Decreto “Sblocca Italia”: conferenza stampa di Marcello Pittella su Petrolio Lucano
Innovatori Europei e I Riformisti con Giuseppina Bonaviri nel frusinate
Innovatori Europei e I Riformisti con Giuseppina Bonaviri nel frusinate
Il Partito Democratico, primo partito riformatore italiano, non può fermarsi. Tanto più in una occasione irripetibile come quella delle prossime elezioni degli organi provinciali di area vasta frusinate non potendosi permettere di retrocedere ad accordi di vertice o a vecchi schemi di gestione del territorio.
Come Innovatori Europei e I Riformisti crediamo da sempre che il cambiamento responsabile post ideologico è possibile e sosteniamo che passi da persone nuove, integerrime e rappresentative a partire dalle periferie e dai programmi condivisi sull’eccellenza.
Sulla nomina di un “commissario garante e terzo” per la Federazione del Pd locale in Ciociaria – come da richiesta ufficiale fatta al segretario regionale e alla commissione di garanzia – il tempo è maturo per dar vita a pratiche seriamente innovative e di discontinuità, corali.
Per questo proponiamo in qualità di commissario garante e terzo la innovatrice europea e riformista Giuseppina Bonaviri, che come donna, intellettuale indipendente, militante pubblica da anni con la sua determinazione, impegno e passione rappresenta pienamente le istanze di un territorio che necessita di veloce e vigoroso rilancio.
Giuseppina Bonaviri aderisce all’Associazione per il Partito democratico nel lontano 2006 per giungere alla costituente del Pd, con credo e sano entusiasmo. Viene eletta nella assemblea costituente regionale del Lazio ed entra nel direttivo provinciale del Pd. Si candida poi da indipendente nel 2010 alle elezioni regionali del Lazio e nel 2012 come Sindaco indipendente a Frosinone con il supporto di due liste civiche sostenendo, già da allora, col suo programma elettorale “Frosinone piccola Capitale” l’urgenza di costruire una macro area provinciale Smart internazionalizzata per accrescere l’identità locale.
Gli Innovatori Europei e I Riformisti credono che oggi più che mai i movimenti civici siano i veri depositari e tutori della pianificazione virtuosa del Partito Democratico. Da un decennio impegnati su questa linea, proseguiranno imperterriti.
Gregorio Gitti per I Riformisti – www.iriformisti.eu
Massimo Preziuso per gli Innovatori Europei: – www.innovatorieuropei.org
#TerzoMondo, #Innovazione e le occasioni mancate dall’Occidente
Di Francesco Grillo su Futuro Quotidiano
Come si stanno forse accorgendo i non pochi turisti italiani che decidono di trascorre le vacanze né in Italia e neppure a Formentera, c’è un fenomeno importante che sta succedendo nel Sud del pianeta: il terzo mondo sta scomparendo. O meglio, sta scomparendo la nozione di terzo mondo alla quale ci hanno abituato le immagini della televisione e la retorica dei concerti del Live Aid. Tuttavia, ciò non significa che i problemi in Africa, Asia, America del Sud siano finiti. Semmai se ne sta trasformando la natura e ciò richiede un profondo ripensamento dell’approccio che l’Occidente ha nei confronti della povertà globale. Dall’idea della “carità” si dovrebbe passare a quella della fornitura di tecnologie, esperienza, conoscenza degli errori che in Occidente hanno accompagnato l’industrializzazione del secolo scorso. In questo senso, lo sviluppo dei Paesi emergenti è un’opportunità di innovazione di portata storica, ma l’Europa ed in particolar modo l’Italia la stanno malamente perdendo.
Il terzo mondo sta sparendo
Che il terzo mondo stia sparendo, anche se ne resistono, in Africa soprattutto, larghe, dolorose rappresentazioni, lo dicono i numeri delle Nazioni Unite. Nel 1990 l’Onu si pose l’obiettivo del “millennio”: portare dal 50 al 25% la percentuale di individui nei paesi in via di sviluppo che vivono in condizioni di povertà estrema (meno di un dollaro al giorno) entro il 2015. Già nel 2010, con cinque anni di anticipo, quella percentuale risulta ridotta al 22% e – rispetto al 1990 – ciò significa che ci sono 700 milioni di diseredati assoluti in meno. Progressi simili sono stati fatti sul fronte del numero di persone che risultano denutrite, lontane dalla più vicina fonte d’acqua, di bambini che muoiono prematuramente o che non frequentano la scuola elementare; persino in Africa il numero delle persone esposte alla fame si è ridotta da un terzo ad un quarto della popolazione, questo significa aver strappato alla carestia quasi cento milioni di individui; nel frattempo centinaia di milioni di persone – in Cina, in India, Nigeria e Sud Africa – sono diventati classe media.
Le distanze si accorciano
Basta essere abituati a viaggiare nei luoghi che sono tra le prime destinazioni degli italiani dell’Italia in crisi – Indonesia, Tanzania, Nepal, Vietnam, Marocco – per accorgersi che (anno dopo anno) le distanze tra loro e noi si stanno accorciando: diminuiscono le destinazioni per le quali sono richieste vaccinazioni obbligatorie; è aumentata di molto l’igiene dei cibi (anche se molte delle megalopoli rimangono senza un vero e proprio servizio di smaltimento dei rifiuti); sempre di più sono quelli che possono avventurarsi senza viaggi organizzati. Del resto, mentre negli ultimi vent’anni un Paese come l’Italia è rimasto praticamente fermo, il resto del mondo (soprattutto quello “emergente”) ha conosciuto il più straordinario periodo di crescita della storia. Ed a strappare centinaia di milioni di persone dalla fame sono state non i concerti degli U2 – pur necessari e bellissimi – o le adozioni a distanza o la macchina delle agenzie delle Nazioni Unite, ma la forza potente della globalizzazione del commercio mondiale che è tanto invisa alla sinistra europea.
Ma i problemi per il Sud del mondo non sono finiti. Se ne è trasformata la natura.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità la differenza in termini di speranza di vita media in un Paese come il Nepal (60 anni) rispetto ad uno come l’Italia (80) è per due terzi dovuta, ormai, all’inquinamento. Ne uccidono più le emissioni, quelle tradizionali di catrame o polvere sottili ancora più delle emissioni di anidride carbonica, che la carestia. Del resto, in Cina la primissima causa di insoddisfazione della popolazione nei confronti del Governo non è la povertà delle regioni rurali – spesso brutalmente repressa dalla polizia – ma il pessimo stato dell’aria e dell’acqua nelle megalopoli che rischia di far saltare la pace sociale. Ancora una volta, basta provare a percorrere i leggendari trecento chilometri che separano Kathmandu dall’ Annapurna per accorgersi che i Paesi emergenti stanno emergendo usando, semplicemente, le stesse traiettorie di sviluppo che hanno utilizzato l’Europa e l’America cinquanta anni fa. Le strade preferite alle ferrovie. Automobili, camion e affollatissimi bus che lasciano sinistre nuvole di smog nero e che in Europa da decenni non possono più circolare. Con danni enormi ad un patrimonio naturale che dovrebbe essere una delle grandi risorse di questi Paesi e, soprattutto, ai bambini che sono particolarmente esposti agli scarichi.
Opportunità di innovazione perse
Eppure, sarebbe bastato poco. Sarebbe bastato avvertire, consigliare i cinesi, ad esempio, sui pericoli di uno sviluppo tutto basato sul carbon fossile (per la verità in Cina hanno fatto anche investimenti poderosi sulle metropolitane e sull’alta velocità, ma ciò non ha impedito che la rapidità della diffusione delle automobili producesse un enorme ingorgo). Sarebbe stato sufficiente provare a costruire insieme una vera e propria industria automobilistica elettrica che sfruttando i grandi numeri e le economie di scala avrebbe potuto superare gli svantaggi di costo che l’elettrico ancora ha nei confronti del motore a scoppio. Nei paesi emergenti poteva essere reinventato il modello stesso di burocrazia, sfruttando le minori resistenze che gli apparati consolidati pongono ed il fatto che almeno in termini di diffusione di telefoni cellulari non c’è più alcun divario. Invece lo sviluppo sta seguendo in Asia processi simili a quelli che ha avuto in Europa con enormi danni ambientali e opportunità di innovazione che stiamo perdendo tutti (del resto i veicoli che circolano in Asia sono solo in piccolissima parte europei).
È mancata in questi anni, quasi completamente, una strategia. Ci sono stati migliaia di miliardi di investimenti ma siamo andati avanti come se i problemi dello sviluppo fossero ancora quelli di quindici anni fa. Abbiamo perso – soprattutto come Europa – un’occasione per essere utili agli altri e a noi stessi. Perché certe innovazioni potevano tornarci utili per trasformare anche il modo in cui noi concepiamo e organizziamo mobilità, sanità, educazione.
Francesco Grillo
Conoscenza e democrazia al tempo della loro riproducibilità tecnica
Forum di elaborazione per una SummerSchool di Filosofia della rete
Comitato scientifico – Direttore: Michele Mezza – Componenti: Gianluigi Ferrari, Giulio Giorello, Cesare Massarenti, Carmelo Meazza, Giovanni Lanzone.
Edizione 2014
Social Know: Conoscenza e democrazia al tempo della loro riproducibilità tecnica.
Matrici filosofiche e opzioni sociali della società a condivisa
In onore e memoria di Elio Matassi fondatore della summer school di filosofia di Castelsardo
Cordinamento del programma di Michele Mezza
Premesse: Il corso 2014 di filosofia delle relazioni digitali si occupa quest’anno dei riflessi e delle ragioni dei nuovi processi di produzione sociale della conoscenza nel suo rapporto con la democrazia, attraverso l’azione dei nuovi dispositivi di socialnetwork. In particolare si prende in esame,l nel groviglio sapere-consenso, la parabola del soggetto intellettuale, della figura del mediatore del pensiero, che sempre più si dissolve in un gioco di nuove interfacce della comunicazione. La riflessione affronterà il tema che attraverso le prima riflessioni rinascimentali, arrivano alla sistematizzazione di Hanna Arendt per essere poi rilette da Manuel Castells nella sua trilogia sulla Società in rete. Un passaggio a cui contribuì con grande lucidità il professor Elio Matassi, scomparso lo scorso anno, con il quale fu pensata quest’iniziativa. In questo itinerario, alla luce di una ricostruzione della mappa concettuale della relazione sapere-consenso, assumono particolare rilievo sia la fase della messa a fuoco del ruolo autonomo del pensiero umano (in particolare Giordano Bruno, Machiavelli, Galileo), sia l’evoluzione dei concetti di controllo dei beni umani, come lo stesso sapere, che discende dalla rivoluzione inglese di Cromwell. Con l’esplicito richiamo, contenuto nel tema guida del nostro corso, direttamente al libro di Walter Benjamin, si vuole riprendere l’ispirazione di una stagione del pensiero critico forse troppo frettolosamente archiviata, e che oggi, la nuova complessità del logos partecipativo, ripropone come ineludibile per una organica riflessione sul rapporto pensiero-democrazia-potere. Si propone così di affrontare il tema di un pensiero forte della politica rispetto all’innovazione. Di una politica che si doti di forme e categorie culturali e di strumenti di organizzazione e azione adeguati al nuovo mondo delle moltitudini interattive. Il motore di questa irruzione della realtà socio- economica nel campo politico,sia nella versione di una finanziarizzazione passivizzante, sia in quella di una pretesa di esposizione permanente della decisione politica al controllo dei rappresentati, è oggi la rete. Più direttamente, la mobilitazione sociale dei mediati rispetto ai mediatori. Come scriveva lo stesso Benjamin nella sua seconda versione del saggio L’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnologica, la prima delle due in tedesco “la distinzione fra autore e pubblico e sul punto di perdere il suo carattere fondamentale… il lettore è ognora pronto a divenire uno scrittore… la competenza letteraria non si fonda più sulla fondazione specializzata,ma su quella politecnica, e diviene così bene comune”(W.Benjamin, Berlino,1936). Una vison di straordinaria lucidità, abbandonata da una politica che si era trincerata nell’icona identitaria dell’ideologia della fabbrica .E ignorata da una nomenklatura culturale che guardava allora e guarda oggi solo al proprio protagonismo per misurarsi con le avvisaglie dei propri rottamatori. Oggi questa previsione torna attraverso le soluzioni del networking collaborativo,come i grandi marchi della rete impongono e come le nuove soluzioni di algoritmi italiani confermano.
Si afferma così la necessità di contaminare politica e scienza,cultura e tecnologia, linguaggi e algoritmi, per decifrare i nuovi processi di elaborazione ,implementazione e interrattività dell’informazione e della formazione che, proprio con la loro dinamica partecipativa,stanno riconfigurando le categoria di base del sapere e delle relazioni sociali. Il nodo teorico da dipanare, per ridare cittadinanza attiva nella rete ad una democrazia politica che appare sempre meno legittimata, riguarda il conflitto, ossia le forme e i contenuti di una negoziazione sociale dei processi tecnologici . Una negoziazione che ritroviamo proprio nelle matrici del pensiero digitali che rintracciamo nell’umanesimo rinascimentale tutto italiano:da Pico della Mirandola, a Giordano bruno, a Niccolò Machiavelli.
La struttura Il Forum si articola per sessioni didattiche interattive, dove alle lezioni frontali dei singoli docenti seguono meeting interattivi in cui relatori e platea discutono confrontano criticamente i contenuti delle lezioni. Ogni sessione vedrà in mattinata due docenti proporre un tema convergente al concept del forum. Nel pomeriggio sotto le provocazioni del conduttore,in una forma di talk show, si affronteranno i vari aspetti delle lezioni intrecciando e contaminando ogni singolo contenuto. In sostanza, ogni sessione si costituisce come autore collettivo che prende spunto dal paper inizale per scrivere e comporre un nuovo catalogo concettuale attorno al tema indicato. Insieme alle lezioni e ai forum critici al centro della discussione un oggetto concreto della Rete: Il Caso Quag, la condivisione come algoritmo italiano. La realtà di una realizzazione digitale, come appunto la comunity italiana di Quag viene presentata e analizzata alla luce di quanto emergerà del dibattito didattico.
Programma
Lunedì 8 settembre ore 16 – Introduzione: Michele Mezza presenta temi e metodi del progetto. Il Ricordo del contributo di Elio Matassi ore 17: carrellata con i relatori sul format didattico: un forum come lezione ore 18: il caso Quag: presentazione e analisi della comunity italiana della condivisione dei saperi.
Martedì 9 settembre ore 10 – lezione del professor Cesare Massarenti La condivisione come motore e linguaggio della rete fra continuismo e rottura culturale Ore 11 – lezione professor Carmelo Meazza Il nuovo leviatano della potenza di calcolo: soggetti, valori e sovranità nel negoziato sociale con il dominio del calcolo. Ore 12 – lezione del professor Giulio Giorello Elementi per una geografia storica dei nuovi conflitti di soggettività. Da Bruno e Machiavelli alla rivoluzione inglese di Milton e Cronwell i fondamenti delle forme di proprietà e condivisione dei saperi a rete.
Ore 15,30 – Forum analitico con i docenti della mattinata i discussants: Gianluigi Ferrari, Giulio Giorello, Giovanni Lanzone, Gianluca Lisa e Luca Giorgelli coordina Michele Mezza
Mercoledì 10 settembre ore 10 – lezione del professor Gianluigi Ferrari L’algoritmo come oggetto contendibile: la collaborazione dei saperi come nuovo motore produttivo. Ore 11.30 – Lezione del professor Giovanni Lanzone La bellezza come linguaggio e conseguenza della condivisione. Il caso Italiano.
Ore 15,30 – Forum critico sulla sessione didattica del mattino. Insieme ai due decenti della giornata partecipano: Carmelo Meazza, Cesare Massarenti, Giovanni Lanzone
Conclusione: Castelsardo
Workshop multimediale: Condivisione e competizione nell’economia della conoscienza. Il Caso Italiano. Con : Giulio Giorello, Gianluigi Ferrari, Giovanni Lanzone, Carmelo Meazza, Cesare Massarenti, Gianluca Lisa, Luca Giorgelli e Stas’ Gawronski.
Conduce Michele Mezza
Iscrizioni e Costi Tutti gli appuntamenti sono aperti al pubblico, sono liberi e gratuiti. È possibile iscriversi inviando una mail all’indirizzo info@inschibboleth.org indicando nella mail: nome e cognome, luogo e data di nascita. Questi dati saranno utili per il rilascio degli attestati.
Logistica La segreteria organizzativa può provvedere a alla sistemazione dei partecipanti presso alberghi o B&B convenzionati. Per informazioni circa disponibilità e costi scrivere a info@inschibboleth.org
Attestati e riconoscimenti Gli organizzatori rilasceranno un attestato di partecipazione.
– le ore di partecipazione sono riconosciute come valide ai fini della formazione docenti, in quanto l’attività è organizzata dalla società filosofica italiana (Si veda la Comunicazione ufficiale del MIUR, 2 settembre 2002, prot. Prot. n. 3627/c/3).
– Le ore di partecipazione sono inoltre valide ai fini del tirocinio teorico per gli studenti di filosofia del Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione dell’Università degli Studi di Sassari.
Il Forum è organizzato da Comune di Castelsardo, Associazione culturale Inschibboleth e Sezione universitaria di Sassari della Società Filosofica Italiana, in collaborazione con Università degli Studi di Sassari, Dipartimento di Storia Scienze dell’uomo e della formazione, Centro ricerche filosofiche letterarie scienze umane di Sassari, Associazione turistica Proloco Castelsardo.
Scarica la locandina http://unisolainrete.it/2014/wp-content/uploads/2014/08/summer-school2014-ss_04.jpg
“Non solo fondi UE, al Sud serve un progetto”, la mia intervista per «Il Mattino»
Intervista di Gianni Pittella per «Il Mattino»
Onorevole, qual è il significato di questa nuova visita del premier a Napoli e nel Mezzogiorno?
«Ha innanzitutto un grande valore simbolico – spiega Gianni Pittella, capogruppo del Pse a Strasburgo – perché vuole significare l’importanza che ha il Sud per Renzi e per il Governo, ma anche per l’Europa intera. Il Mezzogiorno è un’area che può diventare strategica per la crescita e per la ripresa economica nel continente. Aggiungo: so che Renzi visiterà anche delle aziende d’eccellenza. E questo è un altro motivo di questa visita: il premier viene a sottolineare le virtuosità di cui il Sud è ricco, viene a dare un segnale di fiducia e di incoraggiamento peri tanti attori dello sviluppo che nel Mezzogiorno fanno per intero la loro parte, a dispetto di chi critica soltanto».
A suo giudizio cosa fa e cosa potrà realizzare il governo Renzi per il Sud?
«Il governo ha saputo preparare l’avvio della nuova programmazione dei fondi comunitari. La parola d’ordine è concentrazione delle risorse: per evitare ritardi e ulteriori perdite di fondi. D’altronde solo l’ottimizzazione delle risorse può impedire la dispersione in mille rivoli, tipo quella dei 500mila progetti della vecchia programmazione. Un esempio: puntare tanto sulle infrastrutture, sia quelle fisiche come i porti, come l’Alta velocità, come l’Alta capacità, ma anche quelle immateriali, come la banda larga».
Si riferisce all’Agenzia per la coesione?
«Anche. Perché è importante che il governo coinvolga le regioni ad un tavolo comune, perché finalmente si ragioni tutti insieme in una visione più complessiva e organica. Ecco, credo che sia questo il nuovo orizzonte: anziché fantasticare sulla macro -regione istituzionale credo sia più importante lavorare tutti insieme ad un grande progetto. Prendiamo ad esempio l’Alta velocità: che senso ha se ciascuna regione pensa esclusivamente alla sua piccola porzione? Eppure quella delle infrastrutture che consentano una maggiore accessibilità è una delle sfide più decisive per il Mezzogiorno, da affrontare e da superare».
Sempre e solo fondi Ue: onorevole, ma al Sud non serve anche altro?
«Concordo: in questi anni è mancata una visione, un’attenzione. E non c’è stato nessuno sforzo serio di programmazione. Ma io credo che in questo senso Renzi possa dare una svolta».
Come?
«A mio avviso sono cinque i punti fondamentali. Delle Infrastrutture già ho detto. Poi penso all’istituzione di Zone Economiche Speciali, come in Polonia, dove un regime di fiscalità e la semplificazione amministrativa possano attrarre gli investimenti. Ancora: turismo e ambiente, con tutti gli sforzi che ne derivano per recuperare ad esempio il terreno perduto con la “terra dei fuochi”. Quindi, l’adozione dei progetti di studio Erasmus su scala mediterranea, per accrescere anche una coscienza più aperta: sarebbe un segnale anche dal punto di vista politico rispetto a quanto accade sulle altre coste del Mediterraneo. Infine la lotta alla criminalità: penso all’impiego delle nuove tecnologie, ma anche ad un’azione socio-culturale che coinvolga il volontariato e le associazioni, e ad un utilizzo più efficiente dei beni confiscati alle mafie».
Renzi potrà fare tutte queste cose o la crisi sarà l’alibi buono per rinviare ancora?
«Mi fido di Renzi e penso anche che tante di queste cose si possano realizzare senza particolari impegni finanziari. Poi non dimentichiamo che, al di là dei fondi comunitari, ci sono quei famosi 300 miliardi in 3 anni derivanti dal piano straordinario investimenti adottato da Juncker su nostro pressing: anche una quota di quelle risorse potrà andare a colmare lo storico divario Sud-Nord. L’importante è che tutti gli attori facciano la loro parte: anche le banche, perché non siano solo prestatori di danaro a fini di lucro, ma aiutino a creare una cultura nuova, aperta al cambiamento. Che senso ha chiedere ai giovani imprenditori garanzie che loro non possono dare?».
………………
Pittella in conversazione su suo post su Facebook aggiunge: “È fondamentale che il Governo coinvolga le regioni ad un tavolo comune, perché finalmente si ragioni tutti insieme in una visione più complessiva e organica. Anziché fantasticare sulla macro-regione istituzionale, credo sia più importante lavorare tutti insieme ad un grande progetto. Prendiamo ad esempio l’Alta velocità: che senso ha se ciascuna regione pensa esclusivamente alla sua piccola porzione? Eppure quella delle infrastrutture che consentano una maggiore accessibilità è una delle sfide più decisive per il Mezzogiorno, da affrontare e da superare. Farò di tutto perché questo avvenga. Anche grazie a una parte dei fondi che siamo riusciti ad ottenere.”
Commento di IE: “Ci sono tutte le condizioni ora per unire il Mezzogiorno per la sua infrastrutturazione che apra Italia e l’Europa al Mediterraneo, di cui da anni parliamo fino alla proposta per il Semestre europeo a guida italiana dell’Osservatorio infrastrutture e logistica mediterranee”.
Lo spazio dell’Italia tra Usa e Africa. Parla Salzano (Eni)
Intervista di Formiche a Pasquale Salzano
Pasquale Salzano è senior vice president di Eni ed ha delega agli affari istituzionali. È il volto e la voce di Claudio De Scalzi, una vita nel Cane a sei zampe e da pochi mesi nominato dal governo Renzi nuovo Ceo della prima multinazionale italiana.
Salzano, classe 1973, è arrivato in azienda nel 2011 dalle fila del ministero degli Affari esteri essendo Consigliere d’Ambasciata. La promozione di un giovane diplomatico non sorprende, anzi conferma il peso della dimensione istituzionale e internazionale in Eni. Formiche.net lo ha incontrato per una conversazione a valle del Summit USA-Africa appena terminato a Washington e che ha lasciato in eredità sia la Clean Energy Finance Initiative sia investimenti tra i quali una partnership da 5 miliardi di dollari tra il fondo Blackstone e il ricco investitore africano Aliko Dangote per progetti di infrastrutture energetiche nell’Africa sub-sahariana.
Anche Eni, pur nel suo core business degli idrocarburi, investe da tempo nel Continente nero. Quali opportunità vi intravedete? “Il vertice di Washington è stato il più grande incontro con i capi di stato e di governo africani mai organizzato da un presidente americano negli Usa. La sua importanza è dunque innanzi tutto di carattere politico e strategico e segnala la crescente attenzione che l’amministrazione americana dedica ad un continente in cui, negli ultimi dieci anni, diversi paesi hanno registrato i tassi di crescita più elevati del mondo. Va considerato, inoltre, che la popolazione africana raddoppierà entro il 2050, tornando a rappresentare un quinto del totale mondiale, come era nel XVI secolo. In questo quadro, gli investimenti e il commercio sono considerati dagli Usa come parte del più complessivo impegno per la sicurezza e lo sviluppo civile e sociale del continente. Si tratta di un approccio altamente condivisibile, molto simile a quello che Eni, pur nella sua specificità di azienda energetica, ha tradizionalmente promosso in Africa fin dall’inizio della sua presenza, nel 1953. È stato proprio grazie alla attiva integrazione tra i progetti di sviluppo dell’azienda e le opportunità di crescita dei territori in cui è ospite, che Eni è potuta diventare non solo la prima compagnia internazionale del continente per produzione di idrocarburi, ma anche l’azienda leader nel favorire l’accesso all’energia da parte delle popolazioni locali. Il rinnovato impegno americano e la convergenza dei rispettivi approcci al continente non può dunque che essere vista da Eni in modo molto positivo”.
Gli Stati Uniti hanno deciso di puntare in modo deciso sullo sviluppo dell’Africa e sugli investimenti non solo energetici nel continente. L’Italia, per sua vocazione e collocazione rappresenta un ponte ideale tra l’altra sponda dell’Atlantico e l’Africa. Ritiene che questo nuovo sguardo a sud possa aiutare il nostro Paese a diversificare le proprie alleanze energetiche, finora più orientate ad est?
“Pochi lo sanno, ma l’Italia è tra i paesi europei che nell’ultimo decennio ha provveduto maggiormente alla diversificazione delle proprie fonti di approvvigionamento, come spesso auspicato dall’Unione europea. Nello stesso periodo, inoltre, l’Eni ha registrato in assoluto i migliori successi esplorativi tra le majors petrolifere mondiali, inclusa la più grande scoperta di giacimento gas della sua storia, in Mozambico, nel 2011 e l’Africa è stata al cuore di questi successi. Si tratta di nuove fonti che, soprattutto per quanto riguarda il gas, potranno contribuire ulteriormente alla diversificazione energetica italiana ed europea, consolidando una sorta di corridoio nord-sud come nuovo asse strategico di approvvigionamento energetico, di cui ha recentemente parlato anche il presidente Renzi, che potrà avvicinare sempre più l’Africa al vecchio continente”.
Ritiene che, tenendo conto anche dei nuovi progetti energetici annunciati dall’amministrazione Obama, ci possano essere ulteriori momenti di collaborazione tra Italia e Stati Uniti?
“Le sfide che la straordinaria crescita dell’Africa pongono alla comunità internazionale rendono sempre più importante la sinergia tra l’Italia e gli Stati Uniti, che non può che realizzarsi nella più ampia cornice dei rapporti tra Ue e Usa. L’importante negoziato in corso sulla Transatlantic Trade and Investment Partnership ne è solo uno degli esempi più recenti, e l’inclusione dei temi energetici al suo interno sarà molto rilevante. In Africa, in particolare, la collaborazione tra Italia e Usa potrà registrarsi anche alla luce del programma Power Africa lanciato dall’amministrazione un anno fa, che mira a raddoppiare l’accesso all’energia nel continente entro il 2018, grazie anche a importanti convergenze tra pubblico e privato (Public Private Partnership)”.
Il recente viaggio del premier Matteo Renzi in Africa – in Mozambico, Congo e Luanda – è forse il segno che anche la politica italiana guardi all’Africa non solo come a una frontiera, ma come a un mercato di riferimento. Eni come valuta questo nuovo approccio e quali cambiamenti scorge?
“Il rinnovato impegno del governo italiano verso l’Africa è a tutto campo e tocca la dimensione politica, economica e culturale. Può quindi essere considerato parte di una più ampia strategia di apertura e adattamento del nostro paese alle nuove tendenze del sistema internazionale. Un’azienda come Eni, che opera in circa settanta paesi in tutto il mondo, non può che considerare positivamente questo approccio, sempre più necessario e carico di implicazioni significative. A questo riguardo Il Ministero degli esteri ha recentemente promosso l’Iniziativa Italia–Africa, anche con l’obiettivo di rafforzare l’accesso all’energia sostenibile attraverso l’espansione della rete di aziende italiane impegnate nel continente. A metà ottobre si svolgerà a Roma una conferenza internazionale di alto livello per fare il punto sullo stato di avanzamento delle attività su questo fronte”.
Per dirla con Barack Obama, aumentare gli investimenti occidentali in Africa è anche un modo per rafforzare “sicurezza e democratizzazione dei Paesi africani”, anche quelli dove Eni è presente. Penso alla Nigeria, ma anche alla Libia, in queste ore teatro di scontri terribili. Cosa ne pensa? E come proseguono le attività di Eni nei Paesi africani più instabili?
“Per le caratteristiche del suo business, Eni è abituata da sempre ad operare in realtà o regioni complesse o genericamente considerati “a rischio”. Per questo ha tradizionalmente dedicato grande attenzione allo sviluppo dei paesi in cui opera, anche attraverso il cosiddetto “dual flag approach”, ovvero quello di una compagnia al tempo stesso internazionale ma anche locale e con uno stretto rapporto con il territorio. Poiché l’energia è la chiave di ogni sviluppo, negli ultimi anni Eni si è anche impegnata direttamente nella realizzazione di alcune centrali elettriche, come ad esempio quelle in Nigeria e Congo, che vengono gestite insieme alle autorità locali e forniscono ai due paesi rispettivamente il 20 e il 60% dell’energia. Solo l’ulteriore consolidamento di questa strategia, ribadita dalle recenti iniziative sia negli Stati Uniti che in Italia, potrà offrire all’Africa quel futuro di pace e prosperità che ognuno di noi auspica”.
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Sulo stesso tema, la nota scritta nel 2013 da Massimo Preziuso: Un’area di libero scambio UE-USA per lo sviluppo sostenibile mondiale e per la nascita degli Stati Uniti d’Europa
Speranza: «Il governo deve ripartire dal Sud più spesa e investimenti pubblici»
Intervista a Roberto Speranza di Nando Santonastaso – Il Mattino
Forse davvero la politica si sta accorgendo del baratro in cui è finito il Mezzogiorno. Perché dopo le devastanti anticipazioni del rapporto Svimez 2014 e la costituzione dell`intergruppo Mezzogiorno, trasversale alle forze parlamentari, è il capogruppo Pd alla Camera Roberto Speranza – che del nuovo organismo fa parte – a provare a svegliare il Palazzo. «Sono rimasto sconcertato dal silenzio, dall`assenza di dibattito e di confronto che ha accompagnato i dati Svimez, contrariamente a quanto di solito accade in politica su temi magari anche meno importanti», dice Speranza, meridionale di Potenza.
Silenzio da rassegnazione?
«Non lo so. Mi preoccuperei se si fosse trattato di indifferenza. Ero anch`io alla Camera alla presentazione dei primi dati del nuovo rapporto Svimez, in qualità di capogruppo del Pd. E di fronte alla gravità della situazione mi sarei aspettato ben altre reazioni. Sono anni ormai che ci continuano a piovere addosso statistiche e rapporti che documentano quanto sta accadendo nel Sud: ma non vedo un dibattito consapevole di tutto ciò».
Ma non tocca alla politica assumere questa responsabilità? E non è proprio il partito di maggioranza relativa a doversene fare carico più degli altri?
«Intanto prima ancora della politica, che ha certamente le sue responsabilità, mi pare che siamo di fronte a una sorta di impotenza dell`opinione pubblica, di indifferenza come dicevo prima. Che è purtroppo un elemento di novità rispetto al passato. Perché di fronte a certi dati è incredibile che non si apra un dibattito nazionale sul Mezzogiorno. Oltre tutto i dati del Pil del secondo trimestre, con un calo superiore al previsto, impongono questa scelta: ma se un Paese non riparte da un`area che ha perso il 3,5% di Pil in un solo anno, di cosa discutiamo?».
Già, ma ne è consapevole anche il governo?
«L`ultima cosa che possiamo fare su questo tema è dividerci tra di noi. Io so, ne abbiamo parlato spesso con Renzi, che il governo è consapevole di questa situazione. Io ho un`idea e penso che su di essa si possa ragionare in termini concreti. Penso cioè che se non c`è un`inversione di tendenza rispetto alla politica del rigore dell`Unione europea, l`Italia rischia di non uscirne viva e il Mezzogiorno di non accorciare più il divario con il centronord».
Per cui, cosa bisognerebbe fare a suo giudizio?
«La battaglia del governo in Europa perché siano superati in vincoli del 3% del Patto di stabilità abbia come obiettivo il Mezzogiorno. Perché è in quest`area che i danni prodotti da una regola assurda si fanno sentire in maniera drammaticamente elevata. Ed è qui, di conseguenza, che il cambio di passo avrebbe risultati decisivi per la crescita del Paese».
Si spieghi meglio: perché abbattere il muro del 3% favorirebbe un ritorno economicamente significativo al Mezzogiorno?
«Perché svincolare gli investimenti pubblici e privati da quella soglia significherebbe rimettere in moto il Sud nei cui confronti la spesa in conto capitale, che è decisiva per le sorti di un territorio, ha subìto un calo incredibile. Lo ha rilevato proprio la Svimez. I tagli agli investimenti in infrastrutture, ad esempio: se nel centronord si sono mantenuti i livelli di spesa per opere pubbliche di 40 anni fa, al Sud oggi si spende un quinto di quanto si faceva negli anni `70».
Sta dicendo insomma che se il Paese non ripartirà veramente dal Sud non riuscirà ad agganciare la ripresa, se ci sarà, del prossimo anno?
«Certo, ma questo – sia chiaro – non vuol dire rimettere in discussione la spending review o gli impegni internazionali del Paese. La battaglia che credo andrà fatta dal governo è per liberare gli investimenti, non per altri obiettivi. Abbattere il tetto del 3% e rilanciare il Sud al pari degli interventi per le scuole e contro la povertà mi sembrano le priorità assolute in questa fase. Un Paese che ha appena dimostrato di potere e sapere fare riforme complesse, come quella del Senato, può e deve ottenere altrettanta disponibilità dall`Europa».
Pensa che anche il suo partito oltre che il governo condividerà questa scelta?
«Io non ho dubbi anche perché è arrivato il momento di mettere fine alla vulgata secondo cui il Sud avrebbe beneficiato di maggiori investimenti pubblici. I dati dimostrano esattamente il contrario: sul fronte degli investimenti delle imprese pubbliche nazionali, cito ancora la Svimez, al Sud nel 2012 sono crollati de112,8% rispetto all`anno precedente mentre al centronord nello stesso periodo sono saliti del 2,9%».
Eppure la sensazione è che si rinunci a investire nel Sud perché in fondo non ne varrebbe più la pena…
«Io penso che al netto di chi racconta di un Sud sommerso di risorse pubbliche, esista al contrario una realtà nella quale i limiti della spesa emergono in maniera chiara. Ecco perché un piano di investimenti per il Mezzogiorno che possa liberarsi dal vincolo del 3% può e dev`essere la strada da percorrere».
Dopo due trimestri negativi, il Pil meridionale sarà anche nel 2014 con il segno meno. E la Svimez è pessimista pure nel 2015: non sarebbe il caso di interventi-choc per rilanciare questa parte del Paese?
«Intanto mettiamo al centro della crescita il Sud perchè la via dello sviluppo non può che ripartire da qui dove sono concentrate la maggiore disoccupazione giovanile del Paese e la quota più bassa di occupazione femminile. Anche per questo la questione meridionale o come la si vuole definire è una questione nazionale. Le scelte per il Sud non potranno che influenzare positivamente tutto il Paese. Non so se occorrerà un intervento choc: di sicuro il governo ha già imboccato la strada di assicurare al Mezzogiorno un sostegno prioritario nelle sue ultime misure».
A cosa si riferisce?
«Al pacchetto approvato il 22 luglio dal consiglio dei ministri che destina alle regioni meridionali l`80% di oltre un miliardo e 400 milioni stanziati per la crescita attraverso i contratti di sviluppo. Non è un segnale come altri considerate le potenzialità espansive del territorio meridionale e ovviamente anche i suoi enormi ritardi. Naturalmente questo non può far dimenticare che occorrono investimenti forti in infrastrutture, turismo, reti immateriali, logistica: e che servono anche investimenti privati».
Non abbiamo parlato finora di fondi europei, spesso ritenuti l`unica medicina per guarire l`ammalato Sud: è un caso?
«I fondi europei sono importanti a condizione che siano spesi bene. I ritardi del Sud in questo specifico settore sono evidenti: per questo credo che sia giusta la decisione del governo di monitorare attraverso l`Agenzia per la Coesione il loro utilizzo».
Intanto però il governo ha rinunciato al ministro per la Coesione: lei ha condiviso questa decisione?
«Ne ho preso atto e ho fiducia che il lavoro del sottosegretario Graziano Delrio sia proficuo e all`altezza della sfida. Di sicuro sul terreno dei fondi europei l`Italia si gioca una partita decisiva. Noi dobbiamo avere una visione strategica convinta: perché sfidare l`Ue sulla soglia del 3% per investire al Sud vuol dire naturalmente assumersi come Paese la responsabilità di spendere bene le risorse comunitarie».
Lettera aperta al Presidente del Consiglio Matteo Renzi “Affinché Napoli possa riprendere la via dello sviluppo”, in occasione della sua visita a Napoli il 14 agosto 2014.
Alberto Forchielli: la Cina investe in Italia per rompere l’alleanza fra Europa e Usa
Tempeste d’acqua e cambiamento climatico
di Francesco Grillo (su Il Messaggero)
Le tempeste d’acqua alternate a momenti di grande caldo sono, ormai, diventate il tormentone di quest’estate. E dopo anni di silenzio, sono tornate di moda le previsioni che, qualche tempo fa, circolavano sul cambiamento climatico come la più probabile delle catastrofi che la civiltà umana starebbe preparando a se stessa.
Ma cosa c’è di vero nella storia del riscaldamento globale? Quali sono le conseguenze per l’Italia, il Mediterraneo e l’Europa nei prossimi anni? È vero che le questioni ambientali e le emergenze economiche ci costringono ad una scelta? O è vero invece che è proprio adattandoci alla mutazione che possiamo ricominciare a crescere in maniera sostenibile? E cosa ci dice la vicenda del cambiamento climatico sulla capacità di una società complessa di concepire una strategia su questioni che hanno a che fare con spostamenti di risorse tra generazioni e regioni del mondo diverse?
Fu il New York Times, nel Dicembre del 2009, a decretare l’inizio della fine del cambiamento del clima come grande fenomeno mediatico. “Perché fa così freddo se tutti parlano di cambiamento climatico?”: fu così che aprì la sua prima pagina il quotidiano americano che commentava quel giorno uno dei nulla di fatto più clamorosi della storia della diplomazia. I capi di Stato di tutti i Paesi del mondo erano volati a Copenaghen per partecipare ad una conferenza della Nazioni Unite sul clima che si chiudeva senza alcun accordo. Nonostante l’enorme emissione di anidride carbonica rilasciata da migliaia di aerei che avevano portato all’incontro le delegazioni e nonostante le tempeste di neve che avevano bloccato negli alberghi i partecipanti ad un incontro convocato per evitare un disastroso innalzamento delle temperature.
In effetti, le previsioni degli scienziati che studiano per le Nazioni Unite i dati del clima non sono cambiate e non possono essere natali freddi come quello di Copenaghen nel 2009 o estati tropicali come quelle italiane nel 2014 a modificarne la sostanza: esiste una tendenza alla crescita della temperatura media della Terra che è creata dall’azione dell’uomo; tale aumento delle temperature produce non solo lo scongelamento dei ghiacciai e un innalzamento del livello dei mari che potrebbe mandare sott’acqua New York, Londra e Roma in pochi decenni; ma, soprattutto, una traslazione di aree climatiche tra zone diverse del mondo che porterà più bagnanti sul Mare del Nord, ma anche siccità nel Sud del mondo, un allargamento delle diseguaglianze, nuove ondate di povertà e migrazione.
Cosa ha sbagliato, allora, il mondo e l’Europa nella prima stagione del cambiamento climatico quella finita poco prima del Natale di cinque anni fa?
Non pochi sono stati gli scettici che hanno messo in dubbio la scientificità delle analisi del gruppo di lavoro costituito dalla Nazioni Unite per studiare il cambiamento climatico (IPCC). Ma di più ha pesato l’impotenza degli Stati che, per anni, hanno cercato di raggiungere un accordo su base planetaria senza mai sciogliere i nodi delle ragioni contrapposte: tra chi – i Paesi in via di sviluppo – chiede che a pagare il conto dell’adattamento al clima sia chi storicamente ha prodotto il problema; e chi – tra quelli sviluppati – vuole prevenire l’aumento ulteriore di emissioni che viene quasi tutto dall’Asia.
Il fallimento dei vertici sul clima rimane però la più nitida dimostrazione dell’incapacità del mondo di far corrispondere alla globalizzazione delle economie, una risposta politica altrettanto globale. Un fallimento spiegato da un paio di premesse sbagliate da un punto di vista cognitivo: e cioè la pretesa di voler risolvere i problemi attraverso la trattativa anche quando si tratta di non far affondare una barca sulla quale siamo tutti seduti; nonché quella di aver capito – male – che l’adattamento alla trasformazione sia un costo da distribuire, laddove può essere un’opportunità economica grande quanto può esserlo stata la “ricostruzione” delle nostre città in altri tempi. In questo caso prima che scoppi una guerra.
A questo proposito una proposta molto interessante per superare l’impasse, è stata pubblicata qualche settimana fa sul numero di Nature di Luglio: un docente della Bicocca di Milano, Marco Grasso, e il suo collega americano, Roberts, propongono di modificare l’intero approccio al negoziato sulle riduzioni di gas serra che ciascun governo deve garantire, partendo dal calcolo delle tonnellate prodotte a quelle consumate per Paese. La proposta avrebbe senz’altro l’effetto di spostare ulteriormente sull’Europa rispetto agli Stati Uniti e alla Cina l’iniziativa dell’adattamento e di rendere più facile superare le resistenze delle due superpotenze. Ma ancora più significativo sarebbe l’effetto in termini di riallocazione delle politiche ambientali da un terreno tradizionale nel quale i protagonisti sono le grandi fabbriche che producono ricchezza e gli Stati che ne regolano le attività, ad uno più moderno nel quale la responsabilità del cambiamento passa a chi vi è direttamente interessato: le famiglie che consumano e le comunità locali che ne possono condizionare i comportamenti attraverso le politiche sui rifiuti, sulla mobilità, sugli edifici. In fin dei conti, l’idea è quella della disintermediazione di organizzazioni – gli Stati, appunto – che non sono più semplicemente capaci di governare una globalizzazione che li sta svuotando.
Qualche scivolone metodologico, tanti errori politici, ma il problema principale del cambiamento climatico nella stagione del tanto clamore per nulla fu di comunicazione: quello di aver usato – lo fece Al Gore con efficacia – la clava della meteorologia che è, di certo, uno degli argomenti che più interessano le persone a tutte le latitudini; per essere poi esposti all’effetto boomerang che regolarmente colpisce i previsori del tempo quando certe previsioni non si verificano con l’esattezza a cui sono abituati i consumatori di televisione e di fine settimana sotto l’ombrellone.
Non è la prima volta nella storia dell’uomo che dura da mezzo milione di anni che il clima cambia profondamente. Ma ciò che è davvero nuovo in questa sfida è che tale mutazione avviene nel giro di pochi decenni e si abbatte su una società che è – nonostante e forse proprio a causa del suo progresso tecnologico – più vulnerabile di quanto l’umanità non lo sia mai stata prima. Vulnerabile, soprattutto perché sembra aver smarrito la capacità – intellettuale ed etica – di astrarre. Anche solo di concepire questioni che richiedono trasferimenti di risorse intellettuali e finanziarie tra luoghi (regioni del mondo) e tempi (generazioni) diversi.
Il cambiamento climatico esiste, dunque. E i disastri che in questi giorni si stanno abbattendo ovunque, dalla provincia di Treviso al confine tra Nepal e Tibet, lo stanno riavvicinando alla coscienza delle persone. È un terreno questo sul quale l’Italia può e deve trovare – anche nei prossimi mesi di presidenza dell’Unione – la leadership che cerca. Perché è un Paese che nel clima, nonché nel turismo e nel cibo che vi sono direttamente associati, trova uno dei suoi pochi vantaggi competitivi; perché da un deterioramento del clima altrui ed, in particolar modo di quello dei Paesi del Nord Africa, rischia di vedersi piovere addosso ulteriori bombe migratorie; ed, infine, perché l’Italia che inventò i comuni e l’umanesimo, e che mai riuscì ad essere davvero Stato nazione, può dare un contributo decisivo per governare una questione che richiede logiche completamente nuove.