Piazze vuote, urne vuote, grandi speranze
di Michele Mezza
Ma davvero è andata così bene? davvero dobbiamo sfregarci le mani per il voto? A 36 ore dalla chiusura delle urne, il chiacchiericcio monta e la psicanalisi prevale sulla politica.
Lo spettro pare svanito, i cattivi perdono, il prepotente sembra nell’angolo e i buoni si rasserenano. Ma il tutto accade senza voti. O meglio con i voti delle piazze, solamente.
Infatti il dato che a me pare più rilevante di queste votazioni di primavera sotto la pioggia è la sintonia fra le piazze e le urne.
Si era già intravista alle ultime politiche, ma alle amministrative è diventata una regola fissa: piazze vuote, urne vuote.
Negli anni precedenti era invalsa una relazione inversamente proporzionale: piazze piene urne vuote e vice versa.
Cosa ci dice questo nuovo fenomeno: si è squagliata la militanza, si è rarefatto l’apparato, e persino i movimenti di opinione si dissolvono.
Non solo le vecchie identità, o narrazioni, come dicono i colti, sono ormai mute, ma anche la partecipazione a identità collettive non reggono granchè. Non si milita per dispetto a qualcuno.
Non ci si muove solo per adesione. Ci si muove, quando ci si muove, per comune sentire, per compatimento, in senso latino: cum patio. Bisogna condividere una percezione, un sogno o un incubo.
La disgregazione dei ceti sociali forti -lavoro e proprietà- ha lasciato posto a sentiment politics, come dicono i sociologi americani: a stati d’animo, ad emozioni comunitarie. La giustizia, la morale, il rigore, il nord, l’anti elitarismo, il populismo, la partecipazione, la rottamazione. Queste sono state le tappe di avvicinamento a questo nuovo fenomeno che oggi accomuna l’Italia alle dinamiche anglo sassoni, dove, come spiega Bauman, le lotte di classe sono sostituite alle lotte per apparire.
Ma non è un fenomeno fatuo, frivolo, banale. Apparire significa essere, affermarsi, interferire, non subire. E’ qualcosa di molto profondo, è l’inizio di un percorso che ci porterà ad una nuova forma di politica dell’immaterialità. Il punto nodale consiste non tanto nella condivisione di un sentimento.
Non sarebbe una novità.
La lotta sociale, la battaglia per la democrazia, l’emancipazione delle donne, i conflitti razziali, le contrapposizioni generazionali, erano tutti scontri di emozioni, prima ancora che di interessi.
Quello che sta cambiando è che oggi ognuno di noi vota, si esprime, parteggia, aderisce, milita solo quando è parte costituente del sentimento, solo se è elemento promotore, o almeno di condivisione attiva, dello stato d’animo.
Grillo aveva creato questa magia. Prima di Lui la Lega era riuscita in alcune aree a costruire la comunità di sentimenti.
E ancora prima è stato Berlusconi , forse inconsapevolmente, ad allestire uno straordinario cantiere degli stati d’animo,grazie alla sua egemonia televisiva: la libertà, il successo, il machismo, la ricchezza, l’anti politica. E cosa altro aveva fatto la sinistra quando innestò quel processo che Gramsci chiamò mirabilmente egemonia culturale: l’emancipazione, il progresso, la lotta di classe, il futuro, i giovani, la rivolta, il potere.
Ma tutto questo era basato su un modello top-down, su un unico centro trasmittente e tanti riceventi.
Ora invece cambia questa dinamica. Il modello non è più il broadcasting, la TV, da uno a tanti, ma si impone il modello a rete, il social networking: da uno a uno, fino alla vittoria. Obama insegna.
La campagna elettorale si fa chiacchiera per chiacchiera, cena per cena, porta a porta, sito per sito, forum per forum chat per chat: non per diffondere ma per condividere.
L’astensionismo è una conseguenza: io non voto perchè non li incontro mai dove sono io, non li vedo mai dove parlo io, non li ascolto mai dove discuto io. Qui inizia la contaminazione: io a quelli non glielo dò il mio voto. Si figuri , signora mia.
Il popolo si ritira, si rintana nei propri ambiti di opinione: l’ufficio, la famiglia, il condominio, il circolo, l’azienda, il bar,il web.Il resto è nemico.
Rimangono sulla scena politica, nelle piazze e nelle urne i clienti, gli staff, gli aspiranti, i sedotti, qualche seduttore.Il 50 % del paese.
La gente normale chiacchiera, brontola, protesta, si consola nel linciaggio dei vertici.
Lungo questo crinale troviamo una perfetta convergenza fra la piazza e le urne: si partecipa se si è protagonisti, altrimenti si sta a casa e non si vota.
Non serve più un partito che organizzi, serve un partito che ascolti. Mai come ora servirebbe un intellettuale collettivo che orchestri, non che insegni. Non servono alfabetizzatori gramsciani, ma moderatori digitali. Serve una rete di relazioni, di messaggi, di discussioni, di proposte di progetti, di delibere, di obbiettivi. Serve un senso comune non una bandiera.
Serve un calendario per farci capire quanto tempo è passato dalle elezioni militanti. E farci ricordare quello che si dicevano all’inizio degli anni ’60 gli intellettuali cattolici, senza chiesa, e i comunisti senza partito: il consumo riclassifica la società, la fabbrica militarizza i bisogni, la politica deve dare aria alla società, bisogna essere più bravi del capitale.
Poi finì la ricreazione, e tutti tornarono nelle caserme ideologiche e si iniziò a giocare al 68.
Ora si ripropone un’occasione: niente ideologie forti, grande protagonismo sociale, leaders disoccupati, e centri di comando screditati.
E se davvero ci credessimo alla democrazia come benefica confusione e creativo disordine?
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