La lunga estate del 63
di Michele Mezza (su Mediasenzamediatori.org)
Nel 1963 l’Italia vince a mani basse tutti i principali festival del cinema in Europa: a Cannes con il Gattopardo di Luchino Visconti, a Venezia con Le mani sulla città di Francesco Rosi, e a Mosca con 81/2 di Federico Fellino, che l’anno dopo sbancherà a Los Angeles la notte degli oscar.
Qualche mese dopo un’altra raffica di capolavori: Deserto Rosso di Antonioni,Prima della Rivoluzione di Bernardo Bertolucci,I Pugni in Tasca di Bellocchio, Giulietta degli Spiriti ancora di Fellini.
La Tv di Bernabei si trovava a dover trasmettere pezzi di inedita letteratura televisiva , dopo i Giacobini, Il Mulino del Po di Sandro Bolchi, Delitto e Castigo di Anton Giulio Majano, Mastro don Gesualdo di Vaccari,I Miserabili ancora di Bolchi. Mentre Jannacci e De Andrè anticipano il 68 con la poetica in musica dei giovani metropolitani.
Che Italia era quella che stava dietro a quel Rinascimento culturale? l’Italia della lambretta, dei cappottoni con i revert lunghi, l’Italia delle ondate migratorie, dei terroni che invadevano il nord, dove ancora un terzo delle case non aveva contemporaneamente acqua, luce, telefono e servizi .
L’Italia della DC, con il pallido centro sinistra senza riforme e un PCI che si interrogava su come stare in occidente. Eppure quell’Italia fece sognare , perchè sognava essa stessa.
Sognava lo sviluppo, sognava l’abbondanza, sognava la felicità. E sognava la fabbrica. Era l’Italia che prendeva confidenza con la fabbrica, la viveva, la possedeva, la combatteva, ma la amava.
A Milano, Torino, Genova migliaia di ragazzotti di campagna, con le magliette a strisce,si immergevano nei reparti meccanizzati, si spalmavano lungo le catene di montaggio. E trovavano straordinari maestri di vita, quadri sindacali o di partito, che li aiutavano a stare con la schiena dritta: o si cambia la fabbrica, o si cambia la fabbrica.
E la fabbrica cambiò: dalle pause fisiologiche, prima vietate, al diritto ad andare al gabinetto, a riposarsi ogni due ore;da una settimana di ferie degli operai fino ad un mese, dalle gabbie salariali all’eguaglianza, dalla differenza fra uomo e donna alla giustizia. Il tutto in pochi anni. E poi ancora avanti: cosa c’è scritto nei bilanci? come si organizza la produzione? come si cambiano gli orari? come si ridisegna la catena? Borletti, Brada, Italcantieri, Fiat, Olivetti.La sinistra si fermò a pensare il nuovo. I socialisti giocarono la partita del governo, da soli. I comunisti, in un leggendario convegno dell’Istituto Gramsci del 1962,cominciarono, per la prima ed ultima volta, a riflettere sul dopo fabbrica, guardando ad ovest e non ad est.
.C’era anche il sogno del futuro: i primi computer italiani, primi nel mondo per dimensione e potenza, proprio all’Olivetti; la prima strategia di condivisione del Petrolio, con l’ENI di Mattei; l’assalto civile all’atomo, con il CNEL di Ippolito. Il paese si trovava, quasi inconsapevolmente al vertice di settori decisivi. E poi la grande scena : il Concilio vaticano secondo, il Papa Buono, tutti gli occhi del mondo l’11 ottobre del 1962 su quella magica Piazza S. Pietro, in quella notte romana con la Luna più grande del mondo e Giovanni XXIII che dice: anche la Luna si è fermata ad ascoltare il Papa: quando tornerete a casa, vedrete i vostri bambini, date loro una carezza e ditegli è la carezza del Papa”.
Ci trovammo in testa. Troppo in testa. Qualcuno non volle e da allora stiamo rotolando in coda. Via l’Olivetti, via Mattei, via il CNEL, via le imprese, la morte del papa Buono, e quella di Kennedy a Dallas. La congiuntura internazionale ci voltava le spalle.
Ma non solo.
L’Italia smise di sognare, perchè smise di progettare. La fabbrica non fu più un laboratorio ma un ghetto: non si poteva superarla ma solo conquistarla. Le nuove forme di vita- i nuovi consumi, l’individualizzazione, le prime tecniche computerizzate,l’ambizione alla competitività,uno stato ordinatore e non pasticcione- furono esorcizzate dietro ideologismi come la centralità operaia e la spesa pubblica.
Oggi , dopo 50 anni da quella stagione ci voltiamo e sappiamo solo nutrire una bolsa nostalgia o asserragliarci dietro la più qualunquistica delle considerazioni: non ci sono più quegli italiani.
Quegli Italiani non erano granchè. Avevano alle spalle solo un paese che , come dice Bourdieu guardava al futuro con i piedi ben saldi nel presente: controllava il modo di produrre e interferiva sulle forme dell’innovazione. Era questo il mulino che macinava la nuova cultura: dal conflitto alla Borletti, o alla Breda, dalle nuove figure metropolitane, dalle ambizioni dei giovani universitari, nascevano Fellini, Visconti, Antonioni. oggi abbiamo le primarie, o l’articolo 18, mentre il mondo si gioca sui nuovi algoritmi e la gestione delle forme di memoria condivisa.
Il governo tecnico è un patetico velo che copre il vuoto di conflitto reale che c’è nel paese. La strada sarà lunga, ma di lì dovremmo passare: o si riprende a sognare nella fabbrica del nostro tempo o non si va più a cinema, e fra poco nemmeno si vedrà la TV.
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