Un’agenda in cinque punti per evitare il declino
di Francesco Grillo (su Il Messaggero del 17 Dicembre 2012)
Sono cinque i nodi programmatici che una coalizione che volesse affermarsi alle elezioni e avviare un’azione di governo con l’ambizione di durare nel tempo, dovrà sciogliere nelle prossime settimane. Perché è dalla capacità di affrontarli che dipende la possibilità per un qualsiasi governo di vincere la sfida della crescita in un Paese fermo da vent’anni. Ed è dunque dal consenso su tali scelte che dovrebbero dipendere anche le decisioni sulle discese in campo e sulle alleanze. Paradossalmente è proprio Monti che ha le maggiori possibilità di indicare come superare alcuni dei limiti dell’agenda del proprio primo governo e trasformare un’esperienza di salvataggio in un progetto di cambiamento in grado di coinvolgere l’intera società italiana.
In primo luogo, continua ad essere indispensabile una modifica drastica della distribuzione della spesa pubblica tra poste diverse ed, in particolare, bisognerà spostare risorse dal supporto del passato all’investimento in futuro. Nonostante che proprio sulle pensioni il Governo abbia fatto la sua riforma più coraggiosa, il paradosso continuerà ad essere enorme anche per i prossimi anni: spendiamo in pensioni cinque volte di più di quanto non investiamo nella scuola di ogni ordine e grado, università e ricerca; più di qualsiasi altra nazione e se solo riallineassimo la spesa italiana a quella dello stato con il più avanzato welfare nel mondo (la Germania) potremmo risparmiare ottanta miliardi di euro all’anno. Una cifra così grande da metterci potenzialmente nella condizione di poter raggiungere obiettivi che sono attualmente fuori dalle nostre possibilità: riportare la spesa per Università e Scuola al livello dei Paesi che maggiormente puntano sulla conoscenza come fattore di sviluppo; ma anche garantire a tutti un salario nei periodi di inoccupazione e percorsi di reinserimento nel mondo del lavoro. Per riuscirci bisognerà avere il coraggio di mettere in discussione il totem dei diritti acquisiti. Convincendo anche gli anziani di questo Paese che conviene anche a loro un welfare più dinamico e che dia opportunità ai propri nipoti.
In secondo luogo, è necessario che chiunque gestisca risorse pubbliche risponda dei risultati della propria azione nei confronti dei cittadini. Il problema più grosso, infatti, non è il costo della politica e, forse, neanche la disonestà di chi si occupa di risorse pubbliche. Ma che non abbiamo nessuna idea di quanto renda un ospedale, una scuola o un ministero, che nessuno è pagato o selezionato sulla base di una prestazione misurabile e che, dunque, gli stessi fenomeni di corruzione vengono identificati solo quando essi sono diventati patologici ed è troppo tardi per evitarne il danno. Ma qualsiasi ulteriore riforma che andasse in questa direzione, avrebbe bisogno assoluto che venisse colmata, contemporaneamente, la lacuna più importante della pur difficile riforma del mercato del lavoro tentata dalla Fornero: se i dipendenti pubblici continuano ad essere inamovibili, qualsiasi faticoso processo di revisione della spesa pubblica è destinato a risultati modesti e le stesse amministrazioni pubbliche sono condannate alla obsolescenza se hanno la sola leva del blocco delle assunzioni per ridurre i costi.
Sul fisco e sulla giustizia – a differenza di ciò che è successo per pensioni e lavoro – il Governo non ha praticamente cominciato. Eppure è su questi due aspetti – più che su altri – che ci giochiamo partite di straordinaria importanza: non solo sul piano dello sviluppo economico e della possibilità di attrarre o trattenere imprese e professionisti innovativi, ma anche di quello della fiducia necessaria per la tenuta di un qualsiasi patto sociale tra Stato e cittadini.
Sul Fisco va stabilito con chiarezza definitiva che tutte le entrate addizionali create dalla lotta all’evasione devono essere destinate a ridurre il peso delle imposizione fiscale rispetto al PIL. Ma non meno importante è impegnarsi – anche a parità di gettito – a ridistribuirlo per correggere il vantaggio che il nostro sistema fiscale produce a vantaggio di chi gode di rendite senza spostare un dito e a detrimento di chi vive del suo lavoro. È giusto insistere che tutti contribuiscano e, tuttavia, per non ridurre gli anatemi contro gli evasori ad un esercizio retorico, è indispensabile diminuire la complessità del sistema perché per numero di giorni necessari per determinare quanto bisogna versare l’Italia fa registrare una delle sue prestazioni più disastrose (secondo la Banca Mondiale, siamo al centotrentunesimo posto nel mondo). Ed è, ovviamente, proprio l’incertezza che rischia di far fuggire il contribuente onesto e creare la tentazione a delinquere per chi lo è di meno. Non meno importante è ricostruire un rapporto di correttezza tra Stato e cittadini anche negli stessi processi di controllo e recupero di imponibile e che in aree vaste del Paese, soprattutto al Nord, ha prodotto rivolte e suicidi: da una parte, bisognerà riconoscere gratificazioni significative legate alla capacità delle agenzie dello Stato di colpire chi crea per se stesso un vantaggio competitivo evadendo; ma, dall’altra, se vogliamo tornare a standard di civiltà spesso saltati nell’emergenza, bisognerà trovare il modo per riconoscere una compensazione significativa ai contribuenti costretti a difendersi da errori.
Principi simili valgono per la giustizia: stiamo, probabilmente, entrando in un’era nuova, non più condizionata dalla centralità di Berlusconi e che potrebbe vedere la fine dell’interminabile guerra di trincea tra chi ritiene intoccabile la magistratura e chi, invece, ne contesta la politicizzazione. Un approccio più pragmatico suggerirà che la soluzione del problema passa, anche in questo caso, da una maggiore responsabilità dei magistrati nei confronti dei cittadini e da una riorganizzazione guidata dall’osservazione di quanto possano essere diversi i risultati ottenuti da tribunali diversi.
Infine, l’Europa. Anche qui non si tratta solo di stabilire se essere più o meno euro entusiasti o euroscettici. Ma di fare scelte precise, a partire da quelle relative alla definizione del budget comunitario nei primi mesi del prossimo anno. Non solo perché la crisi europea non è meno profonda di quanto lo sia quella italiana, e rende indispensabile approcci radicalmente diversi da quelli seguiti negli ultimi decenni di inerzia e costruzione dall’alto. Ma anche perché se volessimo assumere un ruolo in linea con la nostra storia e il contributo (il più alto tra tutti i ventisette soci dell’Unione) pagato dal nostro Paese ogni anno al budget europeo, non possiamo più essere delegittimati dalla difesa dei comportamenti di alcune nostre Regioni che non riescono a spendere i fondi strutturali e degli interessi di un’industria agroalimentare che in alcuni settori vive esclusivamente di contributi comunitari.
È possibile riuscire a costruire una società italiana finalmente più dinamica e contemporaneamente più giusta. Per riuscirci, però, bisognerà spazzare via antiche certezze, convincendo chi è stato finora escluso a partecipare e chi ha vissuto di privilegi che il cambiamento non ha alternative. Sarà necessario dire la verità e suscitare speranza: potrebbe riuscirci un professore di economia.
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