La linea di Maginot di Letta sui finanziamenti pubblici ai partiti
di Francesco Grillo
È finalmente uno scatto di orgoglio quello del Presidente del Consiglio Enrico Letta sulla questione del finanziamento pubblico ai partiti. Giusto fissare su questa questione – così come su quella gemella dell’abolizione dell’attuale legge elettorale – la linea Maginot di un qualsiasi Governo che voglia tentare la missione impossibile di far ripartire un Paese in gravissima crisi, non solo economica ma anche morale. È giusto perché il superamento della vergogna dei rimborsi elettorali e quella delle liste bloccate, è una precondizione per ricostruire quel rapporto di fiducia minima tra cittadini e politica, senza il quale qualsiasi progetto di cambiamento soffrirebbe di una carenza di legittimazione che lo condannerebbe all’insuccesso.
Del resto, è proprio sulla frattura che attraversa il PD ed il PDL, tra chi vuole voltare pagina e chi – per ragione di sopravvivenza minima – vuole conservare il sistema esistente, che Letta – ancora di più che sulle sentenze della Cassazione e la quadratura del cerchio sull’IMU e sull’IVA – si gioca i suoi margini di autonomia e il suo futuro. È una battaglia campale e, forse, può valere la pena provare a vincerla, trasformando la provocazione dei centocinquanta emendamenti al disegno di legge, in una opportunità per migliorare ulteriormente le nuove regole.
È una riforma dura quella proposta dal disegno di legge che il Governo pone, adesso, all’attenzione del Parlamento. Una durezza resa inevitabile dalla sordità di Partiti che, per anni, hanno preferito aggiustare, invece che cambiare drasticamente registro. È, tuttavia, la proposta non cancella il finanziamento pubblico e non porta, come dice qualcuno, l’Italia fuori dal contesto delle democrazie occidentali, laddove tutti i Paesi europei prevedono che il costo della politica sia, almeno, in parte a carico dello Stato. Non abolisce questa legge il finanziamento pubblico, anche se sostituisce progressivamente i fantomatici rimborsi elettorali con un costo per lo Stato sotto forma di minori entrate tributariegenerate dalla detrazione parziale delle donazioni ai Partiti e l’eventuale destinazione ad essi del due per mille delle imposte sul reddito.
È una riforma radicale, però, perché avvicina l’Italia agli Stati Uniti e ai Paesi anglosassoni più che alle altre democrazie dell’Europa continentale. La novità vera è che, con questa legge, introduciamo un utile ulteriore livello di democrazia: i cittadini non esprimono più la propria preferenza tra offerte politiche concorrenti solo attraverso il voto ogni cinque anni; ma lo fanno ogni anno usando denaro proprio o decidendo di finanziare la politica con una parte dei denari che sarebbero andati al Fisco. Potendo scegliere sia l’entità del trasferimento (che può essere pari a zero nel caso in cui un contribuente rifiuti in blocco l’offerta politica attuale), sia il Partito che ne beneficia. Si introducono, peraltro, anche le imprese tra i soggetti che possono finanziare e ottenere detrazioni, riconoscendone, di fatto, il ruolo di soggetti politici che sono, quasi, sullo stesso piano degli elettori. La legge prevede, peraltro, che i Partiti si dotino – per potersi qualificare come possibili destinatari dei finanziamenti – di regole finalmente trasparenti che ne assicurino la democrazia interna e che, in maniera altrettanto trasparente, pubblichino l’elenco di tutti i propri finanziatori.
Il sistema italiano potenzialmente passa di colpo dall’essere uno dei più arretrati ed opachi ad uno di quelli piùvicini all’ideale liberale di Partiti che sono, invece, costretti a conquistarsi giorno dopo giorno il consenso dei cittadini.
L’operazione ha, ovviamente, dei rischi.
Il primo e più ovvio è che nessuno decida di aderire al sistema delle donazioni volontarie. Scenario persino peggiore è quello di un sistema nel quale sopravvivono solo le sponsorizzazioni da parte delle imprese e dei soggetti economicamente più forti e la proposta del PDL di garantire l’anonimato ai “benefattori” della politica renderebbe un risultato di questo genere ancora più pericoloso. Entrambe le ipotesi sono, in questo momento di ostilità nei confronti di tutto ciò che ha a che fare con la politica, assolutamente possibili e dimostrano come quanto sia delicato mettere mano ai meccanismi della democrazia.
Un finanziamento – più piccolo di quello attuale – potrebbe, però, anche continuare ad esistere ma in una forma completamente rinnovata: il suo ammontare complessivo dovrebbe essere legato ai voti espressi e non al numero di iscritti alle liste elettorali in maniera da dare un valore (economico) all’astensione ed un incentivo all’offerta politica nel suo complesso a migliorare il suo rapporto con i cittadini risolvendo i problemi; la distribuzione tra i partiti potrebbe avvenire fornendo (come succede in Inghilterra) una preferenza per chi è all’opposizione che, presumibilmente, ha maggiore difficoltà a garantirsi un supporto da parte dei privati. Infine, un’ipotesi potrebbe essere quella di “scambiare” il mantenimento in vita di un finanziamento della vita dei Partiti – comunque ridimensionato e rinnovato nelle sue forme – con una rinuncia – questa sì molto importante – da parte di chi faccia il funzionario di Partito della possibilità di ricoprire una qualsiasi carica in società e aziende controllate da Enti pubblici per un certo numero di anni (come propone Fabrizio Barca per il PD): ciò stroncherebbe un meccanismo di finanziamento della politica ancora più perverso e dannoso per l’economia italiana.
La legge è un’ottima legge e, forse, proprio per il suo livello di ambizione comporta alcuni rischi che potrebbero essere ridotti da una serie di meccanismi di salvaguardia. Anzi, si potrebbe pensare di disegnare sin da adesso dei meccanismi che possano essere introdotti nel caso in cui si verifichino – sulla base di indicatori predefiniti – risultati non voluti.
Tuttavia rimane giusta l’idea che non c’è futuro, non c’è la possibilità di un nuovo patto sociale e di riforme, se non modifichiamo profondamente i meccanismi attraverso i quali i Partiti selezionano la propria classe dirigente, aggregano consenso attorno ai propri progetti e competono.
Articolo pubblicato su Il Messaggero del 24 Luglio
Lascia un commento