Le mosse inevitabili del prossimo presidente USA
di Alberto Forchielli, Mandarin Capital Partners
I problemi degli Stati Uniti d’America sono noti e riassumibili con la frase chi vuole consumare non ha i soldi per farlo mentre chi è in cima alla piramide sociale non sa più cosa comprare. E la campagna elettorale, a colpi di slogan, ha lanciato soluzioni d’impatto, immaginando un’economia che funzioni per tutti – e non soltanto per l’1%della popolazione più ricca – e ipotizzando assistenza sanitaria universale, college e università pubblica gratis e che ricchi e corporation paghino la giusta parte di tasse. Per un Paese che ha un mercato del lavoro molto flessibile e che ormai ha perso definitivamente la sua celeberrima vocazione industriale.
Dopo il mio recente soggiorno a Washington, tra frequentazione del Congresso e di alcuni interessanti “think tank”, posso dire di non avere dubbi sul fatto che le questioni principali dell’agenda statunitense seguiranno l’orientamento populistico e isolazionistico che l’opinione pubblica americana auspica da qualche tempo e che indipendentemente da chi sarà il successore di Obama alla Casa Bianca, questo è ciò che non potrà non accadere.
Innanzitutto sgombriamo il campo da equivoci. Con il sistema bicamerale a stelle e strisce, la premessa da fare è che il vincitore non potrà cambiare radicalmente le leggi del Paese perché se anche il senato tornasse ad essere democratico, la camera rimarrà repubblicana e il nuovo presidente non potrà avere mano libera ma dovrà gestire comunque il consenso in modo bipartisan.
Detto ciò, un “must” in arrivo è la svalutazione del dollaro. Siccome aumentare le tariffe e costringere le aziende a ricollocare la produzione negli USA rappresentano, sia tecnicamente sia politicamente, soluzioni impraticabili, l’unica mossa che l’Amministrazione potrà fare per limitare il crescente aumento del deficit commerciale sarà svalutare la propria moneta. E poi, finalmente, si affronterà la questione delle infrastrutture, che dovranno essere ammodernate “per forza”. Esse difatti sono datate e il loro mancato ammodernamento costerà migliaia di miliardi di dollari all’economia statunitense in termini di calo della produzione. Per esempio, uno studio dell’American Society of Civil Engineers, rivela che il danno sul PIL sarà pari a 4mila miliardi di dollari fra il 2016 e il 2025 in termini di vendite e attività produttive perse. Per 2,5 milioni di posti di lavoro in meno. E secondo lo stesso rapporto, sarebbero necessari investimenti in infrastrutture per 3.320 miliardi di dollari. Così oggi la questione non è più rimandabile e ammodernare le infrastrutture, dopo averle trascurate per 50 anni, darà vigore all’economia USA, liberando investimenti e creando occupazione.
Per quanto concerne le questioni internazionali, si farà il “rammendo russo”. Nel senso che agli USA della crisi ucraina e del delicato rapporto tra Russia e Unione Europea interessa ben poco e quindi sarà più che plausibile un tentativo di riavviare da parte americana i rapporti economici con la Russia. Prevedo quindi una fine delle sanzioni abbastanza rapida.
Sempre sul fronte “esteri” vedo un paio di “disimpegni” in termini geo-politici-militari tanto importanti quanto inevitabili.
Il primo è verso l’Asia, con Washington che ha preso atto dell’esito fallimentare del progetto “Pivot to Asia” di Obama – frutto dell’egemonia americana dell’ultimo quarantennio come “poliziotto” del mondo – e perciò si rassegna a lasciare alla Cina il suo spazio vitale nel continente asiatico giocando solo di rimessa sostenendo Giappone, Filippine e Vietnam. Mentre, sul piano economico (precisamente su commercio e investimenti), con la Cina, al contrario di quanto speravano i Cinesi, non firmerà nessun accordo bilaterale sugli investimenti (al contrario di ciò che scioccamente si accinge a fare la EU) perché gli USA non intendono subire l’andata di investimento cinese cui è sottoposta l’Europa è certamente non daranno ai cinesi lo status di “economia di mercato” dopo che loro hanno disatteso tutte le regole del WTO (cosa che la Commissione EU pensava di fare prima di essere bocciata dall’euro-parlamento).
Il secondo “disimpegno” è nei confronti delle crisi mediorientali, che, semplicemente, lasceranno sbrigare alla UE. Gli Stati Uniti si sono resi conto che in Medio Oriente il problema è irrisolvibile. Con il risultato che noi europei ci troveremo sempre più soli e con meno appoggio militare. E la conseguenza? Riguarda proprio noi. Perché dovremo imparare a cavarcela da soli, anche e soprattutto militarmente. E non sarà facile.
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