22 milioni di tonnellate equivalenti petrolio entro il 2020.

Solo con questo significherebbe alleggerire la nostra bilancia dei pagamenti di circa 5 miliardi di euro  ed aumentare le entrate fiscali dello Stato di 2,5 miliardi ogni anno. Si attiverebbero inoltre investimenti  per oltre 15 miliardi, dando lavoro alle decine di nostre imprese che operano in ogni angolo del mondo ma sono impossibilitate a farlo nel loro paese.
Parlo naturalmente di produzione potenziale perché, per mille ragioni, petrolio e metano restano dove sono.

Mi rendo evidentemente conto che tra le mille ragioni ve ne sono parecchie che debbono essere prese seriamente in considerazione perché la sicurezza e la protezione dell’ambiente sono per tutti una priorità. Il principio di precauzione ha la precedenza su tutto. La risposta ai rischi industriali non è tuttavia l’impedimento a fare, ma la capacità di governarli. Il nostro Paese ha conoscenze, tecnologia, esperienza per riuscirvi ed ha una delle più severe legislazioni a tutela dell’ambiente e della sicurezza dei territori.

Nel nostro caso ci troviamo invece di fronte a situazioni incomprensibili perché il principio di precauzione viene usato in modo da proibire qualsiasi utilizzazione delle risorse del sottosuolo e viene adottato per difendere l’idea che ciascuno abbia il diritto di veto nei confronti di qualsiasi iniziativa.

Questo comportamento impedisce in primo luogo la possibilità di ricavare un ulteriore quantità di energia dai giacimenti di terraferma della Basilicata e delle regioni limitrofe.

L’esempio più clamoroso riguarda tuttavia i giacimenti in mare.

Non intendo prendere in considerazione risorse energetiche che si trovano vicino alla costa e che potrebbero quindi provocare ipotetici danni agli equilibri geologici del territorio. Mi limito ai giacimenti in mare aperto, dove questo pericolo non sussiste. Il caso più clamoroso riguarda tutta la dorsale dell’Adriatico, così promettente da essere oggetto di un grandioso piano di sfruttamento da parte del governo croato, che ha recentemente chiamato a gara le grandi compagnie energetiche internazionali per sfruttare un giacimento che, come ha dichiarato il ministro degli esteri del paese a noi vicino, può fare della Croazia il “gigante energetico d’Europa“.

La gran parte di queste potenziali trivellazioni si trova lungo la linea di confine delle acque territoriali italiane, al di qua delle quali ogni attività di perforazione è bloccata. Si tratta di giacimenti che si estendono nelle acque territoriali di entrambi i paesi ma che, se non cambierà la nostra strategia, verranno sfruttati dalla sola Croazia.

Visto che il bicchiere è uno solo non vedo perché, come è stato ironicamente scritto, la bibita debba esse succhiata da una sola parte.
Gli esperti sono concordi nel dire che non vi è nessun rischio ma, in ogni caso le conseguenze dell’estrazione del metano non possono essere diverse se essa viene fatta dagli italiani o dai croati. Se siamo convinti  che vi siano pericoli, abbiamo l’obbligo di fare appello a un tribunale o a un arbitrato internazionale. Se questo non è il caso non vedo perché non dovremmo affrettarci a fare quello che stanno facendo i nostri vicini.

Identica è la situazione delle sostanziose risorse petrolifere molto probabilmente sepolte nel mare tra la Sicilia e Malta.

Come ho già sottolineato non si tratta di energia immediatamente disponibile perchè occorrono alcuni anni di lavoro per poterla utilizzare. Tuttavia gli investimenti comincerebbero subito, mentre i recenti eventi in Ucraina e in Libia dovrebbero spingerci ad aumentare la nostra futura sicurezza energetica, sia attraverso la produzione interna sia facilitando l’arrivo di gasdotti, oleodotti e la costruzione di impianti di gassificazione.

Abbiamo deciso di essere fuori dal nucleare, stiamo gettando una quantità di risorse non certo aumentabili nelle energie rinnovabili e siamo tuttavia lontani dalla sufficienza energetica. Cerchiamo perciò di utilizzare in fretta gli strumenti che abbiamo. L’Italia non è povera di petrolio e di metano, ma assurdamente, preferisce importarli piuttosto che aumentare la produzione interna. Nell’ultimo decennio abbiamo pagato all’estero 500 miliardi di euro per procurarci la necessaria energia. Un lusso che non possiamo più permetterci.

«Une association de locataires est plus démocratique que l’Europe»

Drapeaux des différents pays membres de l'Union européenne à l'entrée du Parlement européen à Strasbourg, le 14 mars 2007.
Drapeaux des différents pays membres de l’Union européenne à l’entrée du Parlement européen à Strasbourg, le 14 mars 2007. (Photo: GERARD CERLES.AFP)
ELECTION EUROPÉENNE/INTERVIEW 

Hégémonie de Berlin, manque de participation citoyenne, élargissement hasardeux : à la veille des élections, le linguiste italien Raffaele Simone dresse un portrait sans concession de l’Europe. Pour mieux la réformer.

Crise économique, institutionnelle, sociale… L’Union européenne semble plus que jamais dans l’impasse. Raffaele Simone, professeur de linguistique à l’université de Rome, analyse les causes de cet état dépressif. En 2010, il avait publié chez Gallimard le Monstre doux : l’Occident vire-t-il à droite ? (1) Cette analyse décapante sur le triomphe de l’idéologie de la consommation et du divertissement dénonce l’incapacité de la gauche à formuler un grand projet à la hauteur de son temps.

Comment définir la crise actuelle de l’Europe ?

Elle est avant tout due au fait que les citoyens européens ont commencé à percevoir l’existence de cette entité. Longtemps, l’Europe a seulement été une étiquette, elle n’avait pas vraiment de contenu. Aujourd’hui, la population ressent son existence et en distingue les défauts plus que les avantages. Pour le citoyen ordinaire, le seul intérêt de l’Europe, c’est la possibilité de circuler librement. Pour d’autres catégories de personnes, c’est de faire circuler le capital ou de créer des entreprises sans obstacles. Les défauts sont en revanche nombreux, à commencer par l’euro, qui a appauvri plus de la moitié des citoyens européens. Et une bureaucratie européenne quasiment céleste, extrêmement bien rémunérée, privilégiée et repliée sur elle-même. Quant à la démocratie, elle est très lacunaire. Une fois que les citoyens ont voté pour le Parlement de Strasbourg, ils n’ont plus aucun moyen d’intervenir. L’UE compte encore très peu au niveau international et elle subit l’hégémonie de Berlin. Elle constitue une grande succursale de l’Allemagne, surtout en Europe centrale, qui est un gigantesque marché allemand.

Sous la pression des mouvements populistes, la crise risque-t-elle d’être fatale à l’Europe ?

Nous sommes liés à la structure de l’Union européenne un peu comme le chien l’est à sa laisse. Trop de choses dépendent de l’UE : les financements des grands projets d’infrastructures, l’agriculture, la circulation des personnes et des biens, l’euro. Nous sommes dans une phase de transition où le risque le plus grand est celui des populismes.

Ces mouvements sont-ils nouveaux ou n’appliquent-ils que des vieilles recettes nourries à l’anti-européisme ?

L’élément novateur, c’est l’attention portée à la sphère numérique, aux nouvelles technologies. En revanche, en ce qui concerne les ingrédients, on peut observer des constantes : les mouvements populistes importants sont nés dans des pays qui, dans le passé, ont connu des formes de fascisme. Cela signifie que les mouvements populistes modernes ne sont que des formes allégées de fascisme. Il s’agit d’un avatar récent de l’éternel fascisme européen. Et c’est extrêmement périlleux. Leurs publics sont essentiellement des personnes qui s’informent peu et ne comprennent pas grand-chose. Ce qu’autrefois on appelait la plèbe. L’un des aspects typiques du populisme est de construire une figure de vilain. Il y a un méchant physique et un méchant institutionnel. Pour les fascistes, le méchant interne était les communistes, puis les juifs. Le méchant externe était l’Angleterre. Aujourd’hui, le vilain interne, c’est l’étranger et l’externe, c’est l’Europe. Le scénario est similaire.

Ces mouvements ont aussi un visage contemporain…

La seule particularité des nouveaux populismes, c’est qu’ils créent l’illusion de la démocratie directe à travers les nouvelles technologies. L’humoriste et militant Beppe Grillo entre totalement dans ce schéma. Il y a aussi des populismes de gauche à la Mélenchon. Mais le style de sa communication est un style fasciste. Sa conception des riches est typiquement dans cette veine. Les fascistes parlaient de ploutocratie. Si Mélenchon n’alimente pas le rejet de l’étranger, c’est parce qu’il faut qu’il exhibe quelques éléments de gauche. Le vrai basculement dans le sentiment qu’ont les opinions publiques vis-à-vis de l’UE est dû à l’émergence de ces mouvements populistes qui ont fait tellement de bruit que même les citoyens qui n’étaient au courant de rien s’en sont trouvés sensibilisés. Ce sont eux qui ont la vraie responsabilité du changement d’attitude envers l’UE.

N’est-ce pas la mondialisation qui met en difficulté les pays européens plutôt que l’Europe elle-même ?

De nombreuses multinationales sont européennes. On ne peut donc pas dire que nous sommes victimes du processus de mondialisation. Il est vrai que celle-ci a favorisé l’émergence de nouvelles puissances. Mais la crise est avant tout interne à la structure. Des aristocraties intouchables se sont créées dans la sphère européenne. Ce ne sera pas facile de mettre à la porte Barroso et Van Rompuy avec toute leur clique. On est face à une bureaucratie qui, en grande partie, autolégifère. Ajoutons le fait que l’Europe est composée de pays où l’on parle des langues différentes, ce qui favorise certaines hégémonies. La classe politique italienne, qui ne parle pas l’anglais, ne peut certainement pas être aux avant-postes des débats. Ce n’est pas un détail. Les gaffes linguistiques de Romano Prodi sont restées célèbres.

La langue serait un obstacle à l’unité ?

La présence européenne dans le monde est encore facilitée par la diffusion de ses langues, mais il n’y a pas de langue d’usage dans le périmètre de l’UE. Tout le monde connaît un peu d’anglais, mais sans vraiment le maîtriser. Le modèle de l’intercompréhension, élaboré par la linguiste française Claire Blanche-Benveniste, pourrait être une solution. Chacun parle dans sa propre langue et en comprend certaines autres sans nécessairement les parler. C’est un objectif réaliste, mais qui requiert une politique éducative au niveau européen.

N’y a-t-il pas un excès d’autoflagellation chez les Européens ?

L’autoflagellation est une maladie italienne. Peut-être est-ce aussi la maladie de l’Europe. La vérité, c’est que l’Europe est un vieux continent qui, de surcroît, a inventé la démocratie. La vieillesse signifie une histoire longue et donc la sensation que nous avons déjà vu le même film plusieurs fois. Il est inévitable qu’un Européen ait une vision des choses plus amère qu’un Nord-Américain. D’autre part, ayant inventé la démocratie, l’Europe souffre de tous les défauts de ce système. A un certain moment, les électeurs se sont rendu compte que leur quote-part de participation aux grandes décisions était trop faible. La démocratie représentative, avec ses multiples strates, ne satisfait plus personne. Si je presse sur le bouton, les effets sur la décision finale procèdent d’une série de décisions intermédiaires. C’est la négation de la démocratie. La structure européenne est typique de ce phénomène.

Sans l’Europe, presser sur le bouton n’aurait-il pas encore moins d’effets ?

Sans aucun doute. Je critique la structure mais, à la différence des populistes, je ne veux pas la détruire. Je souhaite l’améliorer. L’Europe représente un grand avantage mais avec quelques changements substantiels, ce serait encore mieux. A commencer par une plus grande démocratisation, par exemple avec l’introduction de référendums européens pour solliciter l’avis des citoyens sur les décisions importantes.

Construire l’Europe sur une base économique constitue-t-il un péché originel ?

Après la guerre, il était inévitable que l’Europe naisse sur un accord comme celui sur le charbon et l’acier. C’est quand elle est devenue une entité politique que les ennuis ont commencé, c’est-à-dire pratiquement lors des premières élections européennes [en 1979]. Ensuite, l’Europe s’est politisée à l’excès mais elle ne s’est pas démocratisée. Une association de locataires est beaucoup plus démocratique que l’Europe. Nous votons pour le Parlement mais ce n’est pas à ce niveau que se prennent les principales décisions. Certains choix qui engagent tout le continent ne sont pas soumis à la volonté des citoyens. Il faudrait aussi introduire quelques limites sur le nombre et le cumul des mandats, le passage d’une fonction à l’autre, etc. Mais comme nous sommes face à des organes qui autolégifèrent, je pense que ce sont des objectifs inatteignables.

Quelle est l’alternative ?

L’Europe est une entité historique indiscutable, malgré la diversité de langues et de traditions. Et que cela nous plaise ou non, c’est un continent où les valeurs sont en grande partie fixées par le christianisme. Naturellement, il existe plusieurs Europe. Mais comme Milan Kundera, je pense que l’Europe finit là où commence la sphère russe. Les récents événements en Ukraine le prouvent. La Turquie, qui a été l’ennemie millénaire de l’Occident, n’est pas non plus en Europe. Dans l’absolu, il faudrait pouvoir évaluer le degré d’européisme des pays de manière à éviter le syndrome d’immobilisme qui a frappé des organismes comme l’ONU, l’Unesco ou la FAO…

Cela pose la question de l’élargissement à l’Est de l’Europe. N’a-t-il pas été avant tout une réunification de l’Europe ?

En politique, il n’existe pas de devoir moral. En acceptant ces pays, on aurait dû prendre en compte les expériences politiques récentes et on aurait dû demander leur avis aux citoyens européens. Le cas hongrois est intéressant. La Hongrie a connu une longue phase communiste, mais aussi une expérience nazie terrifiante. Ces deux cordes vibrent encore dans ce pays. Même chose pour la Roumanie qui, avec la libre circulation, a laissé partir des groupes de population comme les Tziganes, qui posent problème dans les pays d’accueil. L’intégration de ces pays a été faite de manière superficielle et on en voit les conséquences. La Hongrie est en train de devenir la centrale de l’extrême droite européenne et elle révèle l’impuissance de l’UE à corriger des déformations. L’élargissement a été fait à la légère, sous la pression de l’Allemagne et de ses intérêts économiques. La gauche devrait avoir le courage de regarder la réalité en face.

L’Europe peut-elle être une réponse à la crise de la gauche ?

La première mesure de gauche que l’on pourrait prendre en Europe serait de fixer une politique fiscale commune. Mais je ne crois pas que cela se fera dans un avenir proche. La gauche pourrait tirer parti de l’Europe si seulement elle comprenait l’importance de cette entité. Mais quand on regarde ses candidatures aux européennes, c’est à pleurer. Si la gauche tenait à cette institution, elle présenterait aux élections les meilleurs cerveaux de chaque pays.

(1) Il prépare «Come le democrazie falliscono», sur la faillite des démocraties.

Dessin Yann Legendre

Eric JOZSEF

Grillo, Stalin e la Sinistra assente

umberto-ranieridi Norberto Gallo su Napolionline.org

Sul dilagare del voto a Grillo nel sud, oggi interviene Umberto Ranieri dal Corriere del Mezzogiorno. Ranieri prende spunto dall’ infelice paragone di Grillo con Stalin fatto da Martin Schulz, candidato del PSE alla presidenza della Commissione europea. La diagnosi è in fondo semplice: il voto a Grillo poggia sul mix tra uno Stato assente e partiti ridotti a domini personali.

di Umberto Ranieri da il Corriere del Mezzogiorno

Martin Schulz, candidato socialista alla presidenza della Commissione europea, poteva risparmiarsi di evocare l’ombra di Josif Vissarionovic Dzugasvili detto Stalin per parlare di Grillo, il senso della misura è il caso di non smarrirlo mai, soprattutto in campagna elettorale. Diciamo come stanno le cose. Grillo sembra in grado di raccogliere il sentimento di diffidenza verso l’Europa che ha raggiunto anche in Italia livelli preoccupanti. Su questo credo debba riflettere Schulz.

Cresce tra i cittadini di Europa lo scetticismo verso l’Unione sia per la difficile congiuntura economica sia per le debolezze e le ambiguità delle leadership nazionali e comunitarie nell’affrontarla. Il problema più drammatico che oggi ha di fronte l’Europa è la mancanza di fiducia, quella che era stata alla base della scommessa iniziale ma anche dei successivi passi e tentativi compiuti in oltre cinquant’anni di esistenza. Se non si danno risposte a tali questioni gli spazi per l’aggressiva iniziativa di Grillo si amplieranno.

Come sta accadendo in vista del voto del 25 maggio per il rinnovo del Parlamento europeo. Soprattutto nelle regioni meridionali l’affermazione del M5S si annuncia consistente. Perché? Il malessere nel Mezzogiorno è diffuso. Il Sud paga un prezzo enorme alla crisi. Le cifre del disagio sono note. Il voto a Grillo nel Sud (dove ancora due anni fa il M5S era poca cosa) è anche una reazione alla assoluta caduta di interesse verso i problemi in cui si dibattono le popolazioni meridionali. Da troppo tempo il tema del Mezzogiorno è stato posto sotto il tappeto perché troppo difficile e complesso.

Nel frattempo si è assistito a un progressivo scivolamento della solidarietà verso l’assistenzialismo invece che verso lo sviluppo generando effetti perversi. Ne sono derivati ostacoli allo sviluppo di attività di mercato e cattiva qualità di servizi offerti ai cittadini meridionali nonostante il loro costo sia in genere più elevato.

Lo stesso governo Renzi che sembra distinguersi per rapidità di decisione e determinazione stenta a rendersi conto che impegnarsi nel Mezzogiorno non è un segnale di cedimento a istanze particolaristiche o peggio assistenzialiste ma significa affrontare un nodo cruciale di tutto il Paese.

C’è un’altra questione nelle regioni meridionali che alimenta la opposizione grillina. Lo stato in cui versa la politica. Nel Sud l’indebolimento dei partiti come strumento di promozione di interessi collettivi e la loro trasformazione in una informe sommatoria di aggregazioni politico elettorali sempre più autonome e autoreferenziali ha prodotto seri danni.

La classe politica locale ha ostacolato le attività di mercato, non ha avuto interesse ad investire in beni e servizi collettivi i cui benefici in termini di acquisizione di consenso si manifestano in tempi medio lunghi.

Di qui la difficoltà a spendere e bene i fondi europei. Lo stesso Pd, l’unico partito che ancora un poco assomiglia ai grandi partiti del passato, nel Mezzogiorno non è stato in grado di produrre il mutamento necessario nel proprio modo di essere e di funzionare. Di avviare una vera e propria rifondazione. Di ripensare radicalmente la sua struttura intema e la sua mentalità, di avere processi decisionali più democratici e un migliore dibattito interno, di attrarre competenze che provengano dalle professioni liberali, dalla ricerca e dalla comunicazione.

Se non si muove speditamente in queste direzioni il dilagare del grillismo nel Sud sarà inevitabile Se ne renda conto anche Martin Schulz. 

Misurare il rendimento e premiare il merito

di Francesco Grillo su Il Messaggero

Ha perfettamente ragione Romano Prodi quando – da queste colonne, una settimana fa –inizia il suo commento alla lettera con la quale Matteo Renzi e Marianna Madia spiegano la loro riforma alle amministrazioni pubbliche, ribadendo che “la burocrazia si cambia solo fissando gli obbiettivi”.

Verissimo. Perché se ci muovessimo su una sola delle gambe della riforma dell’amministrazione pubblica – la mobilità dei dirigenti – senza riuscire a usare anche l’altra – legare quella mobilità ai risultati conseguiti – rischieremmo di cadere dalla padella – nella quale l’Italia frigge da anni governata dalsolo potere dei burocrati di Stato, nella brace nella quale l’amministrazione può diventare uno strumento che la politica può usare a sua discrezione.Fissare gli obiettivi e misurarli è fondamentale per qualificare una spesa che vale la metà del PIL. Eppure nessuno da vent’anni vi è riuscito nonostante vi si siano applicati alcuni dei migliori ministri, da Bassanini a Cassese, della storia recente della Repubblica: capire cosa abbiamo sbagliato finora nel fissare gli obiettivi è il grimaldello decisivo per cambiare la PA, salvarla dalla sua inerzia, liberare le energie di cui il Paese ha disperato bisogno.

È la semplice consultazione del sito della Presidenza del Consiglio a dare indicazioni utili per chi volesse seriamente vincere la battaglia contro la burocrazia. Su sessantasette dirigenti di prima fascia dell’amministrazione che supporta il capo del Governo nel suo tentativo di rivoluzionare le amministrazioni introducendo una logica di remunerazioni legate al risultato, cinquantasette percepiscono lo stesso, identico premio di risultato (26.000 euro) e la differenza tra i due dirigenti che hanno conseguito l’incentivo maggiore (31.000 euro) e quelli che sembrerebbero aver fatto peggio (23.000) è pari ad un ridicolo 3% della retribuzione complessiva. È evidente che se un premio di risultato che per definizione è variabile diventa uguale per tutti, esso sfida la sua stessa natura e legittimità giuridica, come hanno scoperto, in un contesto assai diverso, i dipendenti del Comune di Roma che sull’aspettativa di un salario “accessorio” stanno costruendo uno sciopero generale.Ma quando ciò avviene alla Presidenza del Consiglio abbiamo la dimostrazione definitiva che il tentativo di introdurre la logica delle carriere legate al risultato è finora fallita, non essendo cominciata neppure negli uffici che dovrebbero far partire, sostenere e governare il cambiamento.

La situazione è persino peggiore se si considerano gli altri centosessanta dirigenti (di seconda fascia) della stessa Presidenza del Consigliopercepiscono tutti la stessa, identicaremunerazione (poco meno di 90.000 euro). Più ancora che la questione dei tetti e del valore assoluto, emerge la questione della variabilità delle remunerazioni, dell’assoluta invarianza delle carriere rispetto alla qualità dei servizi forniti a chi quei servizi li paga con le tasse. Il pubblico impiego assomiglia ad una foresta pietrificata, inchiodata a criteri egualitari che neppure in un Paese del socialismo reale sarebbero risultati accettabili rispetto all’esigenza di un qualsiasi Stato di assicurarsi la sopravvivenza.

La riforma dell’amministrazione pubblica dell’era Renzi parte praticamente da zero. Dopo vent’anni di convegni, progetti di “capacity building” (e non si capisce perché si debba utilizzare un termine in inglese, ogni qual volta c’è da vendere fumo); ma anche di leggi importanti e lo sforzo sincero, a volte persino eroico di chi – anche ad altissimi livelli – nel tentativo di riformare la burocrazia ci ha creduto sul serio.

Ma cosa allora ha sbagliato il riformismo degli anni novanta e duemila che ha tentato di sconfiggere l’inerzia assumendo la questione del “dar conto” dei risultati quale una delle battaglie campali?

L’errore è stato nell’eccessivo tecnicismo con il quale un’intera generazione di governi e professori di tutti i colori, ha cercato di affrontare la questione. Fissare gli obiettivi non è una cosa che un gruppo di consulenti possono fare da soli, chiusi in qualche stanza a produrre slides. È un’operazione politica, anzi di esercizio di democrazia evoluta. Che richiede un forte coinvolgimento dei cittadini e che nei cittadini, nella aspettativa diffusa, non organizzata, di una maggiore qualità dei servizi, trova l’energia politica per superare la resistenza delle lobbiesdel non cambiamento.

È necessario, allora, che gli obiettivi siano pochi, chiari, che parlino di risultati rilevanti per le persone e che le persone possano sentire, vedere, toccare, a volte, persino controllare.

È paradossale che dopo anni di riflessioni sofisticate non si sia riusciti a stabilire – come in qualsiasi Paese normale – che chi gestisce settori strategici per l’Italia come il turismo sia remunerato sulla base del numero di biglietti venduti dai musei; che chi in questo momento è responsabile di servizi tanto vitali come la formazione professionale ed il reinserimento di chi non ha lavoro, sia pagato in maniera proporzionale al numero di posti di lavoro creati. Non è accettabile che la distribuzione delle forze di polizia sul territorio non rifletta la geografia dei crimini sul territorio o che i dirigenti delle scuole non rispondano dei risultati faticosamente rilevati dagli esami INVALSI.

Turisti, posti di lavoro, sicurezza, competenze matematiche o linguistiche dei più giovani: la valutazione deve parlare il linguaggio della vita di tutti in maniera da dare al cambiamento l’energia della volontà di chi paga quei servizi. Devono essere a livello di singola organizzazione (articolando le amministrazioni pubbliche per area e sul territorio), riflettersi sulla carriera dei dirigenti di livello più alto e sulle risorse allocate a quella organizzazione, lasciando alla discrezione degli stessi dirigenti meccanismi di valutazione individuale o di gruppo più sofisticati.

La scusa è stata spesso quella che valutare è assai difficile, che sono molti i fattori non controllabili dagli amministratori che possono incidere sui risultati. È vero e lo è in particolar modo per alcune politiche pubbliche. Ma è assurdo che dopo anni di ragionamenti sofisticati non siamo riusciti a fare un solo passo avanti, persino tra coloro che come obiettivo avevano quello di cambiare e sono rimasti fermi. È indispensabile, se davvero vogliamo vincere la madre di tutte le battaglie di un Paese oppresso da se stesso, intraprendere con decisione una strada che sarà fatta anche di apprendimento e di aggiustamenti progressivi ma con la consapevolezza che un sistema che cerca davvero il merito può avere un futuro, mentre uno che vi rinuncia in partenza è già morto.

 

The Mediterranean is back

salzanoby Pasquale Salzano (published on Longitude, n.38)

Between calls for diversification of natural gas sources and new basins being developed in the Mediterranean and North Africa, a geopolitical axis shift is occurring.

Recent political turmoil in Ukraine is reviving the long-standing European debate on energy security and competitiveness. The European Union today relies on Russia for a significant proportion of its gas imports – around 24% in 2012 at some 160 billion cubic meters, half of it passing through Ukraine – with Central Eastern and South – east Europe almost entirely dependent on this supply. If the Old Continent wants to further diversify its energy sources in the short to medium term, the Mediterranean will become increasingly relevant along with other options, such as shale gas or LNG from the UnitedStates.

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