Renzi e l’elogio della follia
di Francesco Grillo
Forse non è la meno battuta delle strade, ma certamente è strettissimo il cammino che Matteo Renzi ha scelto per riuscire in un’impresa che sfugge a chiunque da vent’anni: fare uscire l’Italia dalla palude. Il leader del Partito Democratico, infatti, deve riuscire in tre imprese titaniche: riavviare un’economia in recessione da nove trimestri; realizzare una nuova legge elettorale, portare a compimento le riforme costituzionali senza le quali la stessa legge elettorale non può entrare in vigore. Perdere anche solo una delle tre partite comprometterebbe il risultato finale e la complicazione è che in tutti e tre i casi condizione necessaria per riuscire è il supporto continuo di quelli che, in teoria, sono suoi avversari politici (la minoranza del PD, il Nuovo Centro Destra, Forza Italia). I rischi politici sono elevati quanto quelli che corre un soldato che arrivato in trincea decide di uscirne andando all’assalto con la baionetta provando a trascinarsi dietro un esercito stanco.
Tuttavia, se fu un principio di razionalità cartesiana tipico di certi grandi burocrati quello che ha guidato e frenato Enrico Letta, sembra invece l’”elogio della follia” di Erasmo, lo stesso citato spesso da Berlusconi, ad ispirare Matteo Renzi. L’intuizione potrebbe, in effetti, essere giusta: trasformare in forza quella che sembra a tutti un’evidente debolezza.
In effetti, il tentativo del leader del PD è anche l’ultima spiaggia per un intero Paese arrivato al capolinea. Se la politica italiana fallisse, l’Italia si troverà ad aver esaurito tutte le sue “riserve della Repubblica” e la società italiana avrà, forse, perso la sua ultima speranza. La disperazione è, peraltro, una forma di assicurazione sulla vita per Matteo: nessuno dei suoi concorrenti (incluso Berlusconi) ha davvero voglia di sostituirlo perché nessuno di quelli che hanno provato negli ultimi vent’anni a governare una crisi difficilissima è riuscito a trovare soluzioni e tutti – anche quelli arrivati con maggioranze e aspettative ben superiori – sono stati regolarmente sconfitti appena si è tornati alle elezioni. Inoltre, i costi di un fallimento risulterebbero enormi anche oltre i confini nazionali riportando sull’orlo del baratro l’unione monetaria che ancora gode di salute malferma: ciò è un’ulteriore opportunità, a patto che Renzi la usi per costruirsi una rete di alleanze e protezioni di cui è quasi completamente sprovvisto.
Se dunque la forza di Renzi è l’inevitabilità del cambiamento, vale la pena usarla per imporre – subito – una road map per uscire dalla depressione. Il metodo è proprio quello suggerito dal più improbabile degli alleati del Sindaco, Angelino Alfano, secondo il quale sul famoso file excel devono esserci: il nome delle quattro, cinque cose indispensabili per rianimare un Paese bastonato; la definizione dei tempi e, soprattutto, delle responsabilità di ciascuno di tali compiti. Del resto, il titolo della sfida e i nomi dei capitoli sono chiari. La montagna da scalare si chiama una drastica riduzione della spesa pubblica che consente di ridurre e semplificare le tasse, condizione indispensabile per ricominciare ad avere impresa, e spostamento della spesa stessa da utilizzi improduttivi ad investimenti sul futuro.
Più in particolare.
Non ha futuro un Paese che, tuttora, spende in pensioni – il passato, cioè – – tre volte e mezzo quello che spende in educazione – dunque nel suo futuro – dagli asili nido all’università: occorre che un Governo che prenda le questioni di petto, aggredisca la questione dello stock delle pensioni esistenti usando i risparmi (che possono essere ingenti) in un drastico aumento di competenze a tutti i livelli.
Non ci si può più permettere la convocazione di un altro esperto di revisione della spesa per poi fargli partorire topolini ridicoli, dopo aver smosso montagne di negoziazioni con i sindacati. È il tempo di Renzi ed è il momento che qualcuno dica finalmente la verità – e cioè che nessuna revisione può essere intelligente se non e’ possibile toccare gli impiegati pubblici – e cominci a realizzare a casa propria (magari tra le società partecipate dal Ministero dell’Economia) qualche robusta razionalizzazione sulla base della valutazione dei risultati.
Non si può più blaterare di attrarre investimenti esteri o rimproverare alla FIAT di “scappare”, se non ci dotiamo – in non più di due anni – di una giustizia e di un fisco che funzionino in maniera normale (altro che perdere mesi nella rimodulazione dell’IMU), dando a tutti la certezza dei propri obblighi e dei propri diritti nei confronti dello Stato e degli altri cittadini.
E si dovrebbe vietare l’ennesima lamentela sulla mancanza di risorse per la cultura e per il turismo, se uno che per mestiere ha fatto il Sindaco di Firenze non ricorda il primo giorno da Premier che è uno scandalo senza fine che il primo museo italiano – quello degli Uffizi – secondo la classifica dei musei più visitati del mondo è solo al ventisettesimo posto. Saremmo di fronte all’ennesimo appello retorico se non riuscissimo a portare ad un livello almeno paragonabile a quello della Spagna la spesa per la valorizzazione dei beni culturali (spostandovi risorse dalla difesa, ad esempio, che costa all’Italia venti volte più della cultura) e se qualcuno non stabilisse – una volta e per tutte – che i singoli musei non sono più monopolio dello Stato concedendone la gestione a fondazioni autonome, come accade negli altri Paesi europei.
Infine l’Italia non potrà dire di aver superato i vent’anni di letargo, senza una legge elettorale ed un assetto istituzionale che consenta ai cittadini di contare e alla politica di decidere.
Un’Italia che mettesse finalmente in ordine la sua casa, avrebbe, finalmente, le carte in regole per dare un contributo ad un progetto europeo di cui è socio fondatore. La sconfitta, al contrario, rischia di far esplodere quel progetto. Tutto è possibile ma tutto si gioca in pochi mesi, settimane.
Sono queste le sfide e ad esse va fatto corrispondere – proprio come nell’esempio di un progetto di turn around – compiti specifici, tempi, responsabilità. A viso aperto, facendo seguire all’orgia dei simboli, una successione efficiente di interventi.
Se anche solo uno dei tasselli necessari per vincere la missione impossibile venisse meno, l’unico piano B per Matteo a quel punto diventa andare alle elezioni,indicando per nome e cognome la responsabilità di chi ha fatto venir meno il suo contributo al piano di salvataggio dell’Italia. L’alternativa è farsi bruciare a fuoco lento e, purtroppo, su quella graticola finirebbe un’intera società e persino categorie privilegiate che non possono non sapere che non ci sono più soldi per sostenere quei privilegi.
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