La green economy un alibi per salvare un’idea di sviluppo energivora? I limiti di Copenaghen
Un articolo come quello di Riccardo Petrella apparso sull’ultimo Monde Diplomatique testimonia la possibilità di un ambientalismo adeguato alla gravità della crisi ecologica attuale; capace non solo di vederne la disperata urgenza, ma di individuare la pressoché illimitata complessità di problemi che in essa si intrecciano, in un confronto finora squilibrato a favore dei poteri costituiti e delle idee dominanti, cioè degli stessi agenti che della crisi sono responsabili.
In vista della Conferenza sul clima programmata per dicembre a Copenaghen, Petrella innanzitutto analizza e duramente critica l’assurda contesa che, da un Summit all’altro, si riproduce praticamente invariata tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo, con ciascuno che pretende solo dall’altro drastici tagli alle emissioni di Co2.
Una sceneggiata in cui, scontata l’evidente maggiore responsabilità dei «ricchi», è difficile anche assolvere i «poveri», non solo preoccupati esclusivamente della propria salvezza, ma ormai acquisiti al produttivismo occidentale e, come tutti, lontanissimi dall’auspicare un reale cambiamento del sistema operante: che è la causa prima sia dell’iniquità sociale di cui sono vittime, sia del collasso degli ecosistemi di cui anch’essi sono responsabili.
E in ciò Petrella merita la nostra gratitudine per affrontare il problema con un taglio che – tranne rare eccezioni – anche gli ambientalisti più impegnati ignorano. «I paesi potenti non hanno alcun interesse a modificare le cause strutturali del disastro climatico. Al contrario tutti sembrano ormai convinti, al Nord come al Sud, che la soluzione alla crisi mondiale passi per il rilancio della crescita, dell’economia di mercato, ma di colore verde (automobile verde, energia verde, abitazione verde…).
Nessuno potrebbe contestare l’importanza e l’urgenza di ‘mettere al verde’ le nostre economie. Tuttavia, colorare di verde il sistema economico senza modificarne i principi e le modalità di funzionamento che sono all’origine della crisi, ha poco senso (…).
Abbiamo davvero bisogno di altre centinaia di milioni di automobili e di camion, anche se verdi? Così milioni di abitazioni supplementari a energia passiva e attiva, a New York, Parigi, Francoforte, Osaka, Dubai, Los Angeles… non risolveranno niente per miliardi di persone povere, senz’acqua potabile né servizi sanitari, senza abitazione decente, senza accesso alla sanità e all’istruzione base».
Sono parole su cui dovrebbero riflettere i tanti ambientalisti che credono di poter arrestare il collasso degli ecosistemi affidandosi al «green business», di fatto identificando il problema ambiente soltanto con il mutamento climatico; il quale certo, nell’impazzimento delle stagioni e nel moltiplicarsi di fenomeni meteorologici «estremi», ne costituisce la conseguenza più grave, ma non può essere considerata la sola, col rischio di mancare l’intero obiettivo.
Come appunto dice Petrella, «la vampirizzazione» dell’agenda relativa all’ambiente da parte della questione energetica «costituisce un’evidente mistificazione delle priorità del mondo».
A cominciare dall’acqua, gigantesco problema di cui Petrella è studioso di fama mondiale. L’acqua dolce, necessaria garanzia della nostra salute e insostituibile alimento di ogni forma di vita, oggi va facendosi sempre più scarsa: certo a causa del riscaldamento atmosferico e conseguente scioglimento dei ghiacciai, ma anche (e questo quasi sempre si dimentica) per via del moltiplicarsi delle attività industriali, non soltanto forti consumatrici d’acqua, ma agenti di gravi forme di inquinamento.
Per continuare con la quotidiana produzione di miliardi di tonnellate di rifiuti non trattati e non trattabili, tra cui scorie tossiche e radioattive; con mari e oceani sistematicamente invasi da idrocarburi e immondizie di ogni tipo, sovente secondo criminali operazioni di lucro; con milioni di intossicati e migliaia di morti da pesticidi tra i lavoratori agricoli; con malformazioni e tumori che si moltiplicano specie tra i giovani nei territori a intensa industrializzazione; con tossicità diffusa anche sotto l’innocua apparenza di sostanze e oggetti d’uso quotidiano (plastiche, vernici, colle, conservanti, detersivi, additivi, ecc.).
E’ accettabile tacere tutto ciò e puntare solo sulla «green economy», creando l’ottimistica attesa di un futuro libero da inquinamento e da scarsità energetica, con sicuro rilancio di produzione e consumi?
«Negoziare il futuro dell’umanità unicamente a partire dall’energia (…) è una grave colpa storica», è il duro, lucido, sacrosanto giudizio di Petrella. Il quale, proprio sulla base di queste verità avanza ben poco ottimistiche previsioni circa la prossima Conferenza di Copenhagen.
E al proposito commenta la recente convocazione da parte del governo danese di un World Business Summit, organizzato «per ottenere il sostegno delle imprese e della finanza». Al termine del quale è stata emessa una dichiarazione «i cui propositi sono tutti centrati sulla priorità da dare alle innovazioni tecnologiche, ai meccanismi di mercato e agli strumenti finanziari favorevoli al mondo dell’impresa privata», mentre è mancato qualsiasi altro impegno.
«In queste condizioni – conclude Petrella – è difficile pensare che eventuali proposte contrarie agli orientamenti e agli interessi del mondo degli affari abbiano qualche possibilità di essere prese in considerazione». Di fatto i responsabili del nostro futuro «hanno di nuovo imposto le logiche economiche, soprattutto finanziarie, per risolvere il disastro ecologico.
Una volta di più, insomma i cosiddetti «grandi» non solo sottovalutano la crisi ecologica e ignorano le vergognose iniquità che pure appartengono al mondo loro affidato, ma puntano a legittimare il dominio del capitalismo, il culto della ricchezza individuale, il primato del consumo.
Consumo «sempre energivoro, ma verde», ribadisce Petrella, mentre sembra abbandonare ogni speranza nella prossima Copenhagen.
Come dargli torto? E però, fra circoli culturali, gruppi pacifisti, centri ecologisti, organizzazioni femministe, ecc. si avverte un fermento, certo non chiaramente definito, ma presente e vivo, e – parrebbe – disponibile a un discorso radicale.
Forse il mio è solo un esorcismo, un’illusione scaramantica. Ma insomma, come immaginare che si continui a tollerare indefinitamente la sceneggiata di questi Summit che si susseguono senza senso né conseguenze di qualche utilità?
Voglio dire, una sorta di Seattle ecologista a Copenhagen sarebbe davvero impensabile?
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