Piange Il telefono
di Michele Mezza
Diritto all’Oblio, si blatera per criticare la rete. Ma anche dignità della memoria, grazie alla rete.
Vogliamo fare un po’ di storia per il caso Telecom? Vogliamo vedere chi la privatizzò e soprattutto chi volle privatizzarla in quel modo miserabile ? Dico subito che sulla questione accuso un conflitto d’interessi. Coincide con una parte della mia misera vita politica particolarmente tesa ed esposta, che si giocò proprio sulla vicenda Telecom, o Stet, come allora si chiamava.
Pronti? via..
Siamo al primo governo Prodi. Ancora ebbri per la vittoria, grazie alla scissione della Lega che si mise momentaneamente in proprio, il centro sinistra sconfisse il puzzone alle elezioni del 1996. Il governo veleggia speditamente verso Maastrich.
Ma qualche pegno bisogna pagarlo agli gnomi , che ancora arricciano il naso.
Bisogna non solo sbaraccare le partecipazioni statali, che Prodi ben conosce, ma soprattutto impedire che ritorni alcuna tentazione di elaborare vere strategie industriali autonome.
Il paese deve arrivare nudo alla meta. E si comincia di gran carriera: Sme, Alfa Romeo, l’intera siderurgia. Tutto svenduto come paccottiglia, come vediamo oggi a Taranto.
Ma non basta, bisogna puntare al cuore dello Stato. Bisogna stroncare ogni ambizione di competitività tecnologica. Questo paese è troppo effervescente, ha alle spalle ancora il vago ricordo della vicenda Olivetti, e qualche velleità tipo Eni di Mattei è rimasta. Bisogna asfaltarlo, come si dice oggi, definitivamente.
Il bersaglio è la Stet, un grande impero, gonfio di denaro liquido per le bollette telefoniche che incassa, soprattutto titolare di una ragnatela di doppini in rame che potrebbe essere una miniera d’oro. Tanto più che i due boiardi che lo governano, Biagio Agnes e Luciano Pascale, hanno scarpe grosse ma cervello fino. Hanno capito che il futuro è quella nebulosa galassia di interconnessioni digitali.
Non hanno ancora in mente Internet, ma sicuramente un sistema di connessioni veloci. Propongono e, come imperdonabile, avviano il cosiddetto Piano Socrate, un progetto per cablare tutte le città italiane, l’85% della popolazione. Francia e Germania sono ancora a caro amico.
Bisogna stroncare le ambizioni, e forse anche regolare qualche conto fra vecchi boiardi. Si monta la campagna: tutti meglio di Agnes e Pascale, delenda Cartago: privatizziamo la Stet. Il gran can è aizzato ovviamente da banche e centro destra.
Ma è soprattutto la sinistra che si distingue: andate a vedere chi e come si scalmanò? D’Alema, Prodi, Nerio Nesi, Repubblica, Espresso, gli stessi sindacati non si tirarono indietro, perfino la CGIL si agitava per assestare qualche calcione al cadavere della Stet. Solo una misera pattuglia, di infima minoranza che transitava in Rifondazione Comunista, ma ne era già in dissenso, raccolta attorno all’on Gianfranco Nappi, teneva alta la bandiera di un controllo pubblico sui segmenti sensibili, esattamente come facevano i francesi a France Telecom e i tedeschi a Deutsch Telekom, dove per altro sono ancora insediati i rappresentanti pubblici.
Sbeffeggiati e derisi. Chi vi parla , allora modestissimo inviato Rai, venne criminalizzato perfino da quell’allegra brigata dell’Usigrai di Beppe Giulietti che difendeva il carattere pubblico della Rai ma erano disposti a chiudere un occhio su Telecom per convenienze politiche.
E tutto accadde: via, via vendere, svendere, regalare. Prima l’Olivetti , poi la Fiat di Rossignol, poi quel bell’imbusto di Tronchetti Provera. Tutti dilettanti allo sbaraglio, ma soprattutto straccioni con il cappello in mano. Non hanno messo una lira. Solo contratti di consulenza hanno strappato. Ma il punto non è questo. La vera tragedia si consuma nell’ombra.
Perché insieme alla privatizzazione dell’unico centro di governance del futuro tecnologico italiano, esattamente come accadde nel 1964, con la svendita della divisione elettronica dell’Olivetti alla General Elettric, si procede militarmente a dissodare il terreno.
Già qualche manina previdente aveva piazzato al ministero delle telecomunicazioni Antonio Maccanico, gran visir di Stato, con le stimmate di Pertini, ma soprattutto con il più bel grembiulone della repubblica.
E Maccanico si prodigò. Mentre giocava in maniera inconcludente a guardie e ladri con Berlusconi, senza mutare minimamente la situazione di monopolio dell’altro grembiulone, si dedicava a smantellare ogni possibilità di controllo pubblico del settore delle telecomunicazioni, con quella straordinaria invenzione di cui tutt’ora le sinistre, in ogni versione – estrema, moderata, mollacciona, furtibonda – se ne beano: le authority.
Cosa sono, niente altro che un modo per cui la politica si spoglia delle sue responsabilità e sovranità delegandola ad alcuni signori in marsina e grembiule che decidono per tutti. Guardate chi sono stati i presidenti delle autority in questi 18 anni: uno peggio dell’altro. E perché un gruppo di tecnocrati deve avere più titolo per decidere dei valori pubblici di chi è delegato dal consenso elettorale?
E’ in questo gorgo di poteri riservati, di lobbies internazionali, ma soprattutto di velleità politiche e di debolezze culturali che nasce il disastro italiano: la sinistra si consuma come un qualsiasi parvenu, con il cappello in mano, dinanzi a poteri che nemmeno conosce.
L’estrema sinistra gioca a scacchi con il proprio carnefice e cerca di saperne una più del diavolo. Nel frattempo si perdono ambizioni e volontà. E soprattutto strumenti operativi. Non a caso di questo non si parla nel congresso del PD. Vendola fa il poeta.
Il sindacato chiede di seppellire meglio i propri morti.
Il tutto senza nemmeno la decenza di dire : io pensavo questo e mi sono sbagliato. Solo con l’arroganza di dire, il mondo non ha collaborato con il mio disegno, ma avevo ragione.
Basta, a casa comunque.
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