alessia.centioni
Democrazia significa capitalismo uguale per tutti?
Dopo il G20, le questioni primarie dell’agenda internazionale in materia economico-monetaria passano sul tavolo di Praga. Le questioni, o meglio la questione del vertice rimane la supervisione finanziaria.
L’Europa giunge ancora divisa a causa di una Londra refrattaria a potenziare il ruolo della Bce, mentre riesce ad apparire unita nel sostenere l’avvicinamento dei criteri contabili tra Europa e Stati Uniti sugli asset tossici. I ministri europei sono tutti concordi con le linee guida individuate nel rapporto dei saggi presieduto da Larosiére, ma escono dal vertice ancora inconsapevoli riguardo ad un modello comune da adottare all’unanimità per realizzare la struttura di supervisione.
L’ostacolo rimane sempre Londra che si oppone, come ribadito dal Cancelliere dello Scacchiere Darling, al nuovo organo European Systemic Risk Council, che si occuperà del monitoraggio e ove necessario esprimerà raccomandazioni nel settore macro-prudenziale. In altre parole Londra si oppone a rafforzare l’autorità della Bce nella guida del Consiglio europeo dei rischi sistemici.
Come se non bastasse, Darling ha espresso parere negativo anche al potere di mediazione, ma pur sempre vincolante, delle associazioni europee di supervisione a livelli micro-prudenziali da esercitare quando si riscontrino contrasti tra le Autorità nazionali. E’ evidente che il rifiuto al rafforzamento delle istituzioni che operano una vigilanza macro-prudenziale, unito a quello ulteriore per la sorveglianza micro-prudenziale, atta a verificare la solidità e l’onorabilità degli istituti e degli operatori finanziari, non fa che affossare il progetto d’integrazione in questo settore e lascia a briglie sciolte un sistema che soprattutto nell’ultimo tragico anno economico ha dimostrato esigere una vigilanza omogenea e vincolante di livello globale, se non altro, e non sembra poco, per tutelare l’integrità del mercato e dei risparmiatori.
Come ribadito da Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia e presidente del Financial Stability Board, in un’economia mondiale giunta a livelli altissimi di integrazione è necessario partire da un sistema di regole comuni in fatto di vigilanza finanziaria; è innegabile ravvisare le carenze della struttura normativa europea nella regolamentazione quanto nella prassi di supervisione, che si concentrano esclusivamente su singoli istituti finanziari trascurando il sistema d’insieme. E’ proprio questo approccio macro-prudenziale a delinearsi come il più efficace ma allo stesso tempo il più temuto nei sistemi economici e giuridici mondiali.
Tutti, nonostante le divisioni, convengono sulla necessità di migliorare i risultati fin qui raggiunti; Francia, Germania e Italia sono in linea con la proposta francese di Larosiére ma sanno di non poter escludere il Regno Unito.
Più malleabile è stato invece il tema delle regole contabili europee, rese più flessibili per ridurre al massimo gli svantaggi della competitività con gli Stati Uniti nella contabilizzazione degli asset tossici. La convergenza tra Ue e Usa è stata supportata dalla raccomandazione dell’Ecofin che chiedeva all’Iasb (International Accounting Standards Board ) di collaborare a stretto contatto con la Fasb (Financial Accounting Standards Board) per scongiurare divergenze di contabilità per gli strumenti finanziari.
Ca va san dire in Europa riescono a stabilirsi i principi, ma non le modalità di attuazione. L’eterogeneità politica e giuridica allora è assicurata. Al di là degli interventi, spesso (marginali e insufficienti) predisposti in questa settimana di vertici internazionali sarebbe bene mettere in atto sostegni strutturati capaci di affrontare le conseguenze imprevedibili e non quelle volute, che la governance mondiale ha comunque dimostrato di non saper prevedere. Le dichiarazioni, gli accordi dei vertici che si sono susseguiti da Londra a Praga probabilmente non hanno ancora dimostrato la volontà del capitalismo di autoriformarsi. Piuttosto emerge la prospettiva di un’economia più politicizzata, dove lo stato fa da cuscinetto ad operatori privati che non ha saputo tenere al guinzaglio. Il futuro attende una ripresa forse lenta e difficile, ma di sicuro il capitalismo di questo passo si consegnerà ad uno stato indolente e impreparato, o peggio ad una politica indolente e impreparata, che non potrà più giustificarsi dietro la sovranità nazionale per sottrarsi a responsabilità globali e che, impotente non riuscirà a rispondere alle sfide economiche sia nazionali che sovrannazionali. A quel punto sarà troppo tardi per tirare il freno e non sapremo più con chi prendercela.
Governance mondiale e crisi finanziaria in salsa G20
Il G20 di Londra sin dall’ inizio si è annunciato difficile. Le posizioni prospettate erano molto diverse, specchio di sistemi diversi nella divisione del lavoro come nella natura giuridica.
Obama si è trovato a fare i conti con players riottosi alle proposte made in Usa, come made in Usa è la crisi da affrontare al G20, ha ricordato con (il solito) disimpegno il presidente Silvio Berlusconi.
Prima del vertice di Londra, il Presidente americano aveva annunciato tra le contromisure alla crisi interna, la riforma drastica nel controllo finanziario con lo scopo di sottoporre hedge fund e derivati alle regole di vigilanza attualmente esercitate sugli istituti bancari. Giunto in Europa, Obama si è dovuto rendere conto che ciò non è bastato a convincere l’asse Berlino-Parigi che chiedeva maggiore vigilanza finanziaria nella prospettiva di disciplinare il mercato globale con regole comuni.
Proposta assolutamente chiara e rigorosa per isolare gli asset tossici, ripulire e rilanciare il sistema, più di quanto non lo siano gli incentivi sostenuti da USA e Gran Bretagna. L’opposizione europea alla ricetta obamiana nasce dalla convinzione franco-tedesca che le continue iniezioni di moneta non risolvano la situazione ma al contrario, la aggravino, spingendo l’economia mondiale ancora più giù, nella spirale dell’aumento del debito e dell’inflazione. Mentre la Cancelliera e il Presidente francese al tavolo tenevano ben in mente il ruolo del wealfare state nelle loro economie nazionali (e di tutto il vecchio continente), Hu Jintao aveva presente il potere della sua Cina sulle casse statunitensi.
Detentore di una larga fetta del debito pubblico americano, la Cina è anche il paese che dopo gli Stati Uniti ha immesso, con 500 miliardi di dollari, la quota più elevata per tamponare la deriva finanziaria. Se al vertice i cinesi stringevano la mano agli americani e li rassicuravano sull’accordo per nuovi incentivi, con l’altra tiravano una proposta bomba: abbandonare il dollaro come valuta globale di scambio; allo stesso tempo strizzando l’occhiolino anche alla Germania, convenivano sulla necessità di un’authority mondiale. La capacità strategica di Pechino è riuscita a destare affinità anche nel cuore dell’Europa dove, la Germania come la Cina fonda sull’esportazione gli attivi commerciali, contrariamente a Stati Uniti e Regno Unito che si sostengono a vicenda, consci del loro deficit di risparmio pubblico e privato.
La conclusione del summit ha raggiunto l’accordo sul rifinanziamento del Fondo Monetario Internazionale per mille miliardi di dollari. Il provvedimento è fondamentale, perché interviene in aiuto dei paesi in bancarotta, e inoltre prevede che 250 miliardi del fondo siano destinati per il cosiddetto ‘Special drawing rights’ (diritti speciali di prelievo, una sorta di valuta virtuale del Fmi che può essere scambiata con dollari, euro, yen e altre monete pesanti). “Previsti anche 5.000 miliardi di dollari che saranno stanziati nell’economia mondiale entro la fine del 2010”, ha annunciato Brown. Un altro accordo raggiunto è quello sui paradisi fiscali e bancari: dal vertice esce l’impegno preciso a mettervi fine sulla base di una lista Ocse.
L’organizzazione porta due elenchi: nella black list compaiono Costa Rica, Malaysia, Filippine, Uruguay. Nella “lista grigia” invece 38 paesi tra cui Lussemburgo, Svizzera, Austria, Belgio, Singapore, Cile e Isole Cayman, Liechtenstein, Antille olandesi, Belgio e Principato di Monaco, che, pur essendosi impegnati a rispettare le regole dell’Ocse le violano. Sanzioni saranno applicate a quei paesi che non forniranno le informazioni richieste dalle autorità di controllo ed i vincoli amministrativi saranno più severi, impedendo di depositare fondi in questi paesi. I G20 annunciano la fine del sistema bancario ma la Cina ha chiesto che Hong Kong e Macao ne siano escluse, in questo modo il rischio di spostamenti di capitali verso oriente è più di un rischio, è una certezza.
Parole dure anche sui bonus e gli stipendi dei dirigenti. “Non ci saranno più bonus per chi provoca fallimenti”, ha detto Brown, e le retribuzioni dovranno riflettere la performance, mentre i nuovi vertici delle istituzioni finanziarie dovranno venire assunti sulla base del merito.
E’ soddisfatto Gordon Brown, presentando al termine dei lavori del G20 il documento finale. Un accordo raggiunto a fatica dai leader riuniti a Londra, un testo sezionato e cambiato più volte, per trovare una mediazione fra le spinte contrapposte di Stati Uniti (con l’appoggio inglese), e Francia e Germania (con sostegno italiano). Le misure assunte a Londra appaiono senza dubbio marginali, non sufficienti a ripristinare un ingranaggio bloccato e lasciano deluse le aspettative di risanamento. Alla fine del summit è inevitabile domandarsi quale sia la portata effettiva di questi vertici, non propriamente istituzionali, legittimati direttamente non si sa ancora da chi, che mal riescono ad assumere di concerto strategie comuni. L’Europa continua a non ricoprire un ruolo autorevole, giacchè si sentono due voci per due paesi invece che una per ventisette. La fine del summit lascia il posto a molti interrogativi, come quello sull’opportunità di rivedere e modificare la governance mondiale.
Il G20 non avrà dato risposte risolutive alla recessione ma è certo che quel tavolo abbia confermato il cambiamento dell’assetto politico mondiale in cui la Cina è al centro.
La volontà di Francia e Germania di stabilire regole di vigilanza nell’economia mondiale è sembrata il punto di vista istituzionale e moderato della medesima critica mossa dai contestatori che hanno invaso il cuore della city; dal’altra parte il piano Geithner-Obama appare oscuro se si riflette a fondo sulle origini e le conseguenze delle immissioni di liquidità. Esse infatti garantiscono operatori privati, ad esempio nell’acquisto di titoli tossici, proteggendoli con solidi fondi da eventuali rischi. Ma questi “solidi fondi” a chi appartengono? Alle casse pubbliche, ai contribuenti. Ovvio.
Si può comprendere allora il principio liberista di sostenere gli operatori privati che assumono il rischio dell’investimento, ma chi assicura che con qualche correzione il sistema riparta senza incepparsi ancora?
Continuare a rattoppare la superficie non colmerà le voragini di un sistema precipitato per squilibri reali.
La pessima distribuzione del reddito, il continuo incitamento al consumo irrazionale, l’esaurimento del risparmio privato e il ricorso all’indebitamento pubblico ci portano a Londra per trattare con una Cina potente che usa il capitale e l’autorità per dettare le condizioni o quantomeno avere l’ultima parola.
Per quanto appaia remota l’ipotesi di una tanto invocata nuova Bretton Woods, l’idea di world regulation è senza dubbio l’alternativa più efficace e responsabile rispetto a palliativi costosi e di strette vedute inadatti ad uno sviluppo di lungo periodo. Il prestito va reso, sempre. Se ora creditore è la Cina, un domani più vicino di quanto non si immagini, sarà l’ambiente a presentare il conto. Allora (nel nostro bel paese) quanto pagheremo per la nouvelle vogue di cemento e nucleare?