Sulle tracce delle biotecnologie
di Giuseppina Bonaviri
Sapevamo che i prodotti e le possibilità che ogni nuova tecnologia mette a disposizione dell’uomo modificano le abitudini quotidiane? Nell’arco di qualche decennio le biotecnologie hanno cambiato e ancora cambieranno le mode e i costumi di cura cosi come la qualità di vita di intere popolazioni. Le moderne ed attuali tecnologie biologiche permettono di ipotizzare l’attuazione di applicazioni utili in tutti i settori di produzione di beni e servizi che implichino l’intervento di materiale biologico. Le biotecnologie sono nate da studi che affiancano la biologia molecolare, la genetica e la fisiologia degli organismi viventi. Sono prodotti che aggiungono valore in ambito farmaceutico, agroalimentare, industriale ed energetico fornendo nuovi servizi di prevenzione, diagnosi, terapia e risanamento per la cura della salute dei viventi umani, animali e vegetali e della biosfera in generale compreso l’ambiente come anche dei cicli industriali di manifattura di beni tradizionali e di smaltimento di scarti.
Ovviamente, nelle Provincie italiane, poco si conosce di queste moderne pratiche pur non dimenticando che i nostri distretti industriali- compresi quelli dell’area chimico farmaceutica- si avvalgono di aziende farmaceutiche prestigiose che continuano ad emergere poco nei servizi di beni innovativi, oggi divenuti preziosi per la salute dell’uomo. Quanto di questo potenziale produttivo verrà realizzato nella nostra terra dipende dalla crescita scientifica e culturale che vogliamo imprimere tramite la creazione di nuovi modi di interpretare il lavoro e, se solo ci si volesse impegnare sulla frontiera dell’innovazione, anche per dare vitalità alle politiche locali con la volontà di intessere alleanze e sinergie attraendo la partecipazione di tutti gli attori dello sviluppo locale. Alla crescita scientifica, culturale e politica si dovrà affiancare una diffusa fiducia sociale, che al momento appare complessa considerata la poca solida assunzione di responsabilità etica da parte dei nostri decisori, incapaci di proiettarsi progettualmente nel mondo per slanciare i “prodotti e i saperi” locali.
Molto peso assumono le motivazioni intrinseche cui tali prodotti e servizi dovrebbero essere destinati in un contesto europeo dove l’economia globalizzata e molto conservatrice (più legata alle tradizioni e meno disponibile all’innovazione) non va persa di vista in considerazione delle fatiche che hanno portato grandi studiosi e scienziati italiani a garantire, nell’arco dei prossimi 10 anni, la disponibilità di centinaia di nuovi farmaci ottenuti grazie alla pratica biotecnologica. Vale la pena accennare ad alcuni esempi significativi per l’Italia e che nell’arco dei prossimi anni saranno pienamente disponibili: nuovi vaccini contro malattie gravi quali la meningite batterica e l’HIV; nuovi approcci bioterapeutici come la immunoterapia, la medicina molecolare, le terapie geniche e per la cura dei tumori e delle psicosi; applicazioni importanti della medicina rigenerativa quali rigenerazione e ricrescita in situ di particolari tessuti come le ossa. Per quanto riguarda l’agroalimentare non va dimenticato la novità che riguarderà pomodori, melanzane, zucchine che verranno resi resistenti a virosi, malattie che oggi ne minacciano qualità ed entità dei raccolti nazionali. Dovremo, per amor patrio, sollecitare le nostre aziende locali (con i loro imprenditori e studiosi) a prendere atto di quanto intorno si muove in ambito di novità di prodotto e di sviluppo in vista dell’alta domanda del mercato a fronte degli enormi bisogni di salute emergenti. Potranno divenire loro stessi garanti di un ripristino economico locale assai superiore agli attuali e tradizionali parametri di impresa.
Ovviamente, le tecniche su descritte raggiungeranno obiettivi diversi e questo dipenderà da fattori socio-economici, di comunicazione e da come la nostra periferia interagirà con il processo innovativo sanitario e sociale. Ricerca avanzata, mondo della scuola, pubblico e privato potrà mettere in atto proposte ampie con una offerta di servizi didattici a docenti e studenti sul tema delle scienze della vita oltre che per l’utenza. Questo per promuovere un orientamento di studenti e famiglie più consapevole attraverso l’esperienza diretta di attività di sperimentazione scientifica. Questo percorso porta alla creazione di strumenti concreti come banche dati biologiche, tecnologie multimediali e programmi bioinformatici basate sull’investigazione (inquiry-based) ed ad un processo di collaborazione e scambio di risorse anche a distanza per la formazione di una coscienza collettiva della pubblica opinione e per tutti quei cittadini che hanno a cuore qualità della vita e fare innovativo imprenditoriale.
Insidie petrolifere
di Sergio De Nardis, Capo Economista (su Nomisma)
Il crollo del petrolio è una buona notizia? Esso arriva quando l’Italia e le economie europee hanno bisogno di maggiore, non minore, inflazione. La politica monetaria ha perso capacità di trazione, l’inflazione euro è praticamente zero, negativa in diverse economie. In tale situazione gli effetti favorevoli del greggio meno caro, connessi all’aumento dei redditi reali nei paesi importatori, possono essere compensati da quelli negativi indotti dalla deflazione. Sarà cruciale l’azione della Bce nel contrastare il disancoraggio delle aspettative: data la situazione, occorrono interventi forti. E’ una condizione necessaria, non è detto che sia sufficiente a rivitalizzare l’economia europea.
Manna dal cielo? L’Europa attraversa un periodo complicato nel quale quelle che normalmente sarebbero buone notizie nascondono risvolti negativi. La caduta del prezzo del petrolio spinge i previsori a puntare con maggiore fiducia sulla ripresa italiana nel 2015. Scommessa che, però, si traduce nella sostanziale conferma della crescita che era attesa tre-quattro mesi prima, cioè antecedentemente al crollo delle quotazioni. In altri termini, grazie al dimezzamento del petrolio il Pil aumenterebbe più o meno come era previsto. Vi è, dunque, prudenza nelle valutazioni. E’ giustificata: il rischio che nell’attuale situazione vi siano effetti di contrazione non va sottovalutato.
Fig. 1 – Prezzo del petrolio, dollari per barile Fonte: elaborazioni e stime Nomisma su dati Oecd.
In condizioni normali il calo del greggio è una notizia univocamente positiva: la flessione aumenta i redditi reali dei consumatori e i profitti delle imprese nei paesi importatori, come l’Italia e le altre economie euro; la spinta sulle loro domande interne più che compensa il regresso dell’export verso i paesi fornitori di energia e traina la crescita del Pil. Sono gli effetti benefici del controshock petrolifero che si sperimentò nel 1986. Anche allora (fig. 1) la quotazione del greggio si dimezzò in un anno (e scese di tre quarti rispetto al picco del 1980). Ne risultò un forte stimolo alla domanda interna dei paesi industriali e una sostanziale accelerazione dei loro tassi di crescita.
Effetti avversi. Ma il 2015 è tutto un altro mondo rispetto al 1986. L’economia europea da alcuni anni non opera più in condizioni normali, si trova nell’eccezione. L’inflazione è a zero, negativa in diversi paesi; i tassi di interesse della Bce sono anch’essi a zero, il limite minimo possibile. Inoltre, in Italia e in gran parte dei paesi euro è in corso un processo di riduzione del debito da parte dello stato e del settore privato. In queste condizioni, l’ulteriore impulso al ribasso sulla dinamica dei prezzi, fornito dal petrolio, rischia di abbattere ancor più le aspettative di inflazione, facendo aumentare i tassi di interesse reali e causando, così, effetti depressivi. Accanto a ciò, il nuovo calo dell’inflazione accresce il valore reale dei debiti e il peso (reale) degli interessi (lì dove non sono indicizzati), spingendo stato e privati a intensificare l’azione di deleveraging, anche in questo caso con impatti depressivi per l’economia.
Un recente lavoro di Stefano Neri e Alessandro Notarpietro analizza, attraverso un modello stilizzato, le conseguenze che avrebbe in un simile ambiente (tassi zero e rientro da debito) uno shock negativo sui costi di produzione a cui è assimilabile il calo del greggio. In condizioni normali, la riduzione dei costi produce caduta dell’inflazione e aumento dell’output: sono gli effetti del controshock del 1986. Per questo risultato è cruciale la possibilità per la politica monetaria di contrastare, con la riduzione dei tassi, la discesa dell’inflazione sotto il livello di equilibrio. Se, tuttavia, i tassi di policy sono già al limite minimo (zero lower bound), tale riduzione non può realizzarsi e lo shock negativo sui costi causa contrazione dell’attività economica, più marcata se vi sono soggetti indebitati colpiti dal calo dei prezzi. Riproduciamo da questo lavoro la seguente figura che illustra chiaramente le opposte conseguenze che può avere, sia pure in un modello semplificato, uno stesso cost-push shock a seconda delle condizioni della politica monetaria e del debito: con tassi di interesse zero (ZLB) e riduzione del debito (debt deflation) gli effetti sono negativi; la figura mostra, inoltre, come il limite zero dei tassi di interesse sia il fattore decisivo che volge tali ripercussioni da positive in negative.
Fig. 2 – Risposta dell’output a uno shock esogeno negativo sui costi1 1 No ZLB=Tassi di policy positivi; ZLB=tassi di policy al limite zero; No debt deflation=contratti di debito indicizzati all’inflazione; debt deflation=contratti di debito non indicizzati all’inflazione. Fonte: Stefano Neri e Alessandro Notarpietro, “Inflation, debt and the zero lower bound”, Questioni di Economia e Finanza (Occasional Paper), Banca d’Italia n. 242, October 2014.
A tutto ciò si deve aggiungere la possibilità che un abbassamento del livello generale dei prezzi, indotto dalla diffusione delle spinte disinflazionistiche, ostacoli l’aggiustamentodel mercato del lavoro. In presenza di rigidità al ribasso dei salari nominali, prezzi in calo si traducono in un maggiore costo reale del lavoro con conseguenze negative per il processo di riassorbimento della disoccupazione. Per il riequilibrio del mercato del lavoro l’inflazione è da preferire alla deflazione.
A corollario di queste considerazioni resta poi un interrogativo di fondo che riguarda il lato positivo del calo petrolifero. Occorre domandarsi quanto del maggiore potere d’acquisto, consentito dal greggio meno caro, verrà effettivamente speso dai beneficiari, date l’incertezza e la propensione ad accantonare risorse in impieghi sicuri che contraddistinguono la fase attuale. Il rialzo del tasso di risparmio, in atto dal 2012, rivela un atteggiamento delle famiglie volto alla parsimonia e alla ricostituzione dei livelli di risparmio e ricchezza erosi negli anni precedenti; il dato del terzo trimestre 2014 di consumi praticamente fermi, a fronte di un forte incremento dei redditi reali delle famiglie, non fa che confermare questa tendenza.
In definitiva, la caduta del petrolio interviene in un periodo di elevata incertezza e impotenza della politica monetaria. Una fase in cui le economie europee e l’Italia avrebbero bisogno di maggiore, anziché minore, inflazione. In questa situazione la misura in cui il calo del greggio avrà ripercussioni negative dipenderà da due fattori. Il primo è il grado di diffusione delle pressioni disinflazionistiche al di là degli effetti (benefici) di primo impatto e le ripercussioni sulle aspettative. L’abbattimento di quest’ultime, se non contrastato dalla politica monetaria, attiverebbe gli effetti depressivi esemplificati nella figura 2. Il secondo fattore riguarda, di conseguenza, l’azione della Bce e in particolare la dimensione (e qualità) dell’espansione quantitativa di liquidità annunciata nelle ultime settimane.
Aspettative. L’odierno controshock petrolifero si verifica in una situazione in cui le aspettative di inflazione hanno già preso, da tempo, ad allontanarsi dall’obiettivo di medio termine della Bce per l’area euro (2%). Il rischio più che concreto è che la sconnessione tra attese degli operatori e target Bce si rafforzi col ridimensionamento del greggio. Presentiamo su questo qualche evidenza per l’Italia.
Fig. 3- Italia: inflazione negli acquisti ad alta frequenza e aspettative a breve (qualitative) dei consumatori Fonte: elaborazioni Nomisma su dati Istat.
Il punto cruciale per la politica monetaria in questa fase è la dipendenza delle aspettative dall’inflazione corrente piuttosto che dagli obiettivi che la banca centrale afferma di voler perseguire. Nella figura 3 si riportano, sull’asse orizzontale, l’inflazione mensile misurata sui beni e servizi a elevata frequenza di acquisto e, sull’asse verticale, le attese delle famiglie sull’inflazione futura. Per quanto riguarda la prima variabile, è presumibile che la dinamica dei prezzi degli acquisti ad alta frequenza (il cosiddetto carello della spesa) sia la componente che più influisce sulla percezione delle famiglie circa l’andamento dell’inflazione. Per quel che concerne la seconda variabile, essa misura le attese qualitative dei consumatori per i mesi successivi a quello della rilevazione ed è data dalla differenza tra la percentuale di coloro che si attendono un incremento dei prezzi più rapido (o costante) rispetto a quello corrente e la quota di coloro che si aspettano un incremento più debole[1]. La figura mostra una chiara rottura della relazione tra le due variabili nel periodo antecedente la crisi (2000-2007, pannello A della figura 3) e in quello successivo (2008-2014, pannello B). Mentre prima della crisi le attese apparivano slegate dall’inflazione osservata, dal 2008 vi è una evidente correlazione (0,62, sulla base della retta interpolante). E’ come se in un periodo di forte incertezza, quale è il 2008-2014, le aspettative delle famiglie fossero divenute adattive: molto più legate all’osservazione delle dinamiche correnti e, quindi, molto meno influenzate dall’obiettivo della Bce che da quelle dinamiche è andato, dal 2013, sempre più distanziandosi. E’ un segnaledi disancoraggio delle attese.
La figura 3 suscita un’ulteriore osservazione sul nesso tra aspettative, da un lato, e effetti del greggio, dall’altro. Le aspettative dei consumatori sono divenute più sensibili, nel corso della crisi, alle dinamiche dei prezzi per gli acquisti di ogni giorno. Sono quelli su cui incide in modo diretto il calo del petrolio (prezzo dei carburanti). Osservare, dunque, che l’inflazione core (al netto dell’energia e degli alimentari), pur molto bassa, resta in territorio positivo (+0,6% a dicembre) può risultare meno rilevante, per la lettura di come si orientano le aspettative, della piega negativa che ha preso la dinamica dei prezzi ad alta frequenza di acquisto dopo la caduta dei corsi del greggio (-0,5% a dicembre).
E’ vero che le attese dei consumatori, misurate dalle inchieste congiunturali, si riferiscono alle dinamiche previste nel breve termine (a tre-quattro mesi), mentre le aspettative rilevanti per la conduzione della politica monetaria (del cui disancoraggio si preoccupa la Bce) sono quelle di medio termine, in un periodo di circa cinque anni. Tuttavia in un comportamento adattivo, come quello che emerge negli ultimi anni, ciò che si prevede per il breve termine può influire su ciò che si attende per il medio termine. Inoltre, le indicazioni di cui si dispone dipingono un quadro di attese già molto depresso anche per il medio periodo.
Fig. 4 – Aspettative (quantitative) di inflazione nel mercato dei Btp (differenza in punti percentuali tra rendimenti nel mercato secondario dei Btp ordinari e di quelli indicizzati con analoghe scadenze)1 1 Quotazioni del 9 gennaio 2015. Fonte: elaborazioni Nomisma su dati Il Sole 24 ore.
Una misura delle aspettative (quantitative) di inflazione può essere ricavata dalla differenza di rendimento nel mercato secondario tra i buoni poliennali del tesoro ordinari (Btp) e quelli indicizzati all’inflazione (Btpi e Btp€) con simili scadenze. Poiché i primi non sono protetti dall’inflazione, mentre i secondi lo sono, la differenza tra i rispettivi rendimenti rivela la previsione implicita del mercato circa la dinamica futura dei prezzi. Come mostra la figura 4, le aspettative sul tasso di inflazione italiano che si formano in questo mercato (con riferimento ai Btpi, pannello A) sono estremamente basse: negative (i buoni indicizzati rendono più di quelli ordinari) nei prossimi tre anni, vicinea zero nel 2020. Le aspettative relative al tasso di inflazione euro (con riferimento ai Btp€, pannello B) sono solo marginalmente più elevate di quelle relative all’inflazione italiana, ma risultano sempre negative nella prospettiva dei prossimi anni e pari ad appena lo 0,2% nel 2021 (0,4% nel 2023).
Politica monetaria. La Bce è chiamata, sin dalle prossime settimane, a cercare di neutralizzare queste tendenze. Essa deve contrastare il radicarsi nell’economia delle spinte disinflazionistiche e la caduta delle aspettative che vengono dal petrolio. E lo deve fare supplendo all’esaurimento delle munizioni convenzionali a sua disposizione (la riduzione dei tassi) con lo strumento non convenzionale dell’espansione della liquidità. E’ il quantitative easing (Qe), già perseguito con decisione dalla altre banche centrali e contemplato, infine, anche dalla Bce: acquisti significativi e prolungati nel tempo di titoli pubblici e privati nel mercato secondario. Il Qe dovrebbe conseguire quel che non si può fare più con lo strumento convenzionale: abbassare cioè i tassi di interesse reali, creando inflazione e soprattutto aspettative di inflazione. Riuscirà la Bce in questa impresa? Qui sorge un punto delicato. Quando la Bce afferma di voler puntare a realizzare l’obiettivo statutario di un’inflazione al 2% per l’eurozona, sta praticamente dicendo di voler perseguire un’inflazione al 3% in Germania. E questo non per un solo anno, ma per tutto il tempo in cui la dinamica dei prezzi dei periferici dovrà rimanere sotto quella tedesca per correggere gli squilibri intra-area (Germania al 3%,periferici all’1% e quindi area euro al 2). Accetta la Germania una simile prospettiva? Il dubbio è che la resistenza tedesca nasconda sotto la nobile preoccupazione che il Qe allenti la pressione a risanare sui periferici, la meno nobile intenzione di bloccare o rendere sostanzialmente inefficace quella che è l’unica politica monetaria idonea per l’area euro, ma che contrasta con gli interessi tedeschi.
Ma quanto dovrebbe essere grande l’intervento a cui la Germania si oppone? Per giungere a una stima approssimativa ci si può chiedere quale è la riduzione del tasso di interesse di policy che sarebbe oggi necessaria per risollevare l’Europa e quanto grande deve, quindi, essere l’aumento della quantità di moneta che equivarrebbe a quella riduzione del tasso nominale di policy.
A questo scopo, nella tabella 1 si riportano il tasso di rifinanziamento vigente della Bce (0,05%) e quello che sarebbe desiderabile sulla base di una policy rule che fa dipendere il tasso di rifinanziamento Bce dal gap dell’inflazione (nell’accezione core e a tassazione costante) rispetto all’obiettivo (2%) e dal gap del tasso di disoccupazione rispetto al Nairu (o disoccupazione strutturale nella stima Oecd). Se l’inflazione è al livello dell’obiettivo e il gap di disoccupazione è nullo, il tasso desiderato della Bce è uguale a quello di equilibrio[2]. Quest’ultimo è cruciale nel determinare l’appropriatezza della politica monetaria e dipende, a sua volta, dal tasso di interesse reale che assicura l’equilibrio di pieno impiego nell’economia (TIRE). Tale tasso non è, però, costante. Esso scende nelle recessioni ed è presumibile che nella lunga crisi dell’economia euro si sia portato stabilmente su un valore negativo: impossibile da raggiungere quando il tasso nominale di policy è al limite zero e le aspettative di inflazione sono in forte deterioramento.
Come si vede dalla tabella il tasso di interesse vigente della Bce (0,05%) è superiore a quello desiderato, anche supponendo che il tasso di interesse reale di equilibrio (TIRE) non abbia subito un abbassamento con la crisi (con TIRE=2%, il tasso di policy desiderato è -0,15%). L’allontanamento dal tasso vigente diventa ben più marcato quando si considera che il tasso di interesse reale di equilibrio si è sostanzialmente ridotto con la recessione. Se esso fosse divenuto nullo (TIRE=0), il tasso di interesse desiderato dovrebbe essere pari a circa -2%. Se, più realisticamente, si assume che il TIRE sia divenuto negativo (TIRE=-1,5%), il tasso di policy desiderato scenderebbe a quasi -4%. Nella tabella si riporta, poi, un analogo esercizio condotto per l’Italia, stimando il tasso desiderato di policy adeguato per la situazione della nostra economia[3]. In generale, si evidenzia che se l’attuale livello del tasso Bce (0,05%) è restrittivo per l’area euro, lo è molto di più per un’economia come quella italiana che ha un’inflazione più bassa i quella europea ed è in condizioni cicliche peggiori. Assumendo per l’Italia il tasso di interesse reale di equilibrio negativo ipotizzato per l’area euro (TIRE=-1,5%), il tasso di policy desiderato sarebbe -6,7%. Occorre, però, considerare che, data la prolungata recessione, il TIRE italiano si dovrebbe collocare a un livello più basso di quello dell’area euro.
Tab. 1 – Tasso di interesse di policy della Bce vigente e quello che scaturisce da una funzione di reazione di policy in tre differenti ipotesi del tasso di interesse reale di equilibrio, TIRE (TIRE=2%, TIRE=0,0%, TIRE=-1,5); stime riferite a fine 2014 Fonte: elaborazioni e stime Nomisma su dati Bce, Eurostat, Oecd
Se questi sono gli ordini approssimativi di grandezza della contrazione che sarebbe desiderabile per il tasso di policy della Bce, quanta immissione di quantità di moneta sarebbe necessaria per raggiungere un effetto comparabile? Nelle discussioni in corso si fa riferimento a cifre comprese in un intervallo molto ampio, tra 500 e 1.000 miliardi di euro. Un’iniezione di 1.000 miliardi (pari a circa 80 al mese) sarebbe equivalente, secondo valutazioni basate sull’esperienza di Qe americana e inglese, a una riduzione del tasso di policy di circa 200 punti base nell’arco di un biennio. Prendendo a riferimento le stime della tabella 1, ciò sarebbe un intervento adeguato per l’area euro se il tasso di interesse reale di equilibrio si fosse semplicemente annullato. Un simile programma risulterebbe, invece, insufficiente se il tasso reale di equilibrio europeo fosse diventato negativo. In questo caso occorrerebbero interventi ben più consistenti, nell’ordine dei 100 miliardi e più di euro al mese. Per la recessione italiana un simile programma sarebbe un fattore importante anche se non decisivo, essendo una misura studiata per la situazione media dell’area euro da cui l’Italia si discosta, come mostra la tabella 1, in negativo.
Qualità e credibilità. La determinazione della dimensione teoricamente adeguata del Qe non esaurisce, però, il discorso sull’efficacia della politica monetaria. Oltre all’entità contano molto la qualità dell’intervento e le modalità di comunicazione. Per la qualità si può osservare che il Qe non può prescindere dall’acquistare titoli del debito pubblico di tutti i paesi membri dell’unione monetaria. Solo in questo modo si possono, infatti, raggiungere le dimensioni richieste. Sotto questo aspetto qualità è sinonimo di quantità. Inoltre, non sarebbe accettabile la messa in capo alle singole banche centrali nazionali degli acquisti dei titoli di stato dei rispettivi paesi: si tratterebbe della negazione della politica monetaria unica.
Ma la comunicazione svolge forse il ruolo più decisivo. L’obiettivo dell’intervento è quello di modificare le aspettative di inflazione, riportandole dai livelli attuali, ulteriormente depressi dal petrolio, al 2%. A questo fine la Bce deve essere in grado di convincere gli operatori che il Qe durerà per tutto il tempo necessario, ovvero anche quando l’inflazione euro si sarà riportata al 2%, perché non conta la realizzazione del target in un singolo mese o anno, ma il fatto che esso venga incorporato stabilmente nelle aspettative future. E’ la parte più difficile per una banca centrale, ancor più per la Bce alle prese con le resistenze tedesche che minano la credibilità di simili impegni. Per questo il Qe è necessario, ma non è detto che sia sufficiente.
[1]Nella figura le attese in ogni mese sono associate all’inflazione rilevata nel mese precedente: le attese di dicembre 2014 sono associate all’inflazione dei beni e servizi acquistati con alta frequenza di acquisto di novembre 2014.
[2]La funzione di reazione della Bce (policy rule) è la regola di Taylor basata sull’impostazione proposta da A. Udibe, “The European Central Bank Must Act Aggresively to Restore Price Stability in the Euro Area”, in Rebuilding Europe’s Common Future, The PIIE Biefing, n. 14-5, December 2014. Essa ha la seguente specificazione:
Tasso desiderato = TIRE + inflazione core + 0,5 x (inflazione core – 2%) + 0,5 x 1/okun x (Nairu-tasso di disoccupazione)
Dove 1/okun è il reciproco del coefficiente di Okun (che descrive la relazione tra variazione della disoccupazione e variazione dell’attività economica); per questo coefficiente si assume un valoreuguale a 0,5. L’inflazione core è al netto delle tasse indirette. Quando i due termini in parentesi sono pari a zero, l’economia è in equilibrio e il tasso di interesse desiderato è uguale al suo valore di equilibrio (TIRE + core inflation).
[3]Per l’Italia si assume un tasso di inflazione obiettivo dell’1,5%, considerando che la dinamica dei prezzi del nostro paese deve collocarsi sotto quella media dell’area euro.
Finalmente flessibilità. Ora il patto di stabilità è un po’ più intelligente
di Gianni Pittella su Huffington Post
Si potrebbe dare fiato alle trombe. Ma non lo facciamo. Vogliamo solo salutare, con un pizzico di legittima soddisfazione, quel che è avvenuto in sede europea dopo tanto parlare, in questi ultimi mesi, della battaglia tra austerità e crescita. La Commissione Juncker ha mantenuto la promessa e ha consegnato il suo regolamento sul famoso fondo europeo per gli investimenti strategici.
É significativo che ciò sia avvenuto nel giorno di chiusura del semestre di presidenza italiana a poche ore dal resoconto svolto nell’aula di Strasburgo dal presidente Renzi. Ed è importante che la politica di flessibilità possa tagliare oggi un importante traguardo. A dimostrazione che le battaglie politiche condotte con convinzione e fermezza si possono vincere.
Questo rapporto – un vero e proprio testo legislativo – è adesso una realtà. Si tratta di quel provvedimento così tanto atteso che punta in tre anni a mobilitare più di 300 miliardi di investimenti pubblici e privati per favorire la crescita e l’occupazione. Vogliamo e dobbiamo essere chiari e leali quando si evocano cifre che possono alimentare, a torto o a ragione, delle facili aspettative.
Il piano varato dall’esecutivo comunitario, a pochi mesi dal suo insediamento, non promette la Luna. Ma costituisce – questo è indubbio – una inversione di tendenza, e dunque di azione politica economica, negli atti e nei comportamenti delle Istituzioni dell’Ue. Grazie a questo, possiamo registrare un primo successo. Con la mobilitazione di risorse pubbliche e private. Più ci sarà fiducia e ottimismo, più il piano agirà a cascata in un moto – ci si augura – che trascini e gonfi il vento della crescita.
Non è retorica, ma una possibilità reale. Proprio perché stavolta l’Europa si impegna con risorse importanti agevolando gli Stati membri i quali potranno scorporare quelle spese per gli investimenti. Dopo sei anni di crisi si comincia a prendere coscienza della necessità di un’inversione di tendenza. Forse non è esagerato affermare che da questo momento può iniziare anche un nuovo modo di servirsi della costruzione europea, mettendo l’accento su lavoro e sul sociale provando a bandire l’immagine, costruita spesso ad arte, di un’Unione nemica dei popoli e amica della Finanza.
Nell’azione dell’Unione non ci sono mai state inversioni di rotta repentine. Ma accelerazioni certamente. Questo evento politico, che mette in testa nell’agenda europea un intervento di considerevole portata nella sfida alla crisi economica che scuote il continente da parecchi anni, è uno di questi momenti. Un passo avanti, un cambiamento sostanziale nel modo di affrontare le questioni più sensibili e urgenti. Stiamo parlando di uno strumento di azione economica, che dovrà essere approvato dai due legislatori (Parlamento europeo e Consiglio dei ministri Ue) entro il prossimo mese di giugno, un “colpo di frusta” per l’economia europea come ha detto Juncker.
La Comunicazione sulla flessibilità nel patto di Stabilità e crescita, approvata ieri e alla cui definizione il nostro gruppo ha contribuito in maniera decisiva, fa diventare il Patto di stabilità e di crescita meno stupido (come disse Romano Prodi) e anzi, lo rende più intelligente. Perché – ecco il punto politico più interessante – introduce una quota di flessibilità e un margine di manovra per i bilanci dei Paesi che hanno una sofferenza dal punto di vista del debito e che intendono investire massicciamente per il rilancio delle proprie economie. È quel che si voleva? Certamente, anche se si tratta di un primo passo. Ma già da solo rappresenta una spinta formidabile se saremo capaci di sfruttarla in pieno. Utilizzando in maniera efficace e produttiva le risorse, specie quelle contenute nei Fondi Strutturali.
Di sicuro, il piano di Bruxelles non imporrà, come taluno aveva fatto credere, alcuna imposizione di riforme “dall’alto”. L’Europa punitiva, questa volta, non ha trovato acqua in cui nuotare. Anzi, gli Stati nazionali che contribuiranno al Fondo di Investimento della Bei, si vedranno riconosciuti e non conteggiati questi sforzi del loro bilancio e gli Stati impegnati in riforme strutturali interne vedranno riconosciuto questo loro operato. Inoltre, la cosiddetta “regola d’oro” funzionerà anche se il limite del 3% resta, per il momento, non rimuovibile. Non cesseremo, ovviamente, di batterci.
Ci sono, dunque, una serie di condizioni che hanno il segno del cambiamento. Si tratta di cogliere al volo questa opportunità. L’Europa, come si vede, può cambiare. Anche se ciò costa sempre un lavoro paziente, a volte testardo, e di lunga lena. Una strada si è aperta. Tocca a noi, agli Stati, alle forze politiche, di asfaltarla e renderla transitabile. Per allontanarci definitivamente dalla cieca austerità.
Terrorismo e Economia. Cosa genera il sonno della ragione
di Francesco Grillo
“L’obiettivo del terrorismo è, appunto, terrorizzare; proprio come quello dell’omicidio è uccidere; ed il
potere è definito dal potere in se che è il suo unico fine”. È George Orwell a dare la migliore (e più
semplice) definizione di cosa è il terrorismo nel famoso libro (1984) che racconta cosa stiamo diventando.
L’unico filo rosso che unisce, dunque, le brigate rosse ai fondamentalisti islamici è il fatto che la finalità
ultima dei loro atti è quella di produrre, attraverso il terrore, una reazione da parte delle opinioni pubbliche
e delle classi dirigenti di intensità uguale e direzione opposta; in maniera tale da aumentare il livello di
scontro e la capacità di fare proseliti disposti a combattere per il proprio disegno politico.
Ma cosa produce all’inizio questo terrorismo che ha la capacità di alimentarsi della rabbia dei suoi nemici?
Qual è il legame tra terrorismo ed economia? Sono figli della crisi i soldati – arabi e occidentali – che si
arruolano da volontari negli eserciti della “guerra santa”? Ed in che misura è vero che è la povertà delle
periferie (ad esempio, di Parigi) il brodo di cultura del terrore che dobbiamo urgentemente prosciugare?
Alan Krueger, il professore di Princeton che presiede il Council dei consulenti economici di Barack Obama,
ha scritto qualche anno fa uno dei pochissimi libri che cerca di studiare la relazione tra terrorismo – definito
come nella citazione di Orwell – e le principali variabili economiche e sociali. Il risultato più sicuro è che il
numero di attacchi terroristici non aumentano, come qualcuno ci si aspetterebbe, con il diminuire del tasso
di crescita dell’economia: essi sono molto cresciuti negli ultimi dieci anni, proprio nel periodo di più elevata
crescita dell’economia globale. Non è vero, inoltre, che i terroristi nascono nel Sud del mondo per assaltare
il Nord ricco: il 90% delle vittime sono mussulmani, con l’Iraq e il Pakistan che da soli contano la metà delle
vittime. Non è, infine, vero che – come hanno sostenuto erroneamente alcuni Presidenti degli Stati Uniti –
quanto più un individuo è povero o poco istruito, tanto più aumenta la possibilità che diventi terrorista: la
biografia dei terroristi che realizzarono il più famoso degli attacchi terroristici della storia a Manhattan,
dimostra che, al contrario, il background ideale è quello di persone che vengono da classi almeno medie e
che hanno avuto la possibilità di rafforzare attraverso lo studio le proprie convinzioni e la conoscenza del
“nemico”.
Indubbiamente per compiere un’azione il cui successo dipende dall’assoluta disponibilità a sacrificarvi la
propria vita, bisogna essere “disperati” e, magari, disoccupati come i fratelli Kouachi. Ma è una
disperazione diversa da quella di chi si trova nei villaggi rasi al suolo in Nigeria dai terroristi di Boko Haram o
da quella dei piccoli imprenditori italiani che di fronte all’ennesima cartella esattoriale hanno preferito
togliersi la propria di vita piuttosto che fare violenza agli altri. Perché alla disperazione deve unirsi un
progetto politico che chiama all’azione. Un’ideologia, un’idea di un mondo che possa essere diverso qui o
nell’aldilà e qualcuno capace di fornirla. Il terzo terrorista di Parigi aveva provato entusiasmo per
un’iniziativa di Sarkozy per creare occupazione tra i giovani, prima di convincersi che non c’è alcuna
possibilità di cambiare il mondo attraverso strumenti normali e convertirsi alla follia di Al-Baghdadi.
Dunque non è, in se, la crescita economica o il reddito pro capite che prevale in un certo Paese a rendere
più probabile il terrore. Esso, invece, può trovare terreno fertile tra i giovani che non lavorano e neppure
studiano (in Europa ci sono sei milioni di individui sui quali si è scaricato quasi per intero il costo della crisi)
e dove la democrazia fa fatica ad includere e gli esclusi cominciano a credere in un progetto radicalmente
alternativo. Più della crescita globale mai così forte, conta, dunque, la diseguaglianza che non è mai stata
così grande: secondo un recente studio del Credit Suisse l’8,6% della popolazione mondiale detiene l’85,3%
della ricchezza del mondo. Essa divide, però, non più gli Stati ricchi e quelli poveri, ma all’interno degli stessi
Stati pochissimi milionari e tantissimi la cui sopravvivenza dipende dal proprio lavoro: ciò produce conflitti
che sono regolati quindi sempre meno dalle guerre tra Paesi, e sempre di più attraverso scontri all’interno
di essi.
Più precisamente ciò che genera terrorismo è la disintegrazione di una Società in pezzi che non riescono più
a comunicare, a regolare i conflitti attraverso ciò che chiamiamo democrazia. E tra le quali non è più
possibile per un individuo transitare: del resto, è la mobilità sociale che spiega perché gli Stati Uniti hanno
conosciuto – almeno fino all’11 Settembre – poco conflitto di classe e, persino, poco terrorismo.
Ad osservare i numeri verrebbe da dire che, dunque, una società aperta diventa meno vulnerabile solo se
riesce ad aprirsi di più e con maggiore intelligenza. Se riesce ad essere più mobile, il contrario di ciò che
suggerisce chi vorrebbe più muri; se rafforza o forse reinventa una democrazia capace di includere
chiunque paghi le tasse (inclusi gli immigrati), invece di rattrappirsi ulteriormente; se riesce a passare
dall’idea dell’integrazione (o del multiculturalismo o della tolleranza come semplice accettazione) ad una
più avanzata di incontro dinamico tra visioni diverse del mondo che si innovano interagendo (e
competendo che è nozione diversa da quella di chi stancamente continua a raccomandare dialogo). Se si
pone – sul piano economico – l’obiettivo di aumentare il numero di giovani che hanno un lavoro
sufficientemente stabile o studiano (in Italia si trovano un quarto di quelli che non lo fanno in Europa e
questa è, forse, la notizia più preoccupante per il Ministro degli Interni) che è un aspetto collegato ma non
coincidente con la crescita.
Certo tutto ciò può essere visto in contraddizione con l’esigenza più immediata di evitare che, come è
successo a Parigi, un manipolo di guerrieri improbabili riescano a tenere sotto scacco centinaia di migliaia di
poliziotti, dopo aver colpito bersagli così clamorosamente annunciati da tempo. Con la necessità di colpire
all’origine e in maniera definitiva le fonti dalle quali arrivano armi, finanziamenti, assistenza logistica e
addestramento. Ma la contraddizione è apparente: si tratta di essere molto più efficienti sul presidio del
territorio e sulla richiesta che la dichiarazione dei diritti dell’uomo sia rispettata ovunque, in Siria così come
in Europa (e ciò richiede un’integrazione degli apparati di sicurezza e di difesa sulla quale siamo in ritardo di
quattordici anni); e, contemporaneamente, essere molto più inclusivi dando alla stessa dichiarazione
universale il significato attivo che chiunque la sottoscrive deve avere un’opportunità.
È stato bello vedere ieri nella città che ha fatto la rivoluzione che ha sancito che tutti gli uomini nascono
uguali, vedere Abu Mazen e Benjamin Netanyahu stringersi attorno alla stessa bandiera. Alla fine, però, ciò
che conta è l’intelligenza che dimostreremo giorno per giorno. La capacità di ragionare di più, proprio
quando gli eventi incoraggiano il sonno della ragione. Se l’obiettivo dei terroristi è, come dice Orwell, quello
di diffondere la paura per vincere dove le armi della politica e quelle della guerra sono spuntate, allora
questa è una sfida non tanto tra noi e gli altri. Ma tra noi e noi stessi. Tra il progresso ed il fanatismo che ne
è l’ineliminabile alter ego. Tra la voglia di andare avanti e quella – che pericolosamente si insinua in
Occidente – di chiuderci in difesa di ciò che abbiamo e che si sta sgretolando.
Economia Asiatica ed Europea nei prossimi 10 anni
Intervento di Alberto Forchielli circa l’andamento dell’economia europea ed asiatica nel medio termine.
2015, sarà l’anno della svolta?
di Saro Capozzoli, Jesa
Siamo giunti alla fine del 2014 ed è tempo di riflessioni. É stato un anno che si è rivelato difficile ma che, a differenza di altri, marca una serie di spartiacque che segneranno il prossimo futuro per l’Italia, e non solo.
Sotto la guida di Xi Jinping, il governo cinese ha approvato ed avviato una serie di riforme per una stabile e definitiva evoluzione e maturazione del paese. La Cina sta cambiando ed il percorso riformativo intrapreso consacrerà una volta per tutte nel nostro immaginario collettivo l’idea di una Cina non più di un paese in via di sviluppo ma potenza responsabile di un reale peso globale.
La campagna anti corruzione, con gli annessi terremoti politici, l’interruzione dell’intervento dello Stato a supporto d’imprese statali e banche in perdita e la contemporanea apertura agli investimenti stranieri in settori strategici fino ad ora riservati solo alle imprese Cinesi (il settore sanitario e previdenziale per esempio), sono solo alcune delle riforme il cui l`obbiettivo è quello di mostrare alla comunità internazionale l’affidabilità del “sistema” Cina e la sua graduale apertura verso una presenza straniera consistente. Chiaramente, dal punto di vista Cinese, il vantaggio di una politica paritaria per imprese locali e straniere è doppio. Non solo l’apertura richiamerà investimenti e genererà nuovi posti di lavoro ma consentirà allo stesso tempo alle imprese locali di alzare i propri standard e migliorare le proprie pratiche industriali col fine ultimo di rafforzare la propria posizione su scenari internazionali.
Dal canto suo, il tessuto imprenditoriale Italiano, non si mostra completamente sprovvisto di una certa “politica” estera. Infatti, nonostante la battuta d’arresto dell’export verso la Russia (circa -20% registrato negli ultimi mesi), la media industria ed imprenditoria italiana sta continuando a internazionalizzarsi con una tendenza sorprendentemente crescente. Ad oggi sono 21830 (dati ISTAT), le imprese italiane all’estero. Presenti in 160 paesi con 1.6 milioni di addetti mostrano un fatturato aggregato di 564 miliardi di Euro. Il fenomeno ha una certa rilevanza. Infatti, non solo aumentare la presenza di imprese nostrane in territori stranieri è utile per aggredire ulteriori nuovi mercati ed espandersi globalmente ma, rafforzando l’impronta internazionale si tutela e si preserva la funzionalità delle sedi centrali Italiane ed i posti di lavoro a casa nostra!
Questa tendenza va tuttavia rinforzata: la ricerca di partner globali e un’espansione ponderata rimane dunque una priorità. Nel mutato contesto odierno non sarà più sufficiente asserire per l’ennesima volta che, nonostante tutto, il nostro PIL rimane tra i primi 10 al mondo e che la nostra economia rimane fortemente industrializzata oltre che evoluta. Ma piuttosto una seria iniziativa di espansione e progressione è necessaria per assicurare la competitività futura ed affrontare con successo e da protagonisti le crescenti sfide che giungono dall’Asia. Se non lo facessimo rischieremmo di perdere sempre più competitività, e nel medio termine di crollare nelle classifiche; cosa che non possiamo permetterci se vogliamo mantenere un ruolo di spessore in Europa e nel mondo.
Se non attraverso un’internazionalizzazione produttiva, rimane comunque necessario tenere in considerazione le opportunità commerciali che il grande mercato Cinese ed i suoi cambiamenti interni offrono. Basti pensare che solamente il 2.5 % dell’export italiano è diretto verso questo paese, mentre la nostra dipendenza è importante: la Cina rappresenta ormai il 20% di tutto il nostro import e genera un saldo commerciale negativo di circa 1 miliardo di Euro (al 11.2014). Cina, India e Indonesia rappresentano il 20% della crescita mondiale e a breve rappresenteranno un terzo di quella futura: la Cina permane quindi un grande obiettivo.
L’attrattiva principale risiede sicuramente nella crescita costante e robusta della classe media (con capacità di spesa giornaliera tra 10 e 100 USD) il cui bacino passerà progressivamente da 150 milioni di persone a 500 milioni entro i prossimi 10 anni, con un aumento dei consumi in settori come l’abitazione, l’istruzione, il turismo, l’alimentazione e la sanità. In un momento in cui il governo appoggia e spinge la popolazione a “consumare” (consumi che, dal 50% attuale peseranno per il 60% del PIL entro il 2020, quindi 1000 miliardi di USD in più) è necessario riflettere sulle nostre strategie future.
Ma c’è un altro fenomeno che in chiusura di 2014 è necessario sottolineare e che è per certi versi paritetico nonché opposto all’internazionalizzazione nostrana: la globalizzazione delle aziende cinesi. Nonostante il rallentamento che l’economia cinese abbia fatto registrare in questi ultimi mesi, in gran parte dovuto all’aggiustamento del PIL rispetto le ricadute della corruzione e alla spesa fuori controllo che il governo ha scelto di calmierare, la crescita interna è destinata ad aumentare grazie alla fase di internazionalizzazione della Cina verso il mondo esterno. Cogliere l’opportunità di crescere e trovare spazi insieme alle aziende cinesi che vogliano espandersi e collaborare con partners stranieri nel mondo è un’occasione più vicina di quanto si pensi.
Dal canto nostro è necessario uno sforzo, un cambio di mentalità importante. Se impareremo a capire che alleanze forti e strategiche con players internazionali (tra cui si annoverano ad oggi anche imprese Cinesi) non rappresentano una minaccia ma un’opportunità unica da valutare e cogliere, forse riusciremo a sbloccare l’Italia. Il nostro sistema di imprese è composto da magnifiche realtà, spesso uniche nel panorama mondiale seppure piccole, ma a volte gestite con visioni e metodi superati che trovavano “spazio” e senso negli anni ’80 e ’90. Queste modalità di conduzione non sono più redditizie e possibili al giorno d’oggi.
Il mondo è cambiato. Non solo a causa della crisi, ma anche e soprattutto a causa dell’impatto dell’uso del web, settore in cui, peraltro, il nostro paese ha una colpevole arretratezza. In un contesto connotato da queste “peculiarità”, restare “soli” ad affrontare una sempre più aggressiva e tecnologicamente avanzata concorrenza internazionale, e fiancheggiati da un sistema finanziario e bancario incapace di supportare le necessità economiche di sviluppo internazionale delle nostre imprese, non è un’alternativa perseguibile.
L’unica strada percorribile per acquisire forza è quella dell’aggregazione reciproca o dell’apertura del capitale a partner stranieri che possano portare, insieme ai benefici derivanti dall’unione delle forze, capitali finanziari, valore industriale, strategico e di mercato.
Il tema dell’apertura del capitale d’impresa verso entità esterne è piuttosto controverso. Ogni qualvolta che affronto l’argomento con la classe imprenditoriale mi ritrovo spesso dinnanzi a secchi rifiuti. Rimango tuttavia convinto che molte realtà potrebbero muoversi più velocemente e con più forza sui mercati emergenti, cosi come su quelli maturi, se solo il nostro contesto fosse abbastanza maturo da permettere una comunicazione efficace, non solo con imprese locali cinesi, ma anche con imprese in altri mercati di riferimento.
Il fatto che la maggior parte delle M&A cinesi si stiano concentrando nel nord Europa, in paesi come la Germania e la Gran Bretagna, che apparentemente non sembra di essere in difficoltà, deve far riflettere. Anche in Spagna spesso accade che la notizia di una partecipazione estera in un’azienda locale venga entusiasticamente riportata dai media come un forte riconoscimento del valore delle proprie aziende. In Italia invece, l’informazione addita qualsiasi operazione di M&A come una svendita di Made in Italy, un rischio, un fattore negativo. Mi chiedo, cosa sarebbe successo alle aziende oggetto di acquisizione se fossero rimaste da sole ad affrontare i mercati, le crisi, la carenza di risorse?
La responsabilità dei media, nell’influenzare l’immaginario comune, fa la sua parte in un periodo delicato come il nostro. L’Italia potrà maturare solo quando il mondo potrà essere descritto correttamente da persone a conoscenza delle dinamiche macroeconomiche che lo stanno cambiando. Non è poi certo con il populismo e con le false promesse che cambieremo l’Italia. Servono riforme capaci di cambiare sostanzialmente il paese. Serve creare il giusto clima, dimostrare affidabilità e avere larghe vedute.
Serve portare gli investitori a credere in noi. D’altro canto è solo per mezzo di investimenti, rinnovata forza imprenditoriale, crescita e posti di lavoro che sarà possibile restare un paese di riferimento in Europa e nel mondo, per non finire come la Grecia, se non peggio.
Promuovere salute pubblica. Insieme si può
di Giuseppina Bonaviri
E mentre nella provincia di Frosinone, in questa settimana, si sono rieletti gli organi direttivi dell’ordine dei medici (più in segno di autocelebrazione di un passato superbo per pochi nostalgici che passo avanti per un rinnovamento di progetti, donne, uomini ed idee) in Europa si assiste al compimento di un iter programmatico d’Azione dell’Unione in Materia di Salute che si propone di sostenere e aggiungere “ valore alle politiche degli Stati membri per migliorare la salute dei cittadini dell’Unione, ridurre le disuguaglianze in termini di salute incoraggiando il progresso in ambito sanitario e accrescendo la sostenibilità dei sistemi sanitari che proteggono dalle gravi minacce sanitarie transfrontaliere.”
Con una dotazione di circa 450 milioni di euro, il programma finanzierà azioni che mirano a: “promuovere la salute, prevenire le malattie ed incoraggiare ambienti favorevoli a stili di vita sani; individuare e sviluppare approcci coerenti e promuoverne l’attuazione per essere più preparati e coordinati sulle emergenze sanitarie; sostenere lo sviluppo di capacità in materia di sanità pubblica e la realizzazione di sistemi sanitari inediti; facilitare l’accesso a un’assistenza sanitaria migliore e più sicura; migliorare l’accesso alle competenze mediche e alle informazioni concernenti patologie specifiche su scala transnazionale; facilitare l’applicazione dei risultati della ricerca e sviluppare strumenti per migliorare la qualità dell’assistenza sanitaria e la sicurezza dei pazienti anche attraverso azioni che contribuiscano a migliorare l’alfabetizzazione sanitaria”.
Allora, parlare di alfabetizzazione sanitaria vuol significare parlare di prevenzione e di luoghi innovativi dove l’accoglienza e la buona prassi fanno da padroni di casa cosa non facile dalle nostre parti considerati patti e piani sanitari oltre le marce o le proteste di qualche amministratore locale indignato. Le priorità che l’Ue chiede sono quelle che promuovono la salute prevenendo le malattie ed incoraggiando ambienti favorevoli a stili di vita sani tenuto conto che “la salute in tutte le politiche” fa uso di un potenziale scientifico rinnovato volto alla prevenzione e alla gestione delle principali malattie croniche come diabete, malattie cardiovascolari, disturbi mentali. Identificare questi pilastri, integrandoli, sarebbe auspicabile anche nelle nostre aziende sanitarie.
Dunque siamo in grado di sviluppare, in Ciociaria, una visione generale su come (e dove) agire forme di diagnosi precoce che rappresentano “le azioni efficaci ed efficienti al miglioramento e al controllo delle malattie croniche con un diretto impatto sulla prevenzione e la riabilitazione delle stesse? ” Per identificare i criteri di utilizzo delle diagnosi precoci nell’organizzazione del sistema sanitario e per sviluppare piani di attuazione basati sull’analisi dei costi-benefici necessitiamo di approfondimenti e di discontinuità. Ciò anche al fine di fornire una pianificazioni sulle fasi dell’attuazione delle cosiddette strategie interterritoriali di screening, come gli attuali programmi europei raccomandano. Saremo in grado nei nostri territori di retroguardia, di sviluppare metodi rigorosamente scientifici per promuovere, ad esempio, semplicemente il reinserimento professionale di persone pre-fragili con patologie croniche e mentali migliorando la loro occupabilità? Saremo in grado di contribuire alla realizzazione di sistemi sanitari sostenibili in settori “collegati all’adesione alla cura, alle fragilità, alle cure integrate e alle patologie multi-croniche”? Queste azioni, se coordinate e mirate oltre alla valorizzazione e all’impiego di mezzi ad avanzata tecnologica, permetteranno la costruzione di Linee Guida locali per il miglioramento della gestione dei nostri pazienti e aiuteranno la messa in atto dell’uso trasparente dei dati medici che, oggi, appaiono fondamentali all’ottimizzazione dei sistemi di assistenza in rete.
Augurando al “neo-direttivo” dell’ordine dei medici provinciale un buon proseguimento vogliamo lanciare una sfida. A supporto del monitoraggio e della ricerca scientifica in tutti i settori della politica sanitaria provinciale, creando una Rete delle attività rilevanti con partners qualificati in ambito medico-tecnologico si supererà quella frammentazione di personalismi e di incarichi dirigenziali sanitari inutili e costosi, che nulla hanno a che fare con le progettualità qualificate in materia di best practice e di informazione sanitaria. L’obiettivo è quello di preparare la transizione verso un sistema sostenibile ed integrato per la salute pubblica e per l’innovazione medica possibile anche nel nostro capoluogo. Creando sinergie tra cittadini, politici, amministratori, tecnici del settore, scienziati, universitari, medici, personale para sanitario, esperti si potrà arrivare alla creazione di un lavoro corale che porterà Frosinone alla diretta partecipazione nell’ambito dell’attuale settenario europeo “Orizzonte 2020”.
Ci riusciremo oltre le caste e i singoli interessi?
Buon Natale e un 2015 di svolta euro – mediterranea
Michele Mezza: “Napoli e il Sud, il rosso e il nero dell’italianità…”
di Laura Bercioux
Quale è il suo rapporto con Napoli e il Sud?
Cosa ricorda di bello e positivo?
Qual è la percezione della reputazione di Napoli nel suo ambiente di lavoro?
Attualmente qual è l’opera più simbolica?
Qual è l’autore più rappresentativo?
Domenico Rea parlò di due Napoli che vivono fianco a fianco ma separate (la borghesia e i lazzari) e senza diventare popolo: Le sembra una chiave di lettura ancora attuale?
Raffaele La Capria parla di ferita insanabile aperta nel 1799. Quando i lazzari presero i borghesi illuminati nelle loro case e li trucidarono sulla piazza completando l’opera del Cardinale Ruffo… Questa ferita ancora sanguina a suo avviso o è una enfatizzazione letteraria.
Cosa farebbe se fosse il sindaco di Napoli?
Cosa non farebbe mai se fosse il Sindaco di Napoli?
A Hundred-Year Stagnation? For Who?
The creation of the Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) is a necessary objective. Anyone who travels in the Far East finds confirmation of the desperate lack of efficient networks. With the exception of Japan and other developed economies, countries see their ambitions reduced by chronic underdevelopment.
How can we forcefully industrialize agrarian countries if the goods produced are not transported on paved roads, via trucks, for eventual export? Is it reasonable to use polluting energies to then spend the earnings cleaning the air and water after only a few years?
Two years ago, McKinsey published a report on Asia’s infrastructure necessities, and it was a milestone for analysts, engineers and governments. The needs and opportunities are impressive. Even in the depths of crisis, Asian countries seem inclined not to bend from the desire to grow. They can count on internal resources, acquired know-how and international cooperation.
And they are wheedling this more than in the past. Administrative rigidities have been softened – a frequent vehicle for not-so-transparent awards – and, in general, there is a climate of greater cooperation with multinationals.
The numbers are striking. The report says more than US$ 8 billion will be invested in Asian infrastructure over 10 years. The fraction reserved for foreign companies is incredibly tempting: US$ 1 billion. Clearly, infrastructure is considered an absolute priority: energy and transportation are not similar to any other exchanged good.
In Boston and Washington where I live and work, the intellectual debate goes beyond these sums. Perhaps US$ 8 billion over 10 years is not impressive on the other side of the world and cannot revise the pessimistic predictions of a “hundred-year stagnation.”
The quote belongs to Larry Summers, Harvard professor and Treasury Secretary under Bill Clinton, and director of the National Economic Council under Barack Obama. His prestige makes his predictions even more alarming. We’re probably heading toward a hundred-year stagnation, where the progresses of the past will be memories.
The very concept of growth is called into question. It’s not necessary and perhaps no longer achievable. We habitually read about economic concepts in the news: liquidity traps, recession and reluctance to invest. Summers argues that deflation cannot be cured with monetary maneuvers. No interest rate will be sufficiently low to stimulate investments.
The predictions are arresting, with the knowledge that prices will be lower with every passing day. The recovery of the last few years was faint (nonexistent in Europe), uncertain, fragile, not homogenous and short-lived.
Paul Krugman confirmed Summers’ analyses and pushes them toward political aspects. Governments, he says, should be more audacious and forget the inflationist phobias of monetarist schools of thought, otherwise Summers’ predictions will become a tragic, fateful reality.
The Nobel laureate writes: “In this situation, the normal laws of economics don’t apply; virtue becomes vice, prudence transforms into folly.” Therefore, we need to defeat savings with any type of spending. Summers and Krugman regretfully recognize that pre-crisis growth was due, more than anything, to bubbles that then burst. Now it’s too late, and the economy’s tailspin leaves little hope.
The two economic gurus’ arguments are beyond reproach. Their theoretical approach is solid. But are the consequences of their analyses acceptable in developing Asia? Can governments resign themselves to stagnation? Can citizens tolerate centuries more of privations because there are not enough finances for development?
McKinsey reminds us that wealth created overseas also creates income for multinationals. GDP created in Asia needs resources, and it’s not a given that they need to come from China necessarily. If stagnation is a real threat in the West, Asia does not automatically have to follow the same path.
Actually, a security valve capable of compensating for growth differences and breathing oxygen into the asphyxiating economy could be built. However, all of this entails a new definition of international assets that need courage and forward thinking.
As long as traditional institutions like the World Bank and Asian Development Bank finance Asian infrastructure, we will likely witness a slow decline. If, instead, the G8’s offices accept the birth of new players like the AIIB, China’s role will be less marginal and Asia’s future more promising.
Alberto Forchielli is the managing partner of Mandarin Capital Partners