Innovatori Europei

Significativamente Oltre

Innovatori Europei e I Riformisti con Giuseppina Bonaviri nel frusinate

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Innovatori Europei e I Riformisti con Giuseppina Bonaviri nel frusinate

 

Il Partito Democratico, primo partito riformatore italiano, non può fermarsi. Tanto più in una occasione irripetibile come quella delle prossime elezioni degli organi provinciali di area vasta frusinate non potendosi permettere di retrocedere ad accordi di vertice o a vecchi schemi di gestione del territorio.

Come Innovatori Europei e I Riformisti crediamo da sempre che il cambiamento responsabile post ideologico è possibile e sosteniamo che passi da persone nuove, integerrime e rappresentative a partire dalle periferie e dai programmi condivisi sull’eccellenza.

Sulla nomina di un “commissario garante e terzo” per la Federazione del Pd locale in Ciociaria – come da richiesta ufficiale fatta al segretario regionale e alla commissione di garanzia –  il tempo è maturo per dar vita a pratiche seriamente innovative e di discontinuità, corali.

Per questo proponiamo in qualità di commissario garante e terzo la innovatrice europea e riformista Giuseppina Bonaviri, che come donna, intellettuale indipendente, militante pubblica da anni con la sua determinazione, impegno e passione rappresenta pienamente le istanze di un territorio che necessita di veloce e vigoroso rilancio.

Giuseppina Bonaviri aderisce all’Associazione per il Partito democratico nel lontano 2006 per giungere alla costituente del Pd, con credo e sano entusiasmo. Viene eletta nella assemblea costituente regionale del Lazio ed entra nel direttivo provinciale del Pd. Si candida poi da indipendente nel 2010 alle elezioni regionali del Lazio e nel 2012 come Sindaco indipendente a Frosinone con il supporto di due liste civiche sostenendo, già da allora, col suo programma elettorale “Frosinone piccola Capitale” l’urgenza di costruire una macro area provinciale Smart internazionalizzata per accrescere l’identità locale.

Gli Innovatori Europei e I Riformisti credono che oggi più che mai i movimenti civici siano i veri depositari e tutori della pianificazione virtuosa del Partito Democratico. Da un decennio impegnati su questa linea, proseguiranno imperterriti.

Gregorio Gitti  per I Riformisti www.iriformisti.eu

Massimo Preziuso per gli Innovatori Europei:  – www.innovatorieuropei.org

#TerzoMondo, #Innovazione e le occasioni mancate dall’Occidente

Di Francesco Grillo su Futuro Quotidiano

Come si stanno forse accorgendo i non pochi turisti italiani che decidono di trascorre le vacanze né in Italia e neppure a Formentera, c’è un fenomeno importante che sta succedendo nel Sud del pianeta: il terzo mondo sta scomparendo. O meglio, sta scomparendo la nozione di terzo mondo alla quale ci hanno abituato le immagini della televisione e la retorica dei concerti del Live Aid.  Tuttavia, ciò non significa che i problemi in Africa, Asia, America del Sud siano finiti. Semmai se ne sta trasformando la natura e ciò richiede un profondo ripensamento dell’approccio che l’Occidente ha nei confronti della povertà globale. Dall’idea della “carità” si dovrebbe passare a quella della fornitura di tecnologie, esperienza, conoscenza degli errori che in Occidente hanno accompagnato l’industrializzazione del secolo scorso. In questo senso, lo sviluppo dei Paesi emergenti è un’opportunità di innovazione di portata storica, ma l’Europa ed in particolar modo l’Italia la stanno malamente perdendo.

Il terzo mondo sta sparendo

Che il terzo mondo stia sparendo, anche se ne resistono, in Africa soprattutto, larghe, dolorose rappresentazioni, lo dicono i numeri delle Nazioni Unite. Nel 1990 l’Onu si pose l’obiettivo del “millennio”: portare dal 50 al 25% la percentuale di individui nei paesi in via di sviluppo che vivono in condizioni di povertà estrema (meno di un dollaro al giorno) entro il 2015. Già nel 2010, con cinque anni di anticipo, quella percentuale risulta ridotta al 22% e – rispetto al 1990 – ciò significa che ci sono 700 milioni di diseredati assoluti in meno. Progressi simili sono stati fatti sul fronte del numero di persone che risultano denutrite, lontane dalla più vicina fonte d’acqua, di bambini che muoiono prematuramente o che non frequentano la scuola elementare; persino in Africa il numero delle persone esposte alla fame si è ridotta da un terzo ad un quarto della popolazione, questo significa aver strappato alla carestia quasi cento milioni di individui; nel frattempo centinaia di milioni di persone – in Cina, in India, Nigeria e Sud Africa – sono diventati classe media.

Le distanze si accorciano

Basta  essere abituati a viaggiare nei luoghi che sono tra le prime destinazioni degli italiani dell’Italia in crisi – Indonesia, Tanzania, Nepal, Vietnam, Marocco – per accorgersi che (anno dopo anno) le distanze tra loro e noi si stanno accorciando: diminuiscono le destinazioni per le quali sono richieste vaccinazioni obbligatorie; è aumentata di molto l’igiene dei cibi (anche se molte delle megalopoli rimangono senza un vero e proprio servizio di smaltimento dei rifiuti); sempre di più sono quelli che possono avventurarsi senza viaggi organizzati. Del resto, mentre negli ultimi vent’anni un Paese come l’Italia è rimasto praticamente fermo, il resto del mondo (soprattutto quello “emergente”) ha conosciuto il più straordinario periodo di crescita della storia. Ed a strappare centinaia di milioni di persone dalla fame sono state non i concerti degli U2 – pur necessari e bellissimi – o le adozioni a distanza o la macchina delle agenzie delle Nazioni Unite, ma la forza potente della globalizzazione del commercio mondiale che è tanto invisa alla sinistra europea.

Ma i problemi per il Sud del mondo non sono finiti. Se ne è trasformata la natura.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità la differenza in termini di speranza di vita media in un Paese come il Nepal (60 anni) rispetto ad uno come l’Italia (80) è per due terzi dovuta, ormai, all’inquinamento. Ne uccidono più le emissioni, quelle tradizionali di catrame o polvere sottili ancora più delle emissioni di anidride carbonica, che la carestia. Del resto, in Cina la primissima causa di insoddisfazione della popolazione nei confronti del Governo non è la povertà delle regioni rurali – spesso brutalmente repressa dalla polizia – ma il pessimo stato dell’aria e dell’acqua nelle megalopoli che rischia di far saltare la pace sociale. Ancora una volta, basta provare a percorrere i leggendari trecento chilometri che separano Kathmandu dall’ Annapurna per accorgersi che i Paesi emergenti stanno emergendo usando, semplicemente, le stesse traiettorie di sviluppo che hanno utilizzato l’Europa e l’America cinquanta anni fa. Le strade preferite alle ferrovie. Automobili, camion e affollatissimi bus che lasciano sinistre nuvole di smog nero e che in Europa da decenni non possono più circolare. Con danni enormi ad un patrimonio naturale che dovrebbe essere una delle grandi risorse di questi Paesi e, soprattutto, ai bambini che sono particolarmente esposti agli scarichi.

Opportunità di innovazione perse

Eppure, sarebbe bastato poco. Sarebbe bastato avvertire, consigliare i cinesi, ad esempio, sui pericoli di uno sviluppo tutto basato sul carbon fossile (per la verità in Cina hanno fatto anche investimenti poderosi sulle metropolitane e sull’alta velocità, ma ciò non ha impedito che la rapidità della diffusione delle automobili producesse un enorme ingorgo). Sarebbe stato sufficiente provare a costruire insieme una vera e propria industria automobilistica elettrica che sfruttando i grandi numeri e le economie di scala avrebbe potuto superare gli svantaggi di costo che l’elettrico ancora ha nei confronti del motore a scoppio. Nei paesi emergenti poteva essere reinventato il modello stesso di burocrazia, sfruttando le minori resistenze che gli apparati consolidati pongono ed il fatto che almeno in termini di diffusione di telefoni cellulari non c’è più alcun divario. Invece lo sviluppo sta seguendo in Asia processi simili a quelli che ha avuto in Europa con enormi danni ambientali e opportunità di innovazione che stiamo perdendo tutti (del resto i veicoli che circolano in Asia sono solo in piccolissima parte europei).

È mancata in questi anni, quasi completamente, una strategia. Ci sono stati migliaia di miliardi di investimenti ma siamo andati avanti come se i problemi dello sviluppo fossero ancora quelli di quindici anni fa. Abbiamo perso – soprattutto come Europa – un’occasione per essere utili agli altri e a noi stessi. Perché certe innovazioni potevano tornarci utili per trasformare anche il modo in cui noi concepiamo e organizziamo mobilità, sanità, educazione.

 

Francesco Grillo

Conoscenza e democrazia al tempo della loro riproducibilità tecnica

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Forum di elaborazione per una SummerSchool di Filosofia della rete

Comitato scientifico – Direttore: Michele Mezza – Componenti: Gianluigi Ferrari, Giulio Giorello, Cesare Massarenti, Carmelo Meazza, Giovanni Lanzone.

Edizione 2014

Social Know: Conoscenza  e democrazia al tempo della loro riproducibilità tecnica.

Matrici filosofiche e opzioni sociali della società a condivisa

In onore e memoria di Elio Matassi fondatore della summer school di filosofia di Castelsardo

Cordinamento del programma di Michele Mezza

Premesse: Il corso 2014 di filosofia delle relazioni digitali si occupa quest’anno dei riflessi e delle ragioni  dei nuovi processi di  produzione  sociale della conoscenza nel suo rapporto con la democrazia, attraverso l’azione dei nuovi dispositivi di socialnetwork. In particolare si prende in esame,l nel groviglio sapere-consenso,  la parabola  del soggetto intellettuale, della figura del mediatore del pensiero, che sempre più si dissolve in un gioco di nuove interfacce della comunicazione. La riflessione affronterà il tema che attraverso le prima riflessioni rinascimentali, arrivano alla sistematizzazione di Hanna Arendt per essere poi rilette da Manuel Castells nella sua trilogia sulla Società in rete. Un passaggio  a cui contribuì con grande lucidità il professor Elio Matassi, scomparso lo scorso anno, con  il quale fu pensata quest’iniziativa. In questo itinerario, alla luce di una ricostruzione della mappa concettuale della relazione sapere-consenso, assumono particolare rilievo sia la fase della messa a fuoco del ruolo autonomo del pensiero umano (in particolare Giordano Bruno, Machiavelli, Galileo), sia l’evoluzione dei concetti di  controllo dei beni  umani, come lo stesso sapere, che discende dalla rivoluzione inglese di Cromwell. Con l’esplicito richiamo, contenuto nel tema guida del nostro corso,  direttamente al libro di Walter Benjamin, si vuole riprendere l’ispirazione di una stagione del pensiero critico forse  troppo frettolosamente archiviata, e che oggi, la nuova complessità del logos partecipativo, ripropone come ineludibile per una organica riflessione sul rapporto pensiero-democrazia-potere. Si propone così di affrontare il tema di un pensiero forte della politica rispetto all’innovazione. Di una politica che si doti di forme e categorie  culturali e di strumenti di organizzazione e azione adeguati al nuovo mondo delle moltitudini interattive. Il motore di questa irruzione della realtà socio- economica nel campo politico,sia nella versione di una finanziarizzazione passivizzante, sia in quella di una pretesa di esposizione permanente della decisione politica al controllo dei rappresentati, è oggi la rete. Più direttamente, la mobilitazione sociale dei mediati rispetto ai mediatori. Come scriveva lo stesso Benjamin nella sua seconda versione del saggio L’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnologica, la prima delle due in tedesco “la distinzione fra autore e pubblico e sul punto di perdere il suo carattere fondamentale… il lettore è ognora pronto a  divenire uno scrittore… la competenza letteraria non si fonda più sulla fondazione specializzata,ma su quella politecnica, e diviene così bene comune”(W.Benjamin, Berlino,1936). Una vison di straordinaria lucidità, abbandonata da una politica che si era trincerata  nell’icona identitaria dell’ideologia della fabbrica .E ignorata da una nomenklatura culturale che guardava allora e guarda oggi  solo al proprio protagonismo per misurarsi con le avvisaglie dei propri rottamatori. Oggi questa previsione torna attraverso le soluzioni del networking collaborativo,come i grandi marchi  della rete impongono e come le nuove soluzioni di algoritmi italiani confermano.

Si afferma così la necessità  di contaminare politica e scienza,cultura e tecnologia, linguaggi e algoritmi, per decifrare i nuovi processi di elaborazione ,implementazione e interrattività dell’informazione e della formazione che, proprio con la loro dinamica partecipativa,stanno riconfigurando le categoria di base del sapere e delle relazioni sociali. Il nodo teorico da dipanare, per ridare cittadinanza attiva nella rete ad una democrazia politica che appare sempre meno legittimata, riguarda il conflitto, ossia le forme e i contenuti di una negoziazione  sociale dei processi tecnologici . Una negoziazione che ritroviamo proprio nelle matrici del pensiero digitali che rintracciamo nell’umanesimo rinascimentale tutto italiano:da Pico della Mirandola, a Giordano bruno, a Niccolò Machiavelli.

La struttura Il Forum  si articola per sessioni didattiche  interattive, dove alle lezioni frontali  dei singoli docenti seguono  meeting interattivi in cui relatori e  platea  discutono confrontano criticamente i contenuti delle lezioni. Ogni sessione  vedrà in mattinata due docenti proporre un tema convergente al concept del forum. Nel pomeriggio sotto le provocazioni del conduttore,in una forma di talk show, si affronteranno i vari aspetti delle lezioni intrecciando e contaminando ogni singolo contenuto. In sostanza, ogni sessione si costituisce come autore collettivo che prende spunto dal paper inizale per scrivere e comporre un nuovo catalogo concettuale  attorno al tema indicato. Insieme alle lezioni e ai forum critici al centro della discussione un oggetto concreto della Rete: Il Caso Quag, la condivisione come algoritmo italiano. La realtà di una realizzazione digitale, come appunto la comunity italiana di Quag viene presentata e analizzata alla luce di quanto emergerà del dibattito didattico.

Programma

Lunedì 8 settembre ore 16 – Introduzione: Michele Mezza presenta temi e metodi del progetto. Il Ricordo del contributo di Elio Matassi ore 17: carrellata con i relatori sul format didattico: un forum come lezione ore 18: il caso Quag: presentazione e analisi della comunity italiana della condivisione dei saperi.

Martedì 9 settembre ore 10 – lezione del professor Cesare Massarenti La condivisione come motore e linguaggio della rete fra continuismo e rottura culturale Ore 11 – lezione professor Carmelo Meazza Il nuovo leviatano della potenza di calcolo: soggetti, valori e sovranità nel negoziato sociale con il dominio del calcolo. Ore 12 – lezione del professor Giulio Giorello Elementi  per una geografia storica dei nuovi conflitti  di  soggettività. Da Bruno e Machiavelli alla rivoluzione inglese di Milton e Cronwell i fondamenti delle forme di proprietà e condivisione dei saperi a rete.

Ore 15,30 – Forum analitico con i docenti della mattinata i discussants: Gianluigi Ferrari, Giulio Giorello, Giovanni Lanzone, Gianluca Lisa e Luca Giorgelli coordina Michele Mezza

Mercoledì 10 settembre ore 10 – lezione del professor Gianluigi Ferrari L’algoritmo come oggetto contendibile: la  collaborazione dei saperi come nuovo motore produttivo. Ore 11.30 – Lezione del professor Giovanni Lanzone La bellezza come linguaggio e conseguenza della condivisione. Il caso Italiano.

Ore 15,30 – Forum critico  sulla sessione didattica del mattino. Insieme ai due decenti della giornata partecipano: Carmelo Meazza, Cesare Massarenti, Giovanni Lanzone

Conclusione: Castelsardo

Workshop multimediale:  Condivisione e competizione nell’economia della conoscienza. Il Caso Italiano. Con : Giulio Giorello, Gianluigi Ferrari, Giovanni Lanzone, Carmelo Meazza, Cesare Massarenti, Gianluca Lisa, Luca Giorgelli e Stas’ Gawronski.

Conduce Michele Mezza

Iscrizioni e Costi Tutti gli appuntamenti sono aperti al pubblico, sono liberi e gratuiti. È possibile iscriversi inviando una mail all’indirizzo info@inschibboleth.org indicando nella mail: nome e cognome, luogo e data di nascita. Questi dati saranno utili per il rilascio degli attestati.

Logistica La segreteria organizzativa può provvedere a alla sistemazione dei partecipanti presso alberghi o B&B convenzionati. Per informazioni circa disponibilità e costi scrivere a info@inschibboleth.org

Attestati e riconoscimenti Gli organizzatori rilasceranno un attestato di partecipazione.

– le ore di partecipazione sono riconosciute come valide ai fini della formazione docenti, in quanto l’attività è organizzata dalla società filosofica italiana (Si veda la Comunicazione ufficiale del MIUR, 2 settembre 2002, prot. Prot. n. 3627/c/3).

– Le ore di partecipazione sono inoltre valide ai fini del tirocinio teorico per gli studenti di filosofia del Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione dell’Università degli Studi di Sassari.

Il Forum è organizzato da Comune di Castelsardo, Associazione culturale Inschibboleth e Sezione universitaria di Sassari della Società Filosofica Italiana, in collaborazione con Università degli Studi di Sassari, Dipartimento di Storia Scienze dell’uomo e della formazione, Centro ricerche filosofiche letterarie scienze umane di Sassari, Associazione turistica Proloco Castelsardo.

Scarica la locandina http://unisolainrete.it/2014/wp-content/uploads/2014/08/summer-school2014-ss_04.jpg

“Non solo fondi UE, al Sud serve un progetto”, la mia intervista per «Il Mattino»

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Intervista di Gianni Pittella per «Il Mattino»

Onorevole, qual è il significato di questa nuova visita del premier a Napoli e nel Mezzogiorno?

«Ha innanzitutto un grande valore simbolico – spiega Gianni Pittella, capogruppo del Pse a Strasburgo – perché vuole significare l’importanza che ha il Sud per Renzi e per il Governo, ma anche per l’Europa intera. Il Mezzogiorno è un’area che può diventare strategica per la crescita e per la ripresa economica nel continente. Aggiungo: so che Renzi visiterà anche delle aziende d’eccellenza. E questo è un altro motivo di questa visita: il premier viene a sottolineare le virtuosità di cui il Sud è ricco, viene a dare un segnale di fiducia e di incoraggiamento peri tanti attori dello sviluppo che nel Mezzogiorno fanno per intero la loro parte, a dispetto di chi critica soltanto».

A suo giudizio cosa fa e cosa potrà realizzare il governo Renzi per il Sud?

«Il governo ha saputo preparare l’avvio della nuova programmazione dei fondi comunitari. La parola d’ordine è concentrazione delle risorse: per evitare ritardi e ulteriori perdite di fondi. D’altronde solo l’ottimizzazione delle risorse può impedire la dispersione in mille rivoli, tipo quella dei 500mila progetti della vecchia programmazione. Un esempio: puntare tanto sulle infrastrutture, sia quelle fisiche come i porti, come l’Alta velocità, come l’Alta capacità, ma anche quelle immateriali, come la banda larga».

Si riferisce all’Agenzia per la coesione?

«Anche. Perché è importante che il governo coinvolga le regioni ad un tavolo comune, perché finalmente si ragioni tutti insieme in una visione più complessiva e organica. Ecco, credo che sia questo il nuovo orizzonte: anziché fantasticare sulla macro -regione istituzionale credo sia più importante lavorare tutti insieme ad un grande progetto. Prendiamo ad esempio l’Alta velocità: che senso ha se ciascuna regione pensa esclusivamente alla sua piccola porzione? Eppure quella delle infrastrutture che consentano una maggiore accessibilità è una delle sfide più decisive per il Mezzogiorno, da affrontare e da superare».

Sempre e solo fondi Ue: onorevole, ma al Sud non serve anche altro?

«Concordo: in questi anni è mancata una visione, un’attenzione. E non c’è stato nessuno sforzo serio di programmazione. Ma io credo che in questo senso Renzi possa dare una svolta».

Come?

«A mio avviso sono cinque i punti fondamentali. Delle Infrastrutture già ho detto. Poi penso all’istituzione di Zone Economiche Speciali, come in Polonia, dove un regime di fiscalità e la semplificazione amministrativa possano attrarre gli investimenti. Ancora: turismo e ambiente, con tutti gli sforzi che ne derivano per recuperare ad esempio il terreno perduto con la “terra dei fuochi”. Quindi, l’adozione dei progetti di studio Erasmus su scala mediterranea, per accrescere anche una coscienza più aperta: sarebbe un segnale anche dal punto di vista politico rispetto a quanto accade sulle altre coste del Mediterraneo. Infine la lotta alla criminalità: penso all’impiego delle nuove tecnologie, ma anche ad un’azione socio-culturale che coinvolga il volontariato e le associazioni, e ad un utilizzo più efficiente dei beni confiscati alle mafie».

Renzi potrà fare tutte queste cose o la crisi sarà l’alibi buono per rinviare ancora?

«Mi fido di Renzi e penso anche che tante di queste cose si possano realizzare senza particolari impegni finanziari. Poi non dimentichiamo che, al di là dei fondi comunitari, ci sono quei famosi 300 miliardi in 3 anni derivanti dal piano straordinario investimenti adottato da Juncker su nostro pressing: anche una quota di quelle risorse potrà andare a colmare lo storico divario Sud-Nord. L’importante è che tutti gli attori facciano la loro parte: anche le banche, perché non siano solo prestatori di danaro a fini di lucro, ma aiutino a creare una cultura nuova, aperta al cambiamento. Che senso ha chiedere ai giovani imprenditori garanzie che loro non possono dare?».

………………

Pittella in conversazione su suo post su Facebook aggiunge: “È fondamentale che il Governo coinvolga le regioni ad un tavolo comune, perché finalmente si ragioni tutti insieme in una visione più complessiva e organica. Anziché fantasticare sulla macro-regione istituzionale, credo sia più importante lavorare tutti insieme ad un grande progetto. Prendiamo ad esempio l’Alta velocità: che senso ha se ciascuna regione pensa esclusivamente alla sua piccola porzione? Eppure quella delle infrastrutture che consentano una maggiore accessibilità è una delle sfide più decisive per il Mezzogiorno, da affrontare e da superare. Farò di tutto perché questo avvenga. Anche grazie a una parte dei fondi che siamo riusciti ad ottenere.”

Commento di IE: “Ci sono tutte le condizioni ora per unire il Mezzogiorno per la sua infrastrutturazione che apra  Italia e l’Europa al Mediterraneo, di cui da anni parliamo fino alla proposta per il Semestre europeo a guida italiana dell’Osservatorio infrastrutture e logistica mediterranee”.

Lo spazio dell’Italia tra Usa e Africa. Parla Salzano (Eni)

Lo spazio dell'Italia tra Usa e Africa. Parla Salzano (Eni) Intervista di Formiche a Pasquale Salzano

Pasquale Salzano è senior vice president di Eni ed ha delega agli affari istituzionali. È il volto e la voce di Claudio De Scalzi, una vita nel Cane a sei zampe e da pochi mesi nominato dal governo Renzi nuovo Ceo della prima multinazionale italiana.

Salzano, classe 1973, è arrivato in azienda nel 2011 dalle fila del ministero degli Affari esteri essendo Consigliere d’Ambasciata. La promozione di un giovane diplomatico non sorprende, anzi conferma il peso della dimensione istituzionale e internazionale in Eni. Formiche.net lo ha incontrato per una conversazione a valle del Summit USA-Africa appena terminato a Washington e che ha lasciato in eredità sia la Clean Energy Finance Initiative sia investimenti tra i quali una partnership da 5 miliardi di dollari tra il fondo Blackstone e il ricco investitore africano Aliko Dangote per progetti di infrastrutture energetiche nell’Africa sub-sahariana.

Anche Eni, pur nel suo core business degli idrocarburi, investe da tempo nel Continente nero. Quali opportunità vi intravedete? “Il vertice di Washington è stato il più grande incontro con i capi di stato e di governo africani mai organizzato da un presidente americano negli Usa. La sua importanza è dunque innanzi tutto di carattere politico e strategico e segnala la crescente attenzione che l’amministrazione americana dedica ad un continente in cui, negli ultimi dieci anni, diversi paesi hanno registrato i tassi di crescita più elevati del mondo. Va considerato, inoltre, che la popolazione africana raddoppierà entro il 2050, tornando a rappresentare un quinto del totale mondiale, come era nel XVI secolo. In questo quadro, gli investimenti e il commercio sono considerati dagli Usa come parte del più complessivo impegno per la sicurezza e lo sviluppo civile e sociale del continente. Si tratta di un approccio altamente condivisibile, molto simile a quello che Eni, pur nella sua specificità di azienda energetica, ha tradizionalmente promosso in Africa fin dall’inizio della sua presenza, nel 1953. È stato proprio grazie alla attiva integrazione tra i progetti di sviluppo dell’azienda e le opportunità di crescita dei territori in cui è ospite, che Eni è potuta diventare non solo la prima compagnia internazionale del continente per produzione di idrocarburi, ma anche l’azienda leader nel favorire l’accesso all’energia da parte delle popolazioni locali. Il rinnovato impegno americano e la convergenza dei rispettivi approcci al continente non può dunque che essere vista da Eni in modo molto positivo”.

Gli Stati Uniti hanno deciso di puntare in modo deciso sullo sviluppo dell’Africa e sugli investimenti non solo energetici nel continente. L’Italia, per sua vocazione e collocazione rappresenta un ponte ideale tra l’altra sponda dell’Atlantico e l’Africa. Ritiene che questo nuovo sguardo a sud possa aiutare il nostro Paese a diversificare le proprie alleanze energetiche, finora più orientate ad est?

“Pochi lo sanno, ma l’Italia è tra i paesi europei che nell’ultimo decennio ha provveduto maggiormente alla diversificazione delle proprie fonti di approvvigionamento, come spesso auspicato dall’Unione europea. Nello stesso periodo, inoltre, l’Eni ha registrato in assoluto i migliori successi esplorativi tra le majors petrolifere mondiali, inclusa la più grande scoperta di giacimento gas della sua storia, in Mozambico, nel 2011 e l’Africa è stata al cuore di questi successi. Si tratta di nuove fonti che, soprattutto per quanto riguarda il gas, potranno contribuire ulteriormente alla diversificazione energetica italiana ed europea, consolidando una sorta di corridoio nord-sud come nuovo asse strategico di approvvigionamento energetico, di cui ha recentemente parlato anche il presidente Renzi, che potrà avvicinare sempre più l’Africa al vecchio continente”.

Ritiene che, tenendo conto anche dei nuovi progetti energetici annunciati dall’amministrazione Obama, ci possano essere ulteriori momenti di collaborazione tra Italia e Stati Uniti?

“Le sfide che la straordinaria crescita dell’Africa pongono alla comunità internazionale rendono sempre più importante la sinergia tra l’Italia e gli Stati Uniti, che non può che realizzarsi nella più ampia cornice dei rapporti tra Ue e Usa. L’importante negoziato in corso sulla Transatlantic Trade and Investment Partnership ne è solo uno degli esempi più recenti, e l’inclusione dei temi energetici al suo interno sarà molto rilevante. In Africa, in particolare, la collaborazione tra Italia e Usa potrà registrarsi anche alla luce del programma Power Africa lanciato dall’amministrazione un anno fa, che mira a raddoppiare l’accesso all’energia nel continente entro il 2018, grazie anche a importanti convergenze tra pubblico e privato (Public Private Partnership)”.

Il recente viaggio del premier Matteo Renzi in Africa – in Mozambico, Congo e Luanda – è forse il segno che anche la politica italiana guardi all’Africa non solo come a una frontiera, ma come a un mercato di riferimento. Eni come valuta questo nuovo approccio e quali cambiamenti scorge?

“Il rinnovato impegno del governo italiano verso l’Africa è a tutto campo e tocca la dimensione politica, economica e culturale. Può quindi essere considerato parte di una più ampia strategia di apertura e adattamento del nostro paese alle nuove tendenze del sistema internazionale. Un’azienda come Eni, che opera in circa settanta paesi in tutto il mondo, non può che considerare positivamente questo approccio, sempre più necessario e carico di implicazioni significative. A questo riguardo Il Ministero degli esteri ha recentemente promosso l’Iniziativa Italia–Africa, anche con l’obiettivo di rafforzare l’accesso all’energia sostenibile attraverso l’espansione della rete di aziende italiane impegnate nel continente. A metà ottobre si svolgerà a Roma una conferenza internazionale di alto livello per fare il punto sullo stato di avanzamento delle attività su questo fronte”.

Per dirla con Barack Obama, aumentare gli investimenti occidentali in Africa è anche un modo per rafforzare “sicurezza e democratizzazione dei Paesi africani”, anche quelli dove Eni è presente. Penso alla Nigeria, ma anche alla Libia, in queste ore teatro di scontri terribili. Cosa ne pensa? E come proseguono le attività di Eni nei Paesi africani più instabili?​

“Per le caratteristiche del suo business, Eni è abituata da sempre ad operare in realtà o regioni complesse o genericamente considerati “a rischio”. Per questo ha tradizionalmente dedicato grande attenzione allo sviluppo dei paesi in cui opera, anche attraverso il cosiddetto “dual flag approach”, ovvero quello di una compagnia al tempo stesso internazionale ma anche locale e con uno stretto rapporto con il territorio. Poiché l’energia è la chiave di ogni sviluppo, negli ultimi anni Eni si è anche impegnata direttamente nella realizzazione di alcune centrali elettriche, come ad esempio quelle in Nigeria e Congo, che vengono gestite insieme alle autorità locali e forniscono ai due paesi rispettivamente il 20 e il 60% dell’energia. Solo l’ulteriore consolidamento di questa strategia, ribadita dalle recenti iniziative sia negli Stati Uniti che in Italia, potrà offrire all’Africa quel futuro di pace e prosperità che ognuno di noi auspica”.

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Sulo stesso tema, la nota scritta nel 2013 da Massimo Preziuso: Un’area di libero scambio UE-USA per lo sviluppo sostenibile mondiale e per la nascita degli Stati Uniti d’Europa

 

 

 

 

 

Speranza: «Il governo deve ripartire dal Sud più spesa e investimenti pubblici»

Intervista a Roberto Speranza di Nando Santonastaso – Il Mattino

Forse davvero la politica si sta accorgendo  del baratro in cui è finito il  Mezzogiorno. Perché dopo le devastanti  anticipazioni del rapporto  Svimez 2014 e la costituzione  dell`intergruppo Mezzogiorno, trasversale  alle forze parlamentari, è il  capogruppo Pd alla Camera Roberto  Speranza – che del nuovo organismo  fa parte – a provare a svegliare  il Palazzo. «Sono rimasto sconcertato  dal silenzio, dall`assenza di dibattito  e di confronto che ha accompagnato  i dati Svimez, contrariamente  a quanto di solito accade in politica  su temi magari anche meno importanti»,  dice Speranza, meridionale  di Potenza.

Silenzio da rassegnazione?

«Non lo so. Mi preoccuperei se si  fosse trattato di indifferenza. Ero  anch`io alla Camera alla  presentazione dei primi dati del  nuovo rapporto Svimez, in qualità  di capogruppo del Pd. E di fronte  alla gravità della situazione mi  sarei aspettato ben altre reazioni.  Sono anni ormai che ci  continuano a piovere addosso  statistiche e rapporti che  documentano quanto sta  accadendo nel Sud: ma non vedo  un dibattito consapevole di tutto  ciò».

Ma non tocca alla politica  assumere questa  responsabilità?  E non è proprio  il partito di  maggioranza  relativa a  doversene fare  carico più degli  altri?

«Intanto prima  ancora della  politica, che ha  certamente le sue  responsabilità,  mi pare che siamo di fronte a una  sorta di impotenza dell`opinione  pubblica, di indifferenza come  dicevo prima. Che è purtroppo un   elemento di novità rispetto al  passato. Perché di fronte a certi  dati è incredibile che non si apra  un dibattito nazionale sul  Mezzogiorno. Oltre tutto i dati del  Pil del secondo trimestre, con un  calo superiore al previsto,  impongono questa scelta: ma se  un Paese non riparte da un`area  che ha perso il 3,5% di Pil in un solo  anno, di cosa discutiamo?».

Già, ma ne è consapevole anche il  governo?

«L`ultima cosa che possiamo fare  su questo tema è dividerci tra di  noi. Io so, ne abbiamo parlato  spesso con Renzi, che il governo è  consapevole di questa situazione.  Io ho un`idea e penso che su di  essa si possa ragionare in termini  concreti. Penso cioè che se non c`è  un`inversione di tendenza rispetto  alla politica del rigore dell`Unione  europea, l`Italia rischia di non  uscirne viva e il Mezzogiorno di  non accorciare più il divario con il  centronord».

Per cui, cosa bisognerebbe fare a  suo giudizio?

«La battaglia del governo in  Europa perché siano superati in  vincoli del 3% del Patto di stabilità  abbia come obiettivo il  Mezzogiorno. Perché è in  quest`area che i danni prodotti da  una regola assurda si fanno sentire  in maniera drammaticamente  elevata. Ed è qui, di conseguenza,  che il cambio di passo avrebbe  risultati decisivi per la  crescita del Paese».

Si spieghi meglio: perché  abbattere il muro del 3%  favorirebbe un ritorno  economicamente  significativo al  Mezzogiorno?

«Perché svincolare gli  investimenti pubblici e  privati da quella soglia  significherebbe rimettere  in moto il Sud nei cui  confronti la spesa in conto  capitale, che è decisiva per le sorti  di un territorio, ha subìto un calo  incredibile. Lo ha rilevato proprio  la Svimez. I tagli agli investimenti   in infrastrutture, ad esempio: se  nel centronord si sono mantenuti i  livelli di spesa per opere pubbliche  di 40 anni fa, al Sud oggi si spende  un quinto di quanto si faceva negli  anni `70».

Sta dicendo insomma che se il  Paese non ripartirà veramente  dal Sud non riuscirà ad  agganciare la ripresa, se ci sarà,  del prossimo anno?

«Certo, ma questo – sia chiaro – non  vuol dire rimettere in  discussione la spending review o  gli impegni internazionali del  Paese. La battaglia che credo  andrà fatta dal governo è per  liberare gli investimenti, non per  altri obiettivi. Abbattere il tetto del  3% e rilanciare il Sud al pari degli  interventi per le scuole e contro la  povertà mi sembrano le priorità  assolute in questa fase. Un Paese  che ha appena dimostrato di  potere e sapere fare riforme  complesse, come quella del  Senato, può e deve ottenere  altrettanta disponibilità  dall`Europa».

Pensa che anche il suo partito  oltre che il governo condividerà  questa scelta?

«Io non ho dubbi anche perché è  arrivato il momento di mettere fine  alla vulgata secondo cui il Sud  avrebbe beneficiato di maggiori  investimenti pubblici. I dati  dimostrano esattamente il  contrario: sul fronte degli  investimenti delle imprese  pubbliche nazionali, cito ancora la  Svimez, al Sud nel 2012 sono  crollati de112,8% rispetto all`anno  precedente mentre al centronord  nello stesso periodo sono saliti del  2,9%».

Eppure la sensazione è che si  rinunci a investire nel Sud  perché in fondo non ne  varrebbe più la pena…

«Io penso che al netto di  chi racconta di un Sud  sommerso di risorse  pubbliche, esista al  contrario una realtà nella  quale i limiti della spesa  emergono in maniera  chiara. Ecco perché un piano di investimenti per il  Mezzogiorno che possa  liberarsi dal vincolo del 3%  può e dev`essere la strada da  percorrere».

Dopo due trimestri negativi, il Pil  meridionale sarà anche nel 2014  con il segno meno. E la Svimez è  pessimista pure nel 2015: non  sarebbe il caso di interventi-choc  per rilanciare questa parte del  Paese?

«Intanto mettiamo al centro della  crescita il Sud perchè la via dello  sviluppo non può che ripartire da  qui dove sono concentrate la  maggiore disoccupazione  giovanile del Paese e la quota più  bassa di occupazione femminile.  Anche per questo la questione  meridionale o come la si vuole  definire è una questione  nazionale. Le scelte per il Sud non  potranno che influenzare  positivamente tutto il Paese. Non  so se occorrerà un intervento choc:  di sicuro il governo ha già  imboccato la strada di assicurare al  Mezzogiorno un sostegno  prioritario nelle sue ultime  misure».

A cosa si riferisce?

«Al pacchetto approvato il 22 luglio  dal consiglio dei ministri che  destina alle regioni meridionali  l`80% di oltre un miliardo e 400  milioni stanziati per la crescita  attraverso i contratti di sviluppo.  Non è un segnale come altri  considerate le potenzialità  espansive del territorio  meridionale e ovviamente anche i  suoi enormi ritardi. Naturalmente  questo non può far dimenticare  che occorrono investimenti forti in  infrastrutture, turismo, reti  immateriali, logistica: e che  servono anche investimenti  privati».

Non abbiamo  parlato finora di  fondi europei,  spesso ritenuti  l`unica  medicina per  guarire  l`ammalato Sud:  è un caso?

«I fondi europei  sono importanti  a condizione che  siano spesi bene.  I ritardi del Sud  in questo specifico settore sono  evidenti: per questo credo che sia  giusta la decisione del governo di  monitorare attraverso l`Agenzia  per la Coesione il loro utilizzo».

Intanto però il governo ha  rinunciato al ministro per la  Coesione: lei ha condiviso questa  decisione?

«Ne ho preso atto e ho fiducia che il  lavoro del sottosegretario  Graziano Delrio sia proficuo e  all`altezza della sfida. Di sicuro sul  terreno dei fondi europei l`Italia si  gioca una partita decisiva. Noi  dobbiamo avere una visione  strategica convinta: perché sfidare  l`Ue sulla soglia del 3% per  investire al Sud vuol dire  naturalmente assumersi come  Paese la responsabilità di  spendere bene le risorse  comunitarie».

Lettera aperta al Presidente del Consiglio Matteo Renzi “Affinché Napoli possa riprendere la via dello sviluppo”, in occasione della sua visita a Napoli il 14 agosto 2014.

La lettera, il cui testo è stato consegnato al Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Graziano Delrio nel corso di un incontro tenutosi venerdì 8 agosto a Palazzo Chigi e che sarà data a Matteo Renzi con le firme definitive il 14 agosto, è stata finora sottoscritta da oltre 160 personalità e da più di una ventina di enti e associazioni. Le firme si raccolgono ancora sulla pagina Facebook di “Noi per Napoli” (https://www.facebook.com/noiper.napoli/about) e alla mail noipernapoli1@gmail.com
napoli
Affinché Napoli possa riprendere la via dello sviluppo Napoli, con la sua area metropolitana, vive una delle stagioni più difficili della sua storia. I cornicioni di palazzi storici che si sbriciolano sotto il peso della mancata manutenzione appaiono la metafora di una città che rischia un irreversibile declino. Un declino che viene da lontano per un’area che negli anni ’70 rappresentava la terza zona industriale del Paese. Napoli ha perso, in poco più di un quarto di secolo, oltre il 20% della sua popolazione e, se l’emorragia demografica non si arresterà, quella che è stata capitale di un Regno europeo e la più grande città italiana fino agli anni ’30 del secolo scorso, diventerà presto una media città del Paese. La popolazione invecchia e i giovani, soprattutto quelli più scolarizzati, l’abbandonano. La città conta un alto tasso di disoccupati e un basso indice di occupati. Nelle classifiche che rilevano la qualità della vita, Napoli è stabilmente agli ultimi posti. La stessa analisi può essere estesa all’area napoletana che si accinge a diventare Città Metropolitana. Dinanzi alla crisi che ha reso evidente l’insufficienza delle politiche locali si impone per Napoli una svolta: i problemi seri e profondi della città non si affrontano con scelte di corto respiro, ma andando  oltre il giorno per giorno e in un orizzonte di medio lungo periodo. Se il Porto, la più grande infrastruttura urbana, il Teatro San Carlo, la più  prestigiosa istituzione culturale, e altri enti tra città e regione sono stati commissariati, una ragione c’è. Se anche per Bagnoli, dopo disastri e fallimenti di una vicenda che si trascina da anni, si propone un intervento deciso delle istituzioni nazionali è perché la politica e le amministrazioni locali non sono state in grado di affrontare adeguatamente i nodi decisivi. La strada da percorrere deve essere chiara nella meta e certa nei tempi. Attraverso l’intervento del Governo è possibile rimuovere ostacoli e inefficienze, definire nuovi strumenti e obiettivi, chiamare le forze produttive e sociali, le competenze, le istituzioni locali, a perseguire soluzioni nette e definite, ridando una prospettiva di futuro a Napoli. C’è bisogno di un nuovo e più virtuoso rapporto tra Stato, istituzioni locali e classi dirigenti espressione della città e del territorio, sulla base di una rispettiva assunzione di responsabilità. Napoli non chiede privilegi, né indulge a un rivendicazionismo deteriore, spesso brandito dalle classi dirigenti come alibi per il loro fallimento, ma a lungo assecondato per convenienze di parte anche dai Governi nazionali. Ciò che si richiede è un impegno costante e una strategia del Governo nazionale finalizzata a orientare efficacemente le classi dirigenti napoletane a innovare nei loro comportamenti. A differenza che nel passato, esse devono essere incoraggiate, con misure di promozione ma anche con sanzioni – eventualmente attraverso l’esercizio di poteri sostitutivi – monitorando le loro azioni e verificandone i risultati, a valorizzare quelle risorse di cui dispone la Città metropolitana di Napoli e che sono gravemente sottoutilizzate: il patrimonio culturale, storico, paesaggistico  e ambientale da Cuma a Pompei, le conoscenze scientifiche radicate nelle Università e nei centri di ricerca, un’antica tradizione manifatturiera e artigianale. L’uso efficace di questo patrimonio non solo segnerebbe una svolta per Napoli e per l’intero Mezzogiorno, ma rafforzerebbe la proiezione euro-mediterranea dell’intero sistema-Paese. Invitiamo il Presidente del Consiglio a vigilare e operare in alcune direzioni. • Per adottare misure coraggiose che consentano alla Città metropolitana di attrarre investimenti dall’interno e dall’estero e promuovere imprenditorialità: valuti il Governo – previo un concludente negoziato con la UE – la realizzazione nella Città metropolitana di Napoli e, possibilmente, nell’intero Mezzogiorno di una “No Tax Area” a tempo determinato, riservandola a investimenti che garantiscano innovazione tecnologica, competitività e occupazione (contro la sospensione degli attuali  sussidi alle imprese, che superano significativamente il gettito IRES al Sud). • Per realizzare a Bagnoli una chiara distinzione dei ruoli, in un disegno sinergico e collettivo: il Governo – con specifici strumenti attuativi e con il coinvolgimento delle competenze scientifiche e delle comunità locali – sovraintenda alla bonifica dei suoli e del mare; il Comune predisponga piani urbanistici realistici e sostenibili in tempi ravvicinati; le forze economiche e imprenditoriali, a livello locale e internazionale, siano incoraggiate con strumenti nuovi a portare avanti la riconversione produttiva dell’area. • Per affrontare tempestivamente e sistematicamente l’emergenza ambientale della “Terra dei Fuochi”, che vorremo chiamare nuova e accogliente “Terra Produttiva e di Lavoro”:accelerando  e integrando – con le necessarie risorse – gli interventi per l’individuazione e la bonifica delle aree contaminate tra Napoli e Caserta, al fine di assicurare la prevenzione della salute pubblica e la salvaguardia della filiera agroalimentare. • Per favorire la rivitalizzazione del Centro Storico di Napoli: il progetto finanziato con i fondi europei registra preoccupanti ritardi, con il conseguente rischio della perdita delle risorse stanziate, cosa che va scongiurata; vanno, inoltre, avviate politiche di manutenzione del patrimonio edilizio e di rigenerazione urbana, rilanciando le “buone pratiche” già sperimentate con il Progetto “Sirena”.
• Per consentire il rilancio di un programma volto al risanamento delleperiferie urbane:a partire da  Scampia e dalla riconversione delle aree dismesse, anche con moderni modelli di partenariato pubblico-privato come “Naplest”, con l’obiettivo della piena integrazione di questi territori nella Città metropolitana; attraverso l’adozione di politiche sociali che rafforzino la qualità dell’istruzione e della formazione professionale, favorendo  l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. • Per rilanciare il Porto di Napoli: Il Governo intervenga per far andare avanti il programma di modernizzazione, giungendo alla nomina del Presidente dell’Autorità portuale commissariata da anni e garantendo che l’incarico sia affidato a personalità dalla indiscussa esperienza e competenza manageriale. Una prospettiva di ripresa economica, culturale e civile di Napoli potrà fondarsi sul sostegno dei settori della società napoletana che esprimono un modo moderno di vivere e di operare: le associazioni di volontariato e di resistenza contro la criminalità; le forze imprenditoriali che hanno reciso i legami con un vecchio modello economico assistenziale e clientelare; le Università, i Centri di ricerca pubblici e privati che, nonostante le difficoltà del contesto, hanno sperimentato e diffuso innovazione; i gruppi e le fondazioni civiche, un nuovo movimento sindacale unitario che si batta per i diritti dei lavoratori e dei giovani, contro chiusure corporative, sprechi e assistenzialismo. Sono queste le forze che possono aiutare Napoli a partecipare da protagonista alla stagione di cambiamento che sta investendo il Paese. Su un punto vogliamo tuttavia insistere: la battaglia per Napoli può essere condotta solo da una politica orientata all’interesse generale e liberata da chi tenta di farne un luogo di privilegi; da una classe dirigente che dimostri di saper utilizzare produttivamente fino all’ultimo centesimo le risorse disponibili, che affermi i principi di legalità e di trasparenza nell’amministrazione della cosa pubblica;insomma, da una politica che si dimostri all’altezza della gravità dei problemi che affliggono la città e sia in grado di restituirle una speranza e una prospettiva di sviluppo moderno. Confidiamo che il Governo nazionale sia consapevole che il destino della metropoli napoletana è intrecciato indissolubilmente con quello dell’intero Paese per i prossimi decenni e costituisce, al contempo, un elemento fondamentale per il superamento della stessa “crisi italiana”.
I sottoscrittori: Gerardo Marotta, Aldo Masullo, Luigi Nicolais, Massimo Marrelli, Francesco Rossi, Lida Viganoni, Lucio D’Alessandro, Gaetano Manfredi, Elda Morlicchio, Maurizio De Giovanni, Ernesto Albanese, Cesare de Seta, Adriano Giannola, Mario Mustilli, Piero Craveri, Emma Giammattei, Paolo Scudieri, Marco Zigon, Luigi Labruna, Renata De Lorenzo, Massimo Villone, Pina Amarelli Mengano, Aldo Trione, Costanzo Jannotti Pecci, Patrizia Boldoni, Mariano D’Antonio, Dario Scalella, Giuseppe De Natale, Domenico Ciruzzi, Alberto Irace, Amedeo Di Maio, Luigi Fusco Girard, Massimo Pica Ciamarra, Lucio Potito, Attilio Belli, Riccardo Realfonzo, Giuseppe Maggi, Luigi Necco, Antonio Mattone, Alfonso Ruffo, Adriano Rossi, Marinella De Nigris, Francesco Saverio Lauro, Rosario Sommella, Antonio Lopes, Andrea Pierucci, Patrizia Ranzo, Massimo Rosi, Clelia Buccico, Franco Garofalo, Emilio Alfano, Antonio Scuotto, Giuseppe Baratto, Mauro Maldonato, Marcella Marmo, Sergio Cappelli, Gabriella Corona, Mario Di Costanzo, Franco Amarelli, Alfredo Mazzei, Alberto Pinto, Sergio Fedele, Giuseppe Oliviero, Elio Pariota, Gennaro Moccia, Alessandro Castagnaro, Fabio Pignatelli, Pasquale Persico, Paola De Vivo, Matteo Pizzigallo, Gabriella Cundari, Sergio D’Angelo, Francesco Domenico Moccia, Ennio Forte, Costantino Formica, Franco Ortolani, Benedetto De Vivo Renato Passaro, Rosita Marchesi, Antonio Napoli, Achille Flora, Michelangelo Russo, Francesco Pastore, Marco Santillo, Raffaele Sibilio, Giovanni Battista de’ Medici, Francesco Castagna, Raffaele Crispino, Mario Bartiromo, Benedetto Migliore, Paolo Strolin, Valerio Petrarca, Alessandra Testai, Marcello Caronte, Umberto De Martinis, Guido Donatone, Manuela Siano, Gerardo Mazziotti, Lucio Giacomardo, Eugenio Corti, Anna Rea, Nando Morra, Giulio Pane, Riccardo Rosi, Michele Viscardi, Giulia Velotti, Giovanni Grieco, Carlo Iannello, Marco Valenzi, Nicola Stabile, Bernardino Stangherlin, Stefano Frascani, Nunzio Nunziato, Alessandro Cillo, Alessandra Libonati, Luigifranco Zoena, Antonella Malinconico, Massimo Caronte, Mauro Catalani, Massimo Bracale, Antonio Tosi, Susie Romano, Maurizio Guglielmini, Vincenza Esposito, Stefano Lepore, Claudio D’Aquino, Bruno Esposito, Carmine Scafa, Ernesto Mostardi, Francesco Saverio Chioccarelli, Fabrizio Gritti, Andrea Pomella, Luigi Esposito, Piero Teo, Luigi Maria D’Angiolella, Francesco Violi, Sergio Cotecchia, Teresa Leone, Ezio Aliperti, Gianluca Albano, Rossana Lizzi, Federico D’Aniello, Gennaro Ascione, Giuseppe Salvati, Maurizio Duca, Mauro Di Stasio, Sergio Longhi, Claudio Agrelli, Vincenzo De Blasio, Franco Musto, Domenico Longo, Bruno Del Giudice, Roberto Braibanti, Titti Cimmino, Maria Consiglia Izzo, Ida Santangelo
Gli enti e le associazioni: Istituto per gli Studi Filosofici, Fondazione “Mezzogiorno Europa”, Noi per Napoli, Confapi Campania, Napoli Open Innovation, Fondazione per la Bioarchitettura e l’Antropizzazione Sostenibile dell’Ambiente, Innovatori Europei Napoli, Città di Partenope, Napolipuntoacapo – Associazione di idee per il rilancio della città, Progetto Napoli, Assoutenti Napoli, Cittadinanza Attiva in Difesa di Napoli, AIPA (Associazione Imprenditori Piccole Aziende di Partenope), Comitato Civico Posillipo, Comitato Civico Portosalvo, Comitato Civico Carlo III, Comitato “Salviamo Bagnoli”, Comitato “Insieme per i Ponti Rossi – Tiziana Amato”, Associazione Foris Cryptae, Associazione Telefono Blu, “NAME” Associazione per le Trasformazioni di Napoli Città Metropolitana.
I promotori di “Noi per Napoli”: Pasquale Belfiore, Luigi Bianco, Gennaro Biondi, Lilli De Felice, Bruno Discepolo, Paolo Frascani, Mariano Giustino, Gaetano La Nave, Amedeo Lepore, Marcello Martinez, Gianni Pinto, Umberto Ranieri, Nicola Tremante.Napoli, 14 agosto 2014

Alberto Forchielli: la Cina investe in Italia per rompere l’alleanza fra Europa e Usa

Intervista di Alberto Forchielli su Formiche.net

Alberto Forchielli: la Cina investe in Italia per rompere l'alleanza fra Europa e Usa
Eni, Enel, Snam, Terna, Telecom, Fca-Fiat. Gli investimenti cinesi in Italia si moltiplicano e dietro di essi c’è una precisa strategia di Pechino nei confronti del nostro Paese e dell’Europa.A crederlo e spiegarlo in una conversazione con Formiche.net è Alberto Forchielli, socio fondatore di Mandarin Capital Partners, il più grande fondo di private equity sino-europeo, e Osservatorio Asia, centro di ricerche non-profit.

Forchielli, che significato dare a questi investimenti? C’è una strategia pianificata?

Assolutamente sì. La banca centrale cinese, People’s Bank of China, ha in portafoglio partecipazioni di tutte le principali aziende del mondo. Tuttavia di solito adotta un basso profilo, tenendosi sempre al di sotto della soglia da dichiarare pubblicamente. In Italia invece, dove la soglia è il 2 percento, Pechino continua a fare investimenti che la superano di pochissimo: Fca (Fiat), Prysmian, Eni, Enel e Telecom. Ciò vuol dire che vuole farsi notare.

Perché e con quali obiettivi?

Meglio delle mie parole lo spiega una ricerca, pubblicata dall’istituto Pew lo scorso luglio, su come l’opinione pubblica di alcuni Paesi vede la Cina. È emerso che il 70% degli italiani vede di cattivo occhio Pechino. Una percentuale altissima, superiore a quella di tutti i Paesi occidentali. Il loro è un messaggio sia di amicizia, sia di potere. Nella loro testa gesti come questi, che comportano un investimento minimo, dovrebbero rendere la Cina più amata nel nostro Paese.

Da cosa deriva questo sentimento anti-cinese?

Le ragioni sono molteplici. Primo, tra i Paesi industrializzati l’Italia è uno dei più colpiti dalla competizione cinese. Secondo, le nostre pmi che sono andate in Cina senza protezione sono state letteralmente massacrate e depredate di risorse e know how. Terzo, truffe come Suntech in Puglia o vetrine permanenti degli orrori come Prato rappresentano immagini difficili da cancellare. E non è un caso che le prime partecipazioni dichiarate, quelle in Eni ed Enel, siano arrivate subito dopo la strage in un’azienda tessile della città toscana, dove persero la vita sette persone.

Ritiene che la Cina si stia orientando più sull’Europa e meno in Paesi più finanziarizzati come scrive oggi l’economista Francesco Daveri sul Corriere? O è solo una diversificazione di portafoglio?

Non c’è una scelta così selettiva, i cinesi comprano dove possono. E ora è più semplice farlo nei Paesi più in difficoltà come Italia, Spagna, Portogallo, Grecia. Le altre nazioni che possono evitarlo, come Francia e Germania, lo fanno. A nessuno piace far entrare in casa un ospite ingombrante come la Cina.

Formiche.net ha criticato la scelta geopolitica di vendere il 35 per cento di cdp Reti (dunque di terna e SNAM) a China State Grid. Che ne pensa?

Che dietro questo tipo di investimenti ci siano mire geopolitiche è fuor di dubbio. Pechino punta in modo deciso a spaccare l’alleanza tra Europa e Stati Uniti, anche per minare il trattato di libero scambio transatlantico, il Ttip, e influenzare i processi europei. Lo fa come può, dando ad ogni Paese ciò di cui ha necessità. In questo momento l’Italia aveva un bisogno disperato di liquidità e Pechino gliel’ha concessa. Detto ciò io ritengo che acquistare il 35 percento di una holding non quotata come Cdp Reti non ci esponga a grandi rischi nell’immediato. Sicuramente avranno pensato che i 2 miliardi che ci hanno speso equivalgano a una settimana di interessi passivi dell’Italia, quindi prima o poi ci toccherà vendere il resto. Ma io trovo molto più grave la loro entrata in società private che controllano i media, come Fca-Fiat con il Corriere della Sera. Anche la scelta di quegli investimenti fa parte di una strategia che mira a migliorare l’immagine cinese in Italia.

Ritiene che questo tipo di intervento sia propedeutico a un potenziale ingresso del colosso cinese anche nelle municipalizzate?

Non c’è un disegno preciso, ma la Cina è presente e laddove ci sarebbe la possibilità di investire lo farebbe, anche nelle municipalizzate. E di per sé, se si trattasse di casi singoli non ci sarebbe niente di male, ma quelle che erano eccezioni come detto si moltiplicano. E il messaggio sottinteso è: l’Italia è nostra.

 

Tempeste d’acqua e cambiamento climatico

di Francesco Grillo (su Il Messaggero)

Le tempeste d’acqua alternate a momenti di grande caldo sono, ormai, diventate il tormentone di quest’estate. E dopo anni di silenzio, sono tornate di moda le previsioni che, qualche tempo fa, circolavano sul cambiamento climatico come la più probabile delle catastrofi che la civiltà umana starebbe preparando a se stessa.

Ma cosa c’è di vero nella storia del riscaldamento globale? Quali sono le conseguenze per l’Italia, il Mediterraneo e l’Europa nei prossimi anni? È vero che le questioni ambientali e le emergenze economiche ci costringono ad una scelta? O è vero invece che è proprio adattandoci alla mutazione che possiamo ricominciare a crescere in maniera sostenibile? E cosa ci dice la vicenda del cambiamento climatico sulla capacità di una società complessa di concepire una strategia su questioni che hanno a che fare con spostamenti di risorse tra generazioni e regioni del mondo diverse?

Fu il New York Times, nel Dicembre del 2009, a decretare l’inizio della fine del cambiamento del clima come grande fenomeno mediatico. “Perché fa così freddo se tutti parlano di cambiamento climatico?”: fu così che aprì la sua prima pagina il quotidiano americano che commentava quel giorno uno dei nulla di fatto più clamorosi della storia della diplomazia. I capi di Stato di tutti i Paesi del mondo erano volati a Copenaghen per partecipare ad una conferenza della Nazioni Unite sul clima che si chiudeva senza alcun accordo. Nonostante l’enorme emissione di anidride carbonica rilasciata da migliaia di aerei che avevano portato all’incontro le delegazioni e nonostante le tempeste di neve che avevano bloccato negli alberghi i partecipanti ad un incontro convocato per evitare un disastroso innalzamento delle temperature.

In effetti, le previsioni degli scienziati che studiano per le Nazioni Unite i dati del clima non sono cambiate e non possono essere natali freddi come quello di Copenaghen nel 2009 o estati tropicali come quelle italiane nel 2014 a modificarne la sostanza: esiste una tendenza alla crescita della temperatura media della Terra che è creata dall’azione dell’uomo; tale aumento delle temperature produce non solo lo scongelamento dei ghiacciai e un innalzamento del livello dei mari che potrebbe mandare sott’acqua New York, Londra e Roma in pochi decenni; ma, soprattutto, una traslazione di aree climatiche tra zone diverse del mondo che porterà più bagnanti sul Mare del Nord, ma anche siccità nel Sud del mondo, un allargamento delle diseguaglianze, nuove ondate di povertà e migrazione.

Cosa ha sbagliato, allora, il mondo e l’Europa nella prima stagione del cambiamento climatico quella finita poco prima del Natale di cinque anni fa?

Non pochi sono stati gli scettici che hanno messo in dubbio la scientificità delle analisi del gruppo di lavoro costituito dalla Nazioni Unite per studiare il cambiamento climatico (IPCC). Ma di più ha pesato l’impotenza degli Stati che, per anni, hanno cercato di raggiungere un accordo su base planetaria senza mai sciogliere i nodi delle ragioni contrapposte: tra chi – i Paesi in via di sviluppo – chiede che a pagare il conto dell’adattamento al clima sia chi storicamente ha prodotto il problema; e chi – tra quelli sviluppati – vuole prevenire l’aumento ulteriore di emissioni che viene quasi tutto dall’Asia.

Il fallimento dei vertici sul clima rimane però la più nitida dimostrazione dell’incapacità del mondo di far corrispondere alla globalizzazione delle economie, una risposta politica altrettanto globale. Un fallimento spiegato da un paio di premesse sbagliate da un punto di vista cognitivo: e cioè la pretesa di voler risolvere i problemi attraverso la trattativa anche quando si tratta di non far affondare una barca sulla quale siamo tutti seduti; nonché quella di aver capito – male – che l’adattamento alla trasformazione sia un costo da distribuire, laddove può essere un’opportunità economica grande quanto può esserlo stata la “ricostruzione” delle nostre città in altri tempi. In questo caso prima che scoppi una guerra.

A questo proposito una proposta molto interessante per superare l’impasse, è stata pubblicata qualche settimana fa sul numero di Nature di Luglio: un docente della Bicocca di Milano, Marco Grasso, e il suo collega americano, Roberts, propongono di modificare l’intero approccio al negoziato sulle riduzioni di gas serra che ciascun governo deve garantire, partendo dal calcolo delle tonnellate prodotte a quelle consumate per Paese. La proposta avrebbe senz’altro l’effetto di spostare ulteriormente sull’Europa rispetto agli Stati Uniti e alla Cina l’iniziativa dell’adattamento e di rendere più facile superare le resistenze delle due superpotenze. Ma ancora più significativo sarebbe l’effetto in termini di riallocazione delle politiche ambientali da un terreno tradizionale nel quale i protagonisti sono le grandi fabbriche che producono ricchezza e gli Stati che ne regolano le attività, ad uno più moderno nel quale la responsabilità del cambiamento passa a chi vi è direttamente interessato: le famiglie che consumano e le comunità locali che ne possono condizionare i comportamenti attraverso le politiche sui rifiuti, sulla mobilità, sugli edifici.  In fin dei conti, l’idea è quella della disintermediazione di organizzazioni – gli Stati, appunto – che non sono più semplicemente capaci di governare una globalizzazione che li sta svuotando.

Qualche scivolone metodologico, tanti errori politici, ma il problema principale del cambiamento climatico nella stagione del tanto clamore per nulla fu di comunicazione: quello di aver usato – lo fece Al Gore con efficacia – la clava della meteorologia che è, di certo, uno degli argomenti che più interessano le persone a tutte le latitudini; per essere poi esposti all’effetto boomerang che regolarmente colpisce i previsori del tempo quando certe previsioni non si verificano con l’esattezza a cui sono abituati i consumatori di televisione e di fine settimana sotto l’ombrellone.

Non è la prima volta nella storia dell’uomo che dura da mezzo milione di anni che il clima cambia profondamente. Ma ciò che è davvero nuovo in questa sfida è che tale mutazione avviene nel giro di pochi decenni e si abbatte su una società che è – nonostante e forse proprio a causa del suo progresso tecnologico – più vulnerabile di quanto l’umanità non lo sia mai stata prima. Vulnerabile, soprattutto perché sembra aver smarrito la capacità – intellettuale ed etica – di astrarre. Anche solo di concepire questioni che richiedono trasferimenti di risorse intellettuali e finanziarie tra luoghi (regioni del mondo) e tempi (generazioni) diversi.

Il cambiamento climatico esiste, dunque. E i disastri che in questi giorni si stanno abbattendo ovunque, dalla provincia di Treviso al confine tra Nepal e Tibet, lo stanno riavvicinando alla coscienza delle persone. È un terreno questo sul quale l’Italia può e deve trovare – anche nei prossimi mesi di presidenza dell’Unione – la leadership che cerca. Perché è un Paese che nel clima, nonché nel turismo e nel cibo che vi sono direttamente associati, trova uno dei suoi pochi vantaggi competitivi; perché da un deterioramento del clima altrui ed, in particolar modo di quello dei Paesi del Nord Africa, rischia di vedersi piovere addosso ulteriori bombe migratorie; ed, infine, perché l’Italia che inventò i comuni e l’umanesimo, e che mai riuscì ad essere davvero Stato nazione, può dare un contributo decisivo per governare una questione che richiede logiche completamente nuove.

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